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giovedì 31 maggio 2012

Occhio alla penna…e a quel pugno

Occhio alla penna (1981), il pugno di Doc (Bud Spencer) e Colorado Slim (Riccardo Pizzuti)
Nella cittadina di Yukka si è stabilito un insolito dottore, Doc (Bud Spencer). A complicargli la vita ci pensa una banda di fuorilegge. Occhio alla penna però...

di Luca Ferrari

È di sicuro uno dei film minori di Bud Spencer, specie perché privo del suo fedele "fratello di scena" Terence Hill. In compenso risponde presente il cascatore Riccardo Pizzuti, sempre insieme alla celebre coppia, qui nelle vesti del pistolero bardato di nero Colorado Slim. Nella pellicola Occhio alla penna (1981, di Michele Lupo) ci sono comunque alcune scene degne di imperitura memoria.

La prima è la mangiata colossale di Doc (Spencer), diventata poi sfida con lo sceriffo corrotto Bronson (Joe Bugner) a chi "sbafa" di più. Ma il vero cult è durante la resa dei conti, quando i fuorilegge cercano invano di far saltare in aria la cittadina di Yucca con la dinamite, trovando però la ferma opposizione di Doc e l’indiano Girolamo (Amidou).

E mentre Colorado Slim si sta aggirando per il paese, qualcosa di bizzarro lo attira. Da una porta infatti sbuca un pugno. È lì, fermo. Statico. Lui si avvicina. Non sa cosa ci sia lì dietro. Si avvicina un po' troppo, e un attimo dopo si ritrova tramortito per terra.

Occhio alla penna, la sbafata
Occhio alla penna (1981), il pugno di Doc (Bud Spencer) attende...
Occhio alla penna (1981), il pugno di Doc (Bud Spencer) e Colorado Slim (Riccardo Pizzuti)
Occhio alla penna (1981), il pugno di Doc (Bud Spencer) colpisce Colorado Slim (Riccardo Pizzuti)

lunedì 28 maggio 2012

Il pescatore di sogni (2012), lungimiranza è fede

Il pescatore di sogni -  Alfred (Ewan McGregor) e lo sceicco Muhammad (Amr Waked)
Tra progresso, interessi e fratellanza tra popoli, il vento dell'amore disegna la parabola de Il pescatore di sogni.

Ci serve una storia sul Medioriente che non abbia a che fare con le esplosioni, recita il sottotitolo del nuovo lungometraggio diretto dal regista svedese Lasse Hallström, Il pescatore di sogni (2012 - Salmon Fishing in the Yemen), film tratto dall’omonimo romanzo di Paul Torday. La pellicola, prodotta tra gli altri dalla BBC Film e la società marocchina Davis Films, racconta la volontà del ricco sceicco yemenita Muhammad (Amr Waked) d’importare la pesca al salmone nella sua terra d'origine.

Per realizzare questo ambizioso progetto, si rivolge alla società finanziaria inglese che cura i suoi affari in Europa, nella persona della dottoressa Harriett Chetwode-Talbot (Emily Blunt) che a sua volta contatta l’esperto Alfred Jones (Ewan McGregor), per verificarne la fattibilità. Decisamente scettico e deciso a neanche provarci lui, sarà l’incontro con l’emiro e forse la vicinanza della dolce Harriett a fargli cambiare idea.

A dispetto poi delle difficoltà, tra cui il privare i fiumi inglesi di diecimila salmoni, c’è qualcuno nelle alte sfere britanniche a Downing Street che vuole che la cosa vada assolutamente in porto. Lei è Patricia Maxwell (Kristin Scott Thomas), la burattinaia della politica. Dopo l’ennesimo incidente che ha causato vittime innocenti in guerra, deve trovare una notizia che riabiliti l’Inghilterra agli occhi dei paesi arabi. 

Cosa di meglio dunque di una “strampalata” idea da pompare a livello mediatico, e che vede i soldi di uno sceicco e le competenze del popolo di Sua Maestà unite? La scaltra capo ufficiostampa del Primo Ministro dà carta bianca all’ufficio di Alfred. Ed è sempre lei a sfruttare mediaticamente l’unico sopravvissuto in una missione di guerra, fatalità proprio quel Robert Mayers (Tom Mison) compagno di Harriet, e portarglielo alla donna direttamente in Yemen, a loro completa insaputa. Dandoli in pasto alla pettegola stampa locale (tutto il mondo è paese) che dinnanzi alla coppia, sa solo chiedere “come si sente” e “datevi un bacio”, mentre l'alto funzionario inglese lancia lenze insieme al magnate arabo.

Il grande merito di questo film è di offrire due storie in una stessa sceneggiatura. Da un lato c'è la tenera vicenda umana di Alfred e Harriett, entrambi delusi sentimentalmente per ragioni diverse: lui, sposato da anni con Ashley (Catherine Steadman), donna che pensa solo alla carriera. Lei da poco legatasi a un uomo partito in missione in Afghanistan e dato per disperso. All'inizio si tengono a distanza, specialmente da parte maschile. 

Con l'imbranato Alfred a chiamarla ossessivamente con il doppio cognome, e mai per nome. Ma nel momento del bisogno, le barriere si abbassano e un gesto premuroso diventa il trampolino di una nuova epoca umana. Le due anime inquiete vivranno la sfida della riuscita dell’impresa come metafora della possibilità di cambiare le loro vite, e scegliere di stare insieme. E così avverrà. Com’è giusto, e dolce, che sia. Perché non è detto che tutte le storie d’amore debbano finire male, con tradimenti o fughe vigliacche. Esistono anche persone che s’innamorano. 

E Alfred, uscendo dal suo status di uomo medio poco avvezzo alle imprese e perfino con un cognome che ne sancisce l’essere comune (Jones, equivalente dell’italiano Rossi), ammette i sentimenti per la collega perfino dinnanzi all’eroe di guerra. Lui ama Harriett. E anche per la ragazza è tempo di scegliere chi voglia il suo cuore. E quando vedrà che non tutti i salmoni sono morti dopo l’attentato alla diga, e stanno seguendo il proprio istinto e non la corrente verso il facile mare, allora anche lei è pronta per il grande salto.

La seconda storia ha un significato politico-sociale non indifferente. Lo sceicco incarna lo spirito di quei grandi uomini guidati dalla lungimiranza dei propri ideali. E per questo inevitabilmente ostacolati dalle ali estremiste del proprio popolo che vedono, in questo caso, il suo presunto capriccio come viatico per svendere la loro cultura in favore dell’Occidente. Per questo subirà un attacco alla sua persona direttamente nella tenuta in Scozia, e successivamente la manomissione della diga che rischierà di compromettere l’operazione salmone.

Da quando portare la vita significa offendere Dio?” chiede giustamente lo sceicco dopo le due aggressioni, e con quell’aria sconcertata di un bambino che ha subito un sopruso senza motivo? Un bambino nell’anima si, ma un saggio nel proseguo della vita. Muhammad però non cede allo sconforto, né alla vendetta. Comprende le ragioni di queste azioni, ma non intende arrendersi. I muri prima o poi cadono sempre. Cadranno anche i suoi.

L’intolleranza è un sentimento che non ha bandiere né confini, e credere che questa linea appartenga a una sola parte del mondo, sarebbe ridicolo oltre che da ignoranti. Forse il presidente Barack Obama non ha subito minacce, ma il fatto che non sia ancora riuscito, lui come altri, a mettere in atto una riforma sanitaria modello europeo per concedere diritti basilari a tutti, solo per l’ostruzionismo sconsiderato dell’ampia fascia di privilegiati, come la chiamereste?

E che dire di  Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, che cosa ha fatto di tanto diverso? È stato ucciso dagli estremisti perché voleva cambiare le cose, e abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo. Sono pochi gli uomini che hanno il coraggio di mettere in discussione lo status quo ideologico del potere oligarchico-dittatoriale. Chi lo fa, non pensa ai voti, né al denaro, né alla gloria. Pensa alla gente. E questo non piace a chi ha interesse a tenere uomini e donne sotto il proprio giogo.

Quando l’Inghilterra si lancia in commedie multiculturali, spesso ottiene risultati interessanti. Bend it like Beckham (2002, di Gurinder Chadha) è uno dei più fulgidi esempi, dove l’indiana Jessminder (Parminder Nagra) e la londinese Jules (una giovanissima Keira Knightley) giocano insieme in una squadra di calcio locale, e sognano di diventare professioniste.

È evidente come l’integrazione nel regno di Sua Maestà sia un spetto molto più naturale di tante altre nazioni, Italia in primis, dove le tante culture che affollano il Belpaese sono ancora viste come corpi estranei. E la prova più evidente è la loro totale assenza nelle commedie/film più noti, che al contrario attingono ancora dalla contrapposizione tra Nord e Sud, o peggio.

A chiudere il quadro infine del film Il pescatore di sogni, una sontuosa fotografia capace di passare dalla plumbea atmosfera delle acque fluviali britanniche ai paesaggi mozzafiato del deserto. E quando Harriet e Alfred sono lì, a scrutare l’orizzonte, nello Yemen, una donna con il velo che mostra solo gli occhi si avvicina con una tanica in pietra sopra la testa per offrirgli dell’acqua. Nel suo sguardo. Nei loro sguardi, c’è tutto quello che serve alla razza umana per vivere in pace: rispetto e condivisione. E il cominciare dai sogni, è sicuramente un buon inizio.

Il trailer de Il pescatore di sogni


Il pescatore di sogni - Patrica Maxwell (Kristin Scott Thomas)
Il pescatore di sogni - l’emiro Muhammad (Amr Waked) e Harriett Chetwode-Talbot (Emily Blunt)
Il pescatore di sogni - l’emiro Muhammad (A. Waked), Alfred (E. McGregor) e Harriett (E. Blunt)
Il pescatore di sogni - Alfred Jones (Ewan McGregor
Il pescatore di sogni - il dolce sguardo di Harriett (Emily Blunt)

sabato 26 maggio 2012

Una splendida e delicata storia d’amore

Il pescatore di sogni - Alfred (Ewan McGregor) e Harriet (Emily Blunt)
C'è l'amore per un progetto rivoluzionario e quello tra due persone, come accade ne Il pescatore di sogni tra Harriet (Emily Blunt) e Alfred (Ewan McGregor).

di Luca Ferrari

Vedere un film al cinema. Il pescatore di sogni (Salmon Fishing in the Yemen - 2012, di Lasse Hallström). Riguardare l’inchiostro ancora caldo con cui si sono presi stralci di emozioni. Essere pronti per rientrare in quanto appena vissuto, e poi la sorpresa più inaspettata. Trovare qualcuno (un’amica) che ha visto la stessa pellicola in un momento diverso. In un’altra città. E scoprire che la pensa esattamente come te. E chiederle allora di raccontartelo. E chiederle allora di lasciar uscire qualcosa dal suo nucleo interiore.

“Personaggi credibilissimi e ben delineati. Gli attori molto bravi, nonché a parer mio perfetti per le parti loro assegnate” scrive la veneziana Irene, “Kristin Scott Thomas come l’arpia da ufficio che non guarda in faccia nessuno per svolgere al meglio il suo lavoro. Ewan McGregor nella parte del nerd studioso, solitario e pescatore, con la sua dolcissima mania di portarsi i panini da casa. La stupenda Emily Blunt, brava ed espressiva. L’ho trovata di una sensualità sconcertante: bellissima ed elegante nei suoi poco valorizzanti vestiti da ufficio. 

Non so se sia stato fatto apposta, ma ricordo una scena in cui indossava un vestitino a fiori e un cardigan, mise che avrebbe potuto anche sembrare casalinga, per poi però tirar fuori unghie e denti per curare gli interessi del suo cliente. Che donna. Mi è piaciuto tutto. La fotografia. I paesaggi. La colonna sonora. La storia. Ogni tanto ci sono stati momenti un pochino inverosimili ma non credo che questo abbia impedito di goderci una splendida e delicata storia d’amore, di sogni e fiducia nella vita”.

Rileggo queste parole. È raro trovare persone che sappiano davvero apprezzare la semplicità di certe storie. Alle volte ho l’impressione che il cinema sia troppo ingolfato di banalità, preconcetti e classismo. Qui non c’è nulla di tutto questo. E come in questa immagine i due protagonisti guardano un po’ crucciati l’infinito, ciò comunque non gli impedirà di scegliere un happy end per le loro vite. No, loro non scelgono di seguire la corrente e raggiungere il mare. Loro vanno contro corrente. La risalgono. Come i protagonisti. È nel loro istinto. È nel loro DNA. È una loro scelta.

Il pescatore di sogni - Alfred (Ewan McGregor) e Harriet (Emily Blunt)
Il pescatore di sogni - Harriet (Emily Blunt) e Alfred (Ewan McGregor)
Il pescatore di sogni - Harriet (Emily Blunt) e Alfred (Ewan McGregor)
Il pescatore di sogni - Harriet (Emily Blunt) e Alfred (Ewan McGregor)

Dreams Fishing in the Cinema

Il pescatore di sogni - Harriet (Emily Blunt) e Alfred (Ewan McGregor)
Favola moderna. Storia di persone normali animate da dubbi e speranze. L'ex-mastro Chocolattaio Lasse Hallström dirige Il pescatore di sogni.

di Luca Ferrari

Una locandina con un uomo (Ewan McGregor) e una donna (Emily Blunt) seduti vicini. Lui con i piedi nell’acqua. Lei con le gambe incrociate. Lui ha lo sguardo concentrato su di una lenza. Lei lo osserva interessata, lasciando trasparire dolcezza del suo sguardo. Il resto è la vita raccontata ne Il pescatore di sogni (Salmons Fishing in the Yemen - 2012, di Lasse Hallström).

Finalmente rimetto le mani su quanto visto. Trovatomi alla proiezione senza il mio fedele block notes, per fortuna mi è venuta in soccorso la rivista Empire e nello speciale sulla Universal, l’ultima pagina pubblicitaria mi è servita per appuntarmi qualcosa di speciale. Due parole con un simpatico signore che lavora lì nel cinema mestrino, e la lettura dell’articolo inerente al film. Poi si spengono le luci. Con la speranza di non dovermi voltare e intimare silenzio. 20° film sul grande schermo del 2012. Tocca a Il pescatore di sogni, distribuito dalla M2Pictures.

Dietro la macchina da presa c’è Lasse Hallström. Nel 2000 il regista svedese diresse Chocolat, con un Johnny Depp musicista tzigano, la cioccolataia Juliette Binoche e un grandioso e rigido Alfred Molina nella parte del sindaco di una cittadina francese. Era l’autunno 2001 e io mi aggiravo per Piazza San Marco, a Venezia, indeciso se andarlo a vedere o meno al cinema. Avevo un grosso handicap. Non avevo cioccolata con me. Fu un bene non vederlo in quel momento. Sarei uscito di senno per quella mancanza.

Mi rifeci pochi mesi dopo, questa volta con le dovute scorte. Fatalità anche questa volta avevo qualche remora. Poi sono andato. Mi sono seduto. Sono entrato in quel magico mondo che è il cinema. Ancora una volta. Con un solo e unico grande obbiettivo. Sognare. Trovare un’ulteriore traccia che mi aiuti a decifrare il cielo e scoprire dove stia svolazzando il neverendinghiano drago Falkor, per poi cavalcare insieme a lui e godermi il presente dall’invidiabile postazione della fantasia.

Parafrasando l’immortale Wind of Change della rock band tedesca Scorpions, “Lasciatemi nella magia di questo momento, in una notte gloriosa dove i noi dell’oggi e del domani sognano dentro le immagini di una nuova favola”.

Il pescatore di sogni (2012, di  Lasse Hallström)

giovedì 24 maggio 2012

Dark Shadows, Gothic Confusion

Dark Shadows - Barbabas (Johnny Depp) e Angelique (Eva Green)
Minestrone gotico con la sensualità di Eva Green a reggere la stabilità di flebili Dark Shadows (2103, di Tim Burton). Dall'inizio alla fine la pellicola convince poco.
 
di Luca Ferrari

Vampiri, streghe, demoni e licantropi. Ehi Tim (Burton), ma cosa ti sta succedendo? Una volta ti bastava un cavaliere senza testa e pochi effetti speciali per fare cinema sopra le "gotiche" righe. Le ombre, umane o dall’Aldilà che siano invece di Dark Shadows (2013), più che muoversi nell’oscurità, sembrano un po’ confusionarie e alla fine dello show, ti sei già dimenticato cosa hai appena visto.

Se ti chiami Brad Pitt, Steven Spielberg o Tom Cruise, ogni film è un evento. Quale che sia il risultato, fa poca importanza. L’inchiostro prende sempre una direzione fin troppo scontata. Tim Burton è sicuramente un grande regista ma negli ultimi tempi non ha mai convinto del tutto. Il suo problema non è tanto l’accontentare critica e pubblico (ma chi se ne frega), quanto forse l’aver girato film grandiosi in passato che sovrastano gli attuali.

Dark Shadows è stato pompato alla stregua dell’ennesima pacchianata hollywoodiana. Certo, incominciare l’ennesimo film con sempre gli onnipresenti Helena & Johnny alla lunga è un po’ stancante. Sarà un caso ma l’ultima pellicola veramente originale di Tim Burton è stata Big Fish (2003) dove i protagonisti principali erano Ewan McGregor, Jessica Lange e Albert Finney.

Che Tim Burton guardi molto alle implicazioni del passato sul presente, è palesemente visibile in moltissimi dei suoi lungometraggi. Su tutti La Fabbrica di Cioccolato (2005), le due pellicole di Batman (1989, 1992) e Il mistero di Sleepy Hollow (1992).

E anche in questo film, il delicato meccanismo psicologico risulta determinante, specialmente in Victoria (Bella Heathcote), sbattuta bambina in manicomio dai genitori e poi guidata da una “misteriosa presenza” verso i Collins, antica famiglia sull’orlo del collasso finanziario, ma tenuta ancora a galla grazie all’impegno della matrona Elizabeth Collins Stoddard (Michelle Pfeiffer).

Dark Shadows vede salire in cattedra le protagoniste femminili, a cominciare dalla dolce metà del regista, Helena Bonham Carter, che dopo la perfida Regina dei Cuori, capace perfino di oscurare il Cappellaio deppiano di Alice in Wonderland (2010), è perfetta nei panni della psicologa Julia Hoffman, sempre attaccata a superalcolici e sigaretta in bocca, e con la camminata della tipica zia goffa e ficcanaso.

Dolcemente e provocatoriamente mefistofelica, Eva Green, la perfida Angelique Bouchard. Una donna che è stata amata, e poi abbandonata. Una donna col cuore spezzato, per sfortuna di Barnabas e non solo, pratica di magia nera che trama e ottiene vendetta, dando inizio alla rovina della famiglia Collins. Prima uccidendo i genitori di Barnabas, poi portando al suicidio Josette, la sua nuova fiamma e alla fine condannandolo a restare imprigionato per due secoli sottoterra e per di più tramutato in vampiro. Esagerata? Sicuramente. Ingannata? Può darsi.

Riesumata per caso la bara con la neo-creatura infernale ancora viva, ha inizio la rivincita/vendetta di Barnabas. Lì nel mezzo, i suoi eredi che passano in un amen dal decadentismo più isolato ai flash della nuova fama riconquistata grazie al suo impergno, e poi di nuovo nel regno degli emarginati. La strega però ha la meglio, e imprigiona nuovamente Barnabas in una bara e incatenato, questa volta lasciandogli in modo molto kitsch delle mutandine rosse sopra la faccia.

Ma per sua fortuna passano solo venti minuti e il piccolo di casa lo libera. Ha inizio lo scontro finale. E a venire in soccorso dei Collins, ci pensa una forza dall’oltretomba. Angelique è sconfitta. La strega si fa bambola. E si rompe. Ma nel frattempo Victoria sta andando anche lei a gettarsi dalla scogliera. Il passato più tragico ritorna. In tanti hanno criticato il finale, presumibilmente perché troppo Twilightiano. Con l’amore eterno, nel vero senso della parola questa volta, che trionfa. Una strega in meno, e due vampiri. C’è aria di seguito.

Ciò che ci definisce, ci lega” soleva dire Barnabas Collins (Johnny Depp). Appunto. Alle volte però, senza farci vedere altre strade. È un peccato.

Il trailer di Dark Shadows

Dark Shadows - Barbabas (Johnny Depp)
Dark Shadows -Victoria (Bella Heathcote)
Dark Shadows - Angelique (Eva Green)

mercoledì 23 maggio 2012

Dark Burton

"La mondanità non mi piace. Mi sento vicino ai miei personaggi, poco integrati e in conflitto con la società. Anch'io tendo a interiorizzare tutto. Sono chiuso, solitario e arrabbiato", Tim Burton

martedì 22 maggio 2012

Yes More Mr Danny Elfman

Dark Shadows - la performance di Alice Cooper
Nel deludente Dark Shadows stecca pure la colonna sonora di Danny Elfman. Per fortuna che in suo soccorso arriva la "sig.ra" Alice Cooper.

di Luca Ferrari

C’era Danny Elfman in Dark Shadows (2012, di Tim Burton)? Davvero? E dove sarebbe? No, troppo poco. E se c’era, e c’era, si è rivelato davvero poco incisivo. Quanto si è sentita la sua mancanza. La sua musica sarebbe stata perfetta per quell’atmosfera da estraniata provincia americana lontana anni luce dal merchandising caotico delle grandi metropoli. E invece troppa roba anni ’70 (Iggy Pop, T-Rex) con comparsata pure dell'immortale rocker Alice Cooper, anzi della signora Cooper come lo chiamava lo spaesato Barnabas Collins (Johnny Depp).

Nulla da obiettare sia chiaro, se credete che non abbia cantato quasi a voce alta No More Mr Nice Guy nell’oscurità del grande schermo, siete degli illusi. Ma se penso al viaggio della giovane Victoria Winters (Bella Heathcote) quando fa l’autostop, ecco, beh, avrei voluto di più. Le atmosfere gotiche non hanno certo fatto difetto. Il lento trascinarsi della fanciulla così come di Barnabas nella gigantesca villa poteva essere molto più valorizzato musicalmente parlando.

Sprofondate nel mondo "Burton-Elmaniano" di Dark Shadows

The Rise before The Dark

The Dark Knight Rises (di Christopher Nolan)
Finalmente il giorno è arrivato. Il mio giorno di Dark Shadows. Ma prima di addentrarmi, voglio presentare qualcosa d'altro.

di Luca Ferrari

Innamorato follemente di Beetlejuice (1988), Edward mani di forbice (1990), Il mistero di Sleepy Hollow (1999) e Big Fish (2003). Fiero sostenitore di Ed Wood (1994), Mars Attacks! (1996) e Alice in Wonderland (2010). Dopo essere riuscito nella miracolosa impresa di dimenticarmi quanto appurato sull’ultima fatica cinematografica di Tim Burton, arriva il colpo che non mi aspetto, anche se trattasi della fase del cinema che adoro. 

Sprofondato in una comoda poltrona, scattano loro. I trailer. Ma questa volta ci vanno giù pesante. Per la prima volta vedo sul grande schermo The Amazing Spider-Man (2012, di Marc Webb), e soprattutto The Dark Knight Rises (2012, di Christopher Nolan) che mi farà bruciare di attesa fino al 29 agosto, ossia il giorno d’inizio della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Inizia il viaggio. Sarà dunque la fine dell’eroe-pipistrello? Sono qui che aspetto. Il tremendo Bane (Tom Hardy) non è che l’emblema di un qualsiasi nemico apparentemente insuperabile, mentre il paladino Bruce Wayne (Christian Bale) è intrappolato nei suoi stessi incubi. A scontare le pene per aver fatto qualcosa di unico per la gente. Lui come altri. 

Non tutta la fantasia è un viaggio a senso unico lontana dalla realtà. Batman è lì fuori a fare quello che altri non hanno mai fatto, o non sono capaci. O hanno interesse a non farlo. Molti di quelli che oggi inneggiano ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, lo fanno solo perché non ci sono più. E chissà dov'erano e con chi erano vent'anni fa.

Tanto oggi, con il loro coraggio non possono più creargli problemi. Partecipano a impomatate commemorazioni che gli servono solo per farsi belli dinnanzi alle nostre coscienze. No. Qui non è finito nulla. Non è tutto finzione ciò che vedete. Ciao oscurità, ti sei divertita abbastanza? Non m’interessa. Non sono più io quello che si deve preoccupare...

sabato 19 maggio 2012

Bowling for Columbine, così parlò Marilyn Manson

Bowling for Columbine (2002), Marilyn Manson
Armi ovunque negli Stati Uniti, la colpa di certe sparatorie però è di Marilyn Manson. Nel documentario Bowling for Columbine il regista Michael Moore gli chiese cosa ne pensasse.

di Luca Ferrari

Il 20 aprile 1999, alla Columbine High School, tra Denver e Littleton in Colorado, gli studenti Eric Harris e Dylan Klebold entrarono armati di fucile e ammazzarono dodici ragazzi, più un insegnante. Al termine della mattanza i due giovani si suicidarono. Il fatto di cronaca fece il giro del mondo. L’America fu paralizzata. Scioccata. Le istituzioni perbeniste si misero subito alla ricerca del capro espiatorio.

Per la Destra religiosa americana, il responsabile fu uno solo, la band Marilyn Manson, trascurando “forse” il fatto che negli Stati Uniti chiunque può avere accesso ad armi anche di grosso calibro con estrema facilità. In questi giorni è di scena il Festival di Cannes, dove nel 2002 il regista Michael Moore presentò il documentario Bowling for Columbine, ispirato alla suddetta tragedia. Nella pellicola Premio Oscar 2003 come miglior documentario, trovò spazio anche un’intervista al presunto istigatore di morte, suicidi e satanismo.

“Da ragazzo la musica era l’unica via di fuga. L’unica cosa che non comportasse giudizi" attacca subito Brian Warner in arte Marilyn Manson, "Capisco perché scelgono me. Credono sia facile buttare la mia faccia in tv perché in fin dei conti sono un ragazzo-manifesto della paura. Rappresento ciò che tutti temono. Faccio e dico quello che voglio.

“I sottoprodotti che quella tragedia ha generato sono stati la violenza nello spettacolo e il controllo delle armi, e guarda a caso sono stati i due temi di cui si sarebbe parlato alle successive elezioni, e anche allora abbiamo dimenticato Monica Lewinsky. E abbiamo dimenticato che il presidente lanciava bombe oltre mare. Eppure il cattivo sono io che canto delle canzoni rock. Ma chi ha più influenza, il presidente o Marilyn Manson? Mi piacerebbe essere io ma punterò sul presidente”.

A quel punto il regista gli chiede: lo sai che il giorno della strage alla Columbine gli Stati Uniti lanciarono sul Kosovo più bombe che ogni altra volta?", Si lo so" replica il rocker, "e mi sembra davvero ironico che nessuno abbia detto, beh, forse il presidente ha avuto qualche influenza su quel comportamento violento, ma non è in quel modo che i media voglio rigirarla e trasformarla in paura.

Poi guardi la televisione, il telegiornale. Ti riempiono fino a quassù di paura. Ci sono alluvioni, l’Aids, ci sono omicidi, pubblicità. Compra la cura. Colgate. Se hai l’alito cattivo, non ti rivolgeranno la parola. È una campagna di paura e consumo, e si basa tutta su questo criterio: lascia che continuino ad avere paura e consumeranno". 

“Se dovessi rivolgerti ai ragazzi o alla gente di quella comunità, cosa diresti loro se fossero qui adesso?” chiede in ultima battuta Moore. “Non direi loro nessuna parola” chiude MM, “Ascolterei quello che hanno da dire, ed è ciò che nessuno ha fatto”.

 Bowling for Columbine - Michael Moore intervista Marilyn Manson

Bowling for Columbine (2002), Michael Moore intervista Marilyn Manson

venerdì 18 maggio 2012

Palazzo del Cinema del Lido, i lavori riprendono

Il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni ha annunciato che è stato raggiunto l’accordo sulla definizione degli interventi nell’area del Palazzo del Cinema al Lido di Venezia.

di Luca Ferrari

Un’intesa resa possibile dalla negoziazione portata avanti dal Commissario Governativo Vincenzo Spaziante e da Sacaim, i cui dettagli saranno oggetto di una conferenza stampa organizzata nei prossimi giorni. Il sindaco ha anche precisato che la definizione di questo accordo è stata rallentata dall’incertezza sui poteri attribuiti al Commissario Governativo causata dal nuovo decreto legge in materia di Protezione Civile, pubblicato ieri ma in gestazione da tempo, che ha di fatto rimesso al Comune di Venezia i compiti già attribuiti al Commissario stesso. L’accordo, già concluso nella sostanza, dovrà essere quindi formalizzato sulla base di quanto prevede questa nuova disposizione

L’accordo costituisce il presupposto del nuovo protocollo d’intesa che è già stato condiviso dalle istituzioni pubbliche competenti e che sarà prossimamente sottoscritto. Già entro la prossima settimana sarà quindi portato a formale compimento il percorso già intrapreso per la soluzione sostanziale dei diversi problemi aperti e delle criticità emerse ai fini del completamento degli interventi. Entro la fine di maggio riprenderanno i lavori per la prima fase di attività di risistemazione dell’area di cantiere antistante il Palazzo dell’ex Casinò municipale in vista della prossima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica del Lido.

mercoledì 16 maggio 2012

Fottuti Oltre Limiti Accettabili, adesso basta

Tango & Cash - Ray Tango (Sylvester Stallone) e Gabriel Cash (Kurt Russel)
Gabriel Cash (Kurt Russel) e Ray Tango (Sylvester Stallone) si erano davvero stancati di essere F.O.L.A. (Fottuti Oltre limiti accettabili)! E noi?

di Luca Ferrari

Era il 1989 e sul grande schermo arrivò l’action di Tango & Cash, di Andrej Koncalovskij. Mandati in galera grazie alla polizia e la politica corrotta, i valorosi e onesti difensori della legge Ray Tango (Sylvester Stallone) e Gabriel Cash (Kurt Russel) se la passano in gattabuia a suon di botte prese da quei criminali che loro stessi avevano messo dentro. Ed è lì che un esausto Cash, gli dice alo compare di sventure di non poterne più di sentirsi FOLA, Fottuto Oltre Limiti Accettabili, e pensa di fuggire dal carcere per rimettere le cose a posto.

Vi faccio leva all’esordio. Quello che mi dici è l’irrealizzabile. Il resto non lo so. Oggi, non lo so. Tutto, non lo so. Questa è solo la narrazione di qualcuno che non ha più pagine del proprio futuro. E il passato si ribella alla prevendita del proprio destino. E nella migliore delle ipotesi, se siamo stati bravi e fortunati, il passato sarà un suppellettile da poter coccolare sperando che il suo stringerci non ci faccia troppo male. La memoria degli eroi viene gestita solo per aggiungere qualche lacrima di circostanza a chi ha consolidato un ulteriore pezzo di marmo alle loro lapidi. Credo proprio che non dormirò nemmeno un secondo questa notte. Sono sempre troppo FOLA. Siamo tutti troppo F.O.L.A. – Fottuti Oltre Limiti Accettabili.

1989, la fine della Guerra Fredda. Il mondo sembrava poter cambiare. Dopo le menzogne post II Guerra Mondiale, rivoluzioni non violente sembravano poter scrivere una nuova pagina della Storia. Ennesima illusione. Ennesima disillusione. Nuovi orrori sarebbero iniziati di lì a poco. Qui. Là. Qua. Ovunque. Con i veri prodi sempre sacrificati. Con i poteri a schiacciare gli altri. Allora come oggi. Qui. Là. Qua. Ovunque. Sembriamo narcotizzati da questo schifo. Anche quando le cose degenerano. Anche quando si passa il segno.

È  quello che pensavo. È quello che immaginavo non potesse sopperire. Cercano perfino di coprire le mie cicatrici ma è tutto quello che mi rimane. Non sono nemmeno riuscito a incontrare una vecchia amica negli ultimi tre anni. Disillusioni come crateri attivi e semiattivi. Ora sono rintanato nel buio addominale della vita che non cambia. Non riesco nemmeno a raggiungere di corsa l’altro lato della strada.

Un anno prima di Tango & Cash, fu il turno di Rambo III (1988, di Peter McDonald). Dopo l’ennesimo brutale attacco sovietico, uno dei capi Mujaheddin si rivolge a John Rambo (Sly) dicendogli: In qualche modo in guerra ci dovrebbe essere onore. Dov’è l’onore qui? Dove? Va via finché puoi. Questa non è tua guerra” – “Ora lo è” risponde l’ex-berretto verde deciso a liberare l’amico imprigionato, il colonnello Samuel Trautman (Richard Crenna).

Ecco, questo è il problema. Siamo tutti in guerra. Un conflitto silenzioso che continua a sopprimere lo spirito dell’uomo. Una guerra che costruisce solo edifici di massima sicurezza. Una guerra dove le caste impongono la loro logorante dittatura. Una guerra dove l’ispirazione dell’essere umano viene seppellita da promesse di venditori ambulanti di pentole bruciate e senza fondo.

Oggi non sono attraversato da nessun pensiero impassibile. Qualcuno farà a meno di me questa notte. E almeno per oggi i miei sogni segneranno uno spartiacque. E anche oggi mi addormenterò senza avere la certezza di sapere quello che proverò domani. E ancora per oggi mi sentirò  influenzato dal mio destino che non si è compiuto. E anche per oggi mi sentirò recalcitrante a qualsiasi tipo di commedia a cui poter  invogliare le mie membra. Le porte siano ben sigillate. Le porte restino anche aperte. Non busserò a nessuno di voi che siete rimasti chiusi dentro.

Rambo III - John Rambo (Sylvester Stallone)

martedì 15 maggio 2012

La verità più pazza del mondo

"Allora, ho sentito molto parlare di lei dai suoi colleghi interni... sono tutti concordi nel giudicarla uno stronzo...mi piace!" Dr. Joseph Prang (Dabney Coleman)

Peter Wonka, Willy Pan

Il cioccolataio Willy Wonka (Johnny Depp) e il vampiro Barnabas (Johnny Depp)
Ogni nuovo film di Tim Burton con protagonista Johnny Depp ha il sapore di un regalo da scartare, col rischio ovviamente di restare delusi.

di Luca Ferrari

Dark Shadows è già uscito. Ma quello non è il mio posto. Non in mezzo al chiasso. Lì nel mezzo della settimana c’è la poltrona con il mio nome. Aldilà delle sviolinate sulle riviste del settore, i commenti fin’ora non paiono essere troppo generosi con l'ultimo film di Tim Burton. Che anche questa volta il trailer sia migliore dell’intera pellicola?

Beetlejuice (1988), Edward mani di forbice (1990), Ed Wood (1994) e Il mistero di Sleepy Hollow (1999) rappresentano il meglio del lato gotico di Tim Burton. La fabbrica di cioccolato (2005) e Alice in Wonderland (2010), il tentativo di una creatività sopra le righe. Tim Burton e Johnny Depp. Johnny Depp e Tim Burton. Sarà davvero una delusione questo film vampiresco, che pare ben più ironico del normale trend?

Sentii molte critiche anche su Alice in Wonderland. Mi ci ritrovai in minima parte. Eppure, osservando bene la cinematografia del regista di Burbank, non posso fare a meno di pensare a Big Fish (2003), il più sottovalutato dei suoi film con un cast corale, e di spessore: Ewan McGregor, Danny DeVito, Jessica Lange, Marion Cotillard, Steve Buscemi e Albert Finney.

La fabbrica di cioccolato rappresenta un po’ un momento emblematico. Quando ci si presenta dinnanzi a un film già diretto e molto apprezzato (Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, 1971, di Mel Stuart con Gene Wilder) è inevitabile il confronto/scontro. Per molti Burton ha perso la partita, e questa di per sé è già una follia.

Come si può mettere a confronto pellicole a distanza di più di trent’anni? La grande differenza sta nel personaggio principale, esattamente come nel nemico di Batman, il Joker nelle pellicole proprio di Tim Burton e il recente The Dark Knight di Christoper Nolan, con il primo più giullare e rapinatore, e il secondo totalmente anarchico e psicologico.

Il Wonka di Wilder è più un uomo del mistero, con quell’aria da prestigiatore stralunato. Depp è più Willy. È più bambino. È ancora ferito per l’allontanamento dal padre, per essere stato tradito dai suoi stessi impiegati. Il colorito bianco/spettrale ne alimenta il distacco dal mondo.

A poco più di 36 ore dal mio ingresso nella magione della famiglia Collins, dove sono ansioso di conoscere tutti i suoi componenti, incluso il vampiro Barnabas (J.D.) e la malefica strega Angelique (Eva Green), cerco la mia strada. In realtà l'ho già vista. "Quando la nave è salpata, solo un matto può continuare a insistere. Ma la verità è che io sono sempre stato un matto", Edward Bloom (Big Fish).

Big Fish - il giovane Edward Bloom (Ewan McGregor)

lunedì 14 maggio 2012

To Rome with Woody, SOS cinema

To Rome With Love - Phyllis (Judy Davis) e Jerry (Woody Allen)
To Rome with Love (2012, di Woody Allen) è quanto di peggio, banale e anemico il regista newyorkese potesse presentare. 


Ma Woody Allen è ancora in grado di fare sul serio dietro la macchina da presa o si è messo a lavorare per gli Enti Nazionali del Turismo? To Rome with Love (2012) è una cozzaglia di storie slegate tra di loro dove la vicenda di Roberto Benigni è totalmente fuori contesto e potrebbe essere ambientata a Milano così come a Firenze, e con un finale di pellicola che si accende sulla scalinata del Campidoglio.  

To Rome with Love non dice nulla. In apparenza è uno svago nella città eterna. Nella realtà, una miscela d’insicurezze incapaci di diventare, per i più ottimisti tra i quali non mi annovero, qualcosa di poco più di un mezzo sorriso di circostanza.

A dir poco ridicolo il terzetto con l’insicura  Sally (Greta Gerwig) che sembra spingere il suo ragazzo Jack (Jesse Eisenberg) tra le braccia dell’amica mangia-uomini attrice incasinata Monica (Ellen Page), ricoprendola di elogi e anzi favorendo gl’incontri tra i due senza di lei, impegnata con gli esami per l’università.

Grillo parlante vero/immaginario, John (Alec Baldwin), architetto con il più tipico passato da studente a Roma, che mette in guardia il ragazzo dalle mire sessuali della nuova arrivata. Missione fallita visto che i due si ritroveranno a farlo in macchina senza troppi patemi di tradimento reciproco per la ragazza/amica. 

È amore invece quello che sboccia improvviso tra Michelangelo (Flavio Parenti) e Hayley (Alison Pill), nel più banale degli incontri turista/bravo ragazzo,  degno della sceneggiatura più spudoratamente sdolcinata. E se non fosse quello per quel fascio di nervi dello stesso regista che interpreta Jerry, il padre della ragazza, ci sarebbe ben poco da aggiungere all’italianità esasperata della famiglia di lui. Altro groviglio. 

Le due anime “falsamente candide” Antonio (Alessandro Tiberi)  e Milly (Alessandra Mastronardi) ci mettono un attimo a vendersi e lasciarsi coinvolgere da relazioni extraconiugali. Lui con la prostituta Anna (Penelope Cruz), lei con il celebre attore Luca Salta (Antonio Albanese) prima, e un rapinatore d’alberghi (Riccardo Scamarcio) poi.  

Roberto Beningi infine sembra lì per caso. Se le altre tre storie hanno un che di personale, l’anonimo padre di famiglia Leopoldo invece, non si capisce bene perché si ritrovi al centro dell’attenzione in modo improvviso. Messo lì come megafono per attirare gli spettatori italiani e italoamericani, devoti dell’attore/regista toscano.

Il cinema è un mistero. Film uguali spalancano porte a opinioni e critiche totalmente agli antipodi. E anche in questo caso, invece di una sbrodolata cinellywoodianata, c’è chi ha visto qualcosa di felicemente magico. E questo è il bello dell’arte. E questa è la grandezza del Cinema. 

Woody Allen riesce a fare un film leggero, ma non nel senso di mancanza di significati, che  porta la tua mente a essere libera da mille pensieri. È quasi un ipnotismo” scrive una cinefila, “Il mettere insieme così tanti talenti, a farli recitare con minime parti, non è forse un miracolo? Storie semplici a cui noi non siamo più abituati.

I film di oggi sono tutti d'azione, cruenti e malvagi. Per non parlare poi della presenza di Woody stesso. Il suo personaggio è fantastico. La sua ironia intelligente è presente in tutta la sua performance.  – Meno male che c'è Woody – questo è il mio motto. Storia semplice. Gentile. Garbata. Non ci sono mai parolacce. I suoi 77  anni sono eterei e leggeri come un palloncino che vola in cielo”.

Il trailer di To Rome With Love

To Rome With Love - Anna (Penelope Cruz)
To Rome With Love - John (Alce Baldwin) e Jack (Jesse Eisenberg)
To Rome With Love - Leopoldo (Roberto Benigni)

sabato 12 maggio 2012

Sacha Baron Cohen, il Dittatore

Londra, premiere Il Dittatore © Paramount Pictures/ Getty Images
“Storia di un tiranno che ha rischiato la propria vita per assicurarsi che la democrazia non potesse mai arrivare nel suo paese che ha così amorevolmente oppresso”, recita il film Il dittatore (The Dictator, 2012), di Larry Charles con protagonisti Sacha Baron Cohen, Ben Kingsley, Anna Faris, John C. Reilly e la rampante Megan Fox nel ruolo di se stessa.

 Muammar Hussein o Saddam Gheddafi lo potremmo chiamare. Cohen è irriverente e dissacratore come al solito, ma non sembra aggiungere troppo a quanto già visto nei vari  Ali G (2002), Borat (2006) e Brüno (2009). Il senso dello spettacolo però non gli manca, né a lui è alla Paramount Pictures, e a casa sua, in quel di Londra, Mr Cohen, alla premiere, fa il suo imperdibile show.
 
Londra, premiere Il Dittatore © Paramount Pictures/ Getty Images
Londra, premiere Il Dittatore © Paramount Pictures/ Getty Images
Londra, premiere Il Dittatore © Paramount Pictures/ Getty Images
Londra, premiere Il Dittatore © Paramount Pictures/ Getty Images
Londra, premiere Il Dittatore - Sacha Baron Cohen © Paramount Pictures/ Getty Images
Londra, premiere Il Dittatore - Anna Faris © Paramount Pictures/ Getty Images
Londra, premiere Il Dittatore - Sacha Baron Cohen © Paramount Pictures/ Getty Images

venerdì 11 maggio 2012

Il segreto di Hulk, sono sempre arrabbiato

The Avengers - Hulk (Mark Ruffalo)
È possibile contenere quello che si ha dentro? È possibile passare un’esistenza trattenendo la forza brutale che avanza dentro di noi e metterla al servizio di una nobile causa?

di Luca Ferrari

Ho smesso di leggere i quotidiani. Ho smesso di credere che un mio disegno stilizzato su di un pezzo di carta possa cambiare il mondo. I ciarlatani dei grandi uffici protetti hanno infettato il mondo con le loro menzogne.

Sento parlare di Costituzioni, Diritti dell’Uomo e perfino di diritti alla felicità, ma nella realtà poi che cosa succede? Nella realtà quanti bambini muoiono ancora di fame senza che il pensiero intacchi la serenità dell’ennesima cravatta perfettamente stirata? Voglio confessarvi una cosa: mi sorprendo ogni giorno di più nel vedere come la gente riesca a trattenere il proprio materiale disappunto verso un mondo sempre più in mano a vergognosi despoti. 

Mi nutro del Grande Schermo come se fosse una droga per sopperire alle carenze della giustizia della vita reale. Almeno lì qualcosa funziona. Grazie sceneggiatori e registi. Dei quattro Avengers il gigante verde (Mark Ruffalo) è quello in apparenza meno sbruffone (Iron Man, Robert Downey Jr.), meno patriottico (Capitan America, Chris Evans) e meno soprannaturale (Thor, Chris Hemsworth).

Eppure senza di lui non ci sarebbe partita contro Loki (Tom Hiddleston) e il suo esercito dei Chitauri. Non ha fretta di entrare in azione. Sa che al momento giusto qualcosa succederà. Sa di far parte di qualcosa d’incontrollabile. Sa di averlo dentro. Ma alla fine, è l’accettare la propria natura che lo porta ad avere il controllo delle sue stesse azioni.

Il suo urlo scomposto verso una terribile minaccia piovuta dall’universo è un monito per tutti. Non ci saranno più vili aggressioni. Non ci dovranno più essere. La forza bruta che si nasconde dentro di me è appena agli inizi di quello che deve ancora accadere. Non ho accettato di restare nel mondo solo per farvi credere che i vostri ridicoli mezzi di convincimento abbiano avuto la meglio. 

Adesso ho un messaggio per ciascuno di voi. Potrai anche sventolarmi la tua fantomatica missione divina. Potrai anche minacciarmi ostentando il tuo essere prole di un’altra estensione ma questo non m’impedirà di collocarti allo stesso livello della terra più furiosamente convessa. 

Può darsi che la brutalità che si cela dentro la mia quiete immaginaria sia la spinta a pensare che quello che è accaduto sia un fasto a cui non ho mai preso parte. Un giorno i Vendicatori (The Avengers) spariranno e a quel punto? La Terra ha bisogno di 6 miliardi di eroi.

Sono il primo che non intende dimettersi dal proprio incarico di Essere Umano.

The Avenegers - il ritorno di Hulk

The Avengers - la furia distruttiva di Hulk (Mark Ruffalo)

giovedì 10 maggio 2012

Francesco Rosi, Leone d’oro alla carriera

il regista napoletano Francesco Rosi
È stato assegnato al regista e sceneggiatore italiano Francesco Rosi il Leone d’oro alla carriera della 69. Mostra del Cinema di Venezia (29 agosto – 8 settembre 2012).

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer

Francesco Rosi può essere considerato autore simbolo e innovatore del cinema italiano d'impegno civile, con film – tra i molti suoi importanti e significativi – quali Le mani sulla città, Leone d’oro alla Mostra di Venezia nel 1963, Il caso Mattei, Palma d’oro a Cannes nel 1972, e Salvatore Giuliano, Orso d’argento a Berlino nel 1961. Rosi, che il prossimo 15 novembre compirà 90 anni, riceverà il riconoscimento durante la 69. Mostra venerdì 31 agosto, in occasione della proiezione della copia restaurata del suo capolavoro Il caso Mattei (1972), restauro realizzato dalla Film Foundation di Martin Scorsese, con il sostegno di Gucci.

"Con una lunga benché non troppo prolifica carriera, Rosi ha lasciato un segno indelebile nella storia del cinema italiano del dopoguerra" ha spiegato il Direttore della Mostra, Alberto Barbera, "la sua opera ha influenzato generazioni di cineasti in tutto il mondo per il metodo, lo stile, il rigore morale e la capacità di fare spettacolo su temi sociali di stringente attualità. Ragione per la quale è stato ripetutamente accostato al Neorealismo dell’immediato dopoguerra e indicato come il padre nobile di quel filone di cinema impegnato che segnò in particolare gli anni Sessanta e Settanta della nostra produzione nazionale. 

Rispetto al Neorealismo, che pure contribuì in maniera decisiva alla sua formazione culturale, il cinema di Rosi rappresenta una decisa istanza di superamento, per la precisa volontà di mescolare una fortissima propensione a raccontare eventi, persone ed ambienti reali con quella che Fellini definì «la grande lezione artigianale del buon cinema americano». 

Nei confronti del cinema politico a lui successivo, Rosi vanta invece un indiscutibile merito: quello di aver sempre preferito alla semplificazione ideologica di molti suoi epigoni il durissimo lavoro di ricerca e documentazione che sta alla base di suoi formidabili capolavori come Salvatore Giuliano, La sfida, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Lucky Luciano. Una puntuale lezione di storia che coincide con un’altissima lezione di stile, capace di fornire linfa e sostanza per gli altri suoi indimenticabili lavori, tra i quali non si possono non ricordare Cristo si è fermato a Eboli, Cadaveri eccellenti e Tre fratelli”.

In gioventù vicino agli esponenti della cultura napoletana del dopoguerra (Patroni Griffi, La Capria, Ghirelli), Francesco Rosi prima de La sfida si è formato alla scuola di Luchino Visconti, suo aiuto-regista per La terra trema, ed è quindi stato aiuto-regista di Michelangelo Antonioni e Mario Monicelli.

Francesco Rosi (Napoli, 1922) si afferma come autore proprio alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1958 con La sfida, che ottiene il Premio Speciale della Giuria. In quel film, girato nel mercato ortofrutticolo di Napoli, come nel successivo I magliari (1959, premiato a San Sebastián), ambientato tra venditori di stoffe e tappeti ai limiti della legalità, è già presente quel dato cronachistico che, filtrato dalla finzione drammatica, costituisce la peculiarità del suo cinema.

In Salvatore Giuliano (1961), Orso d’argento a Berlino, l’uso di materiale di repertorio caratterizza uno stile da reportage giornalistico di rara efficacia, inaugurando un nuovo tipo di cinema politico, documentato e legato alla realtà più scomoda, sempre rivolto a capire il presente anche quando parte da materiali storici.

Nel 1963 Francesco Rosi ottiene la definitiva consacrazione vincendo il Leone d’oro a Venezia con La mani sulla città, film-denuncia delle speculazioni e degli scandali durante gli anni della ricostruzione e del boom economico. Torna alla Mostra di Venezia nel 1970 con un altro film di forte impegno civile, Uomini contro, tratto da "Un anno sull’altopiano" di Lussu, fornendo uno sguardo privo di retorica della prima guerra mondiale.

Il caso Mattei (1972), Palma d’oro a Cannes, segna il ritorno allo stile del reportage nella ricostruzione delle vicende del presidente dell’Eni (interpretato da Gian Maria Volonté, premiato a Cannes con una Menzione speciale), fino alla sua morte in circostanze mai chiarite, gettando una luce inquietante sulle connivenze tra potere politico e oscure trame destabilizzanti. Il successivo Lucky Luciano (1975), nuovamente con Gian Maria Volonté, ricostruisce gli ultimi anni di vita che il boss trascorre in Italia portando nella tomba i suoi segreti.

In seguito, per il suo alto cinema d’impegno, Rosi si rivolge spesso a testi letterari. In Cadaveri eccellenti (1976), premio David di Donatello per il miglior film e la miglior regia, tratto da Il contesto di Sciascia, si sofferma sulla spirale del terrorismo e le compromissioni del potere. Da Carlo Levi trae Cristo si è fermato a Eboli (1979), David di Donatello per il miglior film e la miglior regia, vincitore al Festival di Mosca, premiato come miglior film straniero ai Bafta, gli “Oscar” britannici. Rosi realizza quindi Tre fratelli (1981), in cui riflette sugli anni di piombo (David di Donatello per la miglior regia e per la miglior sceneggiatura con Tonino Guerra, Nastro d’argento per la miglior regia), e in seguito Carmen (1984) dall’opera di Bizet (David di Donatello per il miglior film e la miglior regia). E’ poi la volta di Cronaca di una morte annunciata (1987), tratto dall’omonimo romanzo di Márquez (in Concorso a Cannes), Dimenticare Palermo (1990), scritto con Tonino Guerra e Gore Vidal, e La tregua (1997) da Primo Levi, in Concorso a Cannes, premio David di Donatello per il miglior film e la miglior regia.

"Sono onorato e molto felice di ricevere questo riconoscimento estremamente prestigioso, che è stato attribuito in precedenza a tanti grandi autori che amo e ammiro – ha dichiarato Francesco Rosi – Ringrazio il Presidente della Biennale Paolo Baratta e il Direttore della Mostra del Cinema Alberto Barbera per aver voluto ricordare il mio contributo al cinema italiano e all'arte cinematografica in generale".