!-- Codice per accettazione cookie - Inizio -->

sabato 27 aprile 2013

Ribellarsi e ribellarsi ancora

Robin Hood (2010, di Ridley Scott)
 "Ribellarsi e ribellarsi ancora, finché gli agnelli diverranno leoni"  
                                                                                              Robin Longstride (Russel Crowe)

venerdì 26 aprile 2013

Iron Man 3 e Mr. Stark

Iron Man 3 (2013, di Shane Black)
E fu il giorno di Iron Man 3. Il miliardario geniaccio ricomincia la propria vita dopo le ultime devastanti imprese insieme ai colleghi Vendicatori.

Se il regista Shane Black avesse mai avuto aspirazioni Nolaniane per la terza avventura del supereroe in tuta rossa metallica , l’obbiettivo non è stato raggiunto. Iron Man 3 è stato per mesi presentato (e investito) con un’aurea oscura, con il protagonista in piena crisi e lasciando l’immaginazione fluttuare verso chissà quali sconvolgimenti interiori. 

La realtà della pellicola è stata al di sotto le aspettative, relegando il tutto a pochi momenti d’inquietudine e per certi versi nemmeno troppo in linea con il personaggio Tony Stark cinematografico. In più di qualche articolo inoltre si era addirittura subdolamente parlato del rapporto incrinato tra Tony e Pepper (Gwyneth Paltrow)

Le opzioni sono due: o il redattore di turno non aveva visto il film e ha voluto aggiungere falso pepe per far ingolosire il lettore (che a casa mia si chiama distorsione della realtà) oppure la miopia gioca brutti scherzi dato che non esiste nemmeno l’odore di flirt tra nessuno dei due protagonisti con chicchessia: né l’ex-fiamma Maya Hansen (Rebecca Hall), né la letale Stephanie Szostak (Ellen Brandt) nè l’aitante scienziato Aldrich Killian (Guy Pearce).

Vendetta & Business. Domanda & Offerta. Sono le parole chiave di Iron Man 3. Aldrich è uno scienziato snobbato da uno Stark ancora latin lover. Più di un decennio dopo il brutto anatroccolo di allora si è trasformato in un cigno. D’aspetto si, di mente per nulla. 

E ora è pronto per la resa dei conti, mettendo in piedi una messinscena jihadista-holliwoodiana con il Mandarino (fenomenale Ben Kingsley, da consegnargli subito il Premio Oscar come attore non protagonista) a interpretare una spietata e sanguinosa minaccia per gli Stati Uniti. Una dinamica questa che il curriculum di Robert Downey Jr. deve avere in qualche modo ispirato, a giudicare dal filone economico di Sherlock Holmes – Giochi di ombre (2010, di Guy Ritchie). 

Ma nel triangolo di onnipotenza manca come sempre l’uomo più insospettabile. Quel vice-inquilino della Casa Bianca interpretato da Miguel Ferrer (Robocop, I segreti di Twin Peaks) pronto al discorso di commiato e a brindare al nuoco incarico.

Ma se l’uomo deve ricomporre i propri pezzi e l’amore è lontano o impossibilitato, a guidare la mano verso la giusta direzione è l’amicizia. Da quella nuova del piccolo Harley (Ty Simpkins) a quella consolidata del fido amico James Rhodes/War Machine (Don Cheadle) e dell’ex-guardia del corpo Happy Hogan (un extra large Jon Favreau), ferito quasi a morte e quindi scatenante le ire vendicative di Tony Stark che dà l’indirizzo di casa propria in diretta televisiva ai terroristi.

Ognuno dei tre darà a modo suo ad Iron Man la spinta per ripartire formando, "Marvellianamente" parlando, una sorta di scudo interiore di Capitan America, per andare oltre i propri stessi limiti e traumi post ultime esperienze Vendicatrici, e affrontare il nuovo pericolo.

È proprio questo uno dei punti centrali. Tony Stark rivede le sue imprese (e cadute) al fianco di Hulk, Thor e Capitan America contro le varie creature di altri mondi portate sulla Terra dal perfido Loki (Tom Hiddleston).  Ma se insieme a loro la spavalderia era un suo marchio di fabbrica, in questa nuova fase della sua vita ne sembra quasi schiacciato. Come se d’improvviso non riuscisse più a sopportare il peso del proprio supereroismo sentendosi solo un uomo dentro una tuta metallica. 

L’essere umano precede l’impresa. Sembra essere questa la linea tracciata tra inseguimenti spettacolari e i consueti effetti speciali. Il tutto ovviamente senza togliere spazio a infinite possibilità di nuove imprese di Iron Man, anche se d’ora in avanti J.A.R.V.I.S. (voce originale di Paul Bettany) dovrà fare i conti con uno Stark più modello famiglia. A ben guardare le intenzioni di Tony Stark, si percepisce che qualcosa stia già bollendo in pentola e che demoni a parte, lui continuerà con i propri geniali e robotici passatempi, notturni e diurni.

Il trailer di Iron Man 3

Iron Man 3 - il Mandarino (Ben Kingsley)
Iron Man 3 - Pepper (Gwyneth Paltrow) e Tony Stark (Robert Downey Jr.)
Iron Man 3 © 2012 Marvel

mercoledì 24 aprile 2013

Captain America per Tony Stark Iron Man 3

Capitan America (Chris Evans) e Tony Stark (Robert Downey Jr.)
Nello scontro furioso tra i Vendicatori e Loki, ci fu anche spazio per i divertenti battibecchi tra Captain America e lo sbruffone Iron Man.


Portata a termine la missione, quale miglior modo di celebrare il terzo capitolo della saga dell’uomo corazzato di rosso (Iron Man 3, di Shane Black), in uscita oggi in mercoledì 24 aprile,  con il viaggio cinematografico del suo compare? Di Mr. Stark tanto, e delle sue imprese per salvare la bella Pepper (Gwyneth Paltrow), ne parleremo nei prossimi giorni

Non arrendersi mai. Per essere un vero eroe serve solo questo: non arrendersi mai, parola del primo vendicatore Captain America (2011, di Joe Johnston).

Il giovane Steve Rogers (Evans) vorrebbe arruolarsi nell’esercito e fare la sua parte nella II Guerra Mondiale, ma ha un fisico gracile e alle visite di arruolamento viene ripetutamente scartato. Non di meno nella vita privata è spesso vittima di grossi spacconi che lo malmenano, ma lui è sempre pronto a rialzarsi. Li sbeffeggia anche dopo essere stato colpito perché, se cominci a scappare non ti fermi più, ripete. Vuole una possibilità per dimostrare alla sua patria il proprio valore. Cerca un’unica occasione. La troverà. 

Un progetto top secret guidato dal dott. Abraham Erskine (un barbuto Stanley Tucci) lo trasforma in un super uomo per sgominare un’associazione malvagia, ancora peggiore dell’esercito nazista con cui gli Stati Uniti sono in lotta.

È l’Hydra, capitanata da Johann Schmidt/Red Skull (Hugo Weaving). Steve adesso è un trionfo di muscoli e vigore. Ma è solo l’esterno. Quello che ha dentro resta intatto. Un uomo che conosce il valore della forza e della comprensione. Lo scienziato intanto viene ucciso da una spia tedesca e del fantomatico esercito americano di super soldati rimane solo lui. Molto hollywoodianamente verrà quindi utilizzato come fenomeno da baraccone col nome di Captain America per attirare la gente a entrare nell’esercito. 

La farsa va avanti fino a quando non scopre che l’amico fraterno Bucky (Sebastian Stan) è dato per disperso nelle peggiori retrovie del nemico. Con l’aiuto del geniale ingegnere Howard Stark e la soldatessa Peggy Carter si fa paracadutare nella zona calda e inizia il suo viaggio di liberazione.

Captain America comincia la sua vera missione eroica. Insieme a un fidato gruppo di soldati sgominano tutte le basi segrete dell’Hydra fino allo scontro finale in cielo, con qualche incursione alla Sky Captain & The World of Tomorrow (2004, di Kerry Conran), e la scena del gigantesco aereo/astronave in caduta libera verso New York che non può non far tornare in mente il dramma dell’11 settembre. 

Ma nella pellicola diretta dal veterano Johnston, non c’è spazio per i nazionalismi. La bandiera sullo scudo è quella americana, certo. Ma potrebbe essere quella di qualunque altra nazione in lotta per la sopravvivenza. Invece che Capitan America, potrebbe essere Capitan Giustizia. Perché ci sono doveri che nascono dentro e a cui si può solo rispondere, presente.

Capitan America è l’erede della tradizione più umanamente valorosa, dove oltre alla nostra vita esiste qualcosa che dobbiamo compiere. Qualcosa che ci appartiene per torto (Eric Draven – The Crow), per eredità (Clark Kent – Superman) o per scelta consapevole (Peter Parker – Spiderman). Quello che conta è non arrendersi mai. Per salvare il mondo o annientare una minaccia serve solo ribellarsi. Che sia l’esercito nazista, un capo opprimente o qualcuno che non ha rispetto, quello che conta è non arrendersi mai.

E a modo suo non lo farà nemmeno Iron Man...

Captain America, Il primo Vendicatore - Red Skull (Hugo Weaving)
Captain America - Il primo Vendicatore (2011, di Joe Johnston)
Iron Man 3 (2013, di Shane Black)

martedì 23 aprile 2013

Attacco al potere, sangue chiama sangue

Attacco al potere - Banning (Gerard Butler) e il Presidente Asher (Aaron Eckart)
Cosa succederebbe se il Presidente degli Stati Uniti venisse preso in ostaggio nella Casa Bianca? Antoine Fuqua fa il pieno di macho-action con Attacco al potere.

di Luca Ferrari

Perché non giochiamo al gioco del vaffanculo, comincia ad andarci tu. Basterebbe questa spavalda e incazzosa frase dell’eroico protagonista Mike Banning (Gerard Butler), ex-capo della sicurezza presidenziale, per capire che l’azione scorrerà a fiumi in Attacco al potere (2013, Olympus Has fallen), il nuovo film di Antoine Fuqua (Training Day, King Arthur, Brooklyn's Finest), sbarcato sul grande schermo il 18 aprile scorso.

Un banale incidente autostradale durante una tormenta e la First Lady (Ashley Judd) muore. Per il vedovo inquilino della Casa Bianca, il presidente Benjamin Asher (Aaron Eckart), è un colpo tremendo e fa allontanare il fidato Mike, conscio di sapere che gli ha salvato la vita ma non ancora pronto per rivedere nei suoi occhi l’incidente mortale. Qualcosa intanto sta per esplodere nel cuore degli Stati Uniti, proprio lì, a Washington. Una minaccia dal cielo piomba minacciosa sparando. Sembra fine a se stessa. Un attacco terroristico suicida. È solo un paravento.

Il vero pericolo è appena entrato nel bunker di sicurezza dell’Olimpo (nome in codice della Casa Bianca). Il vero pericolo ha il volto della sicurezza diplomatica. Le parole “attentato” e “Stati Uniti” fino a qualche anno fa non era quasi possibile pronunciarle nel cinema d’oltreoceano. Barack Obama ha reso gli americani con i nervi un po' più saldi e la dimostrazione è stato anche l’atteggiamento, non certo istericamente Bushiano, alla tragedia delle bombe esplose durante la maratona di Boston.

Gli Stati Uniti hanno fatto e supportato guerre. Inevitabile che abbiano nemici ovunque e pronti a tutto. A volte questi agiscono per ottenere qualcosa. A volte per mera vendetta. E per quanto si possa prevedere e allestire il miglior sistema di sicurezza, c’è sempre una minima breccia dove potrebbe incunearsi l’impossibile. 

Ci vogliono 15 minuti per raggiungere la Casa Bianca, noi ce l’abbiamo fatta in 13, ghigna spavaldo il capo dell'attacco Kang Yeonsak (Rick Yune). Kang vide la madre saltare su di una mina antiuomo messa dagli americani e adesso vuol far detonare tutte le armi atomiche sul territorio statunitense. Stanno per spalancarsi le porte dell’inferno, sentenzia scioccato il vicepresidente Speaker Trumbull (Morgan Freeman).

Che si fa? Si muove la diplomazia, si tenta un’incursione o si cede al ricatto? Kang è molto chiaro: nessuna negoziazione è in atto. The Peacemaker (1997, di Mimi Leder) raccontava di come il diplomatico Dušan Gavrić (Marcel Iureş) volesse detonare un ordigno nucleare a New York durante un Consiglio delle Nazioni Unite, ancora lacerato per l’incapacità dell’ONU di aver impedito il massacro in terra slava. 

E come nella più vecchia pellicola il colonnello Tom Devoe (George Clooney) prendeva in mano la situazione con caparbietà e risolutezza, così Banning è l’uomo giusto al momento giusto. In perfetto stile western moderno. Coraggioso e con le ferite nell’anima. Mike ha una partita personale da chiudere con i propri rimorsi. E salvare la vita al proprio Presidente e a suo figlio è la sola strada (im)possibile da compiere.

Adrenalina, eroismo a stelle e strisce, un finale oltre modo banale e più fianchi facilmente esposti a critiche. “Mi è parso una grossa operazione di propaganda” commenta il giovane Matteo Baffa, “un’esaltazione sfrenata dei valori americani e soprattutto dei metodi americani, di come da loro dipendano le sorti del mondo, di come solo loro possano risolvere situazioni disperate. 

Un film auto-celebrativo, come se si volessero gettare le basi a una nuova sorta di conflitto mondiale contro il terrorismo, che ne voglia giustificare gli strumenti di lotta (vedi Banning che tortura due terroristi per ottenere informazioni e si vanta con i dirigenti americani dell'efficacia dei suoi metodi)".

American Pride, certo. Ma c’è di più. Una riflessione che va oltre. Dove l’America è solo un nome e non il tutto. La Casa Bianca oltre se stessa. Simbolo del potere invulnerabile. Ma non c’è di fatto. Non è lei come non è nessun altro posto. Dove si sparge morte, si semina morte. Più di duemila anni di storia dovrebbero averlo insegnato. E questo non vale solo per gli Stati Uniti. E chiunque veda in essi il male del mondo dovrebbe aggiornare la propria cultura perché Europa, Cina e Russia non sono da meno. Ci siamo tutti là in mezzo. 

Parafrasando il recente ZeroZeroZero (2013, Feltrinelli) di Roberto Saviano, “Ma se ritieni che solo una nazione possa essere la responsabile delle guerre nel mondo, o sei incapace di vedere e stai mentendo. Oppure, semplicemente, la persona che sta per aggredire un altro, sei tu”.

Attacco al potere - Mike Banning (Gerard Butler) in azione
Attacco al potere (2013, Olympus Has fallen) di Antoine Fuqua
Attacco al potere (2013) - il vicepresidente Speaker Trumbull (Morgan Freeman)

lunedì 22 aprile 2013

Alcune idee sono da David Lynch

il regista americano David Lynch
A tu per tu con l'ispirazione dal regista David Lynch. Istinto, immagini e parole. A tu per tu tra parole, immagini e nuovi percorso comunicativi.

di Luca Ferrari
 
Spengo il registratore dentro di me. La prima creatura che mi si siede accanto non sfiora nemmeno le pagine accampate davanti. Sarebbe un problema di lingua. La memoria ripercorre a un colle dove allora una lettura sussidiaria se ne stava isolata e appartenente a sé. Le fabbriche presto divideranno il mondo ma il viaggio comunque non potrà dirsi concluso. Le strisce di due uniche colorazioni non lasciano presagire l’avvicinamento di alcuna cascata di "twinpeaksiana" memoria. Lì sotto, senza alcuna voglia di unirsi a noi, restano a guardare con i loro biglietti di andata e ritorno.

"Però le idee vengono, chissà da dove. Si afferra un’idea, poi la si realizza attraverso un mezzo artistico" raccontava il regista al mensile Empire, nell'articolo/intervista Lynch Inside, Un uomo gentile e folle di Simon Braund, pubblicata sul numero di marzo 2013, "Alcune idee sono da cinema, altre da arredamento, altre ancora da musica. Non sai quali idee afferrerai, ce ne sono di diversi tipi, così come ci sono diversi tipi di pesce".

Tutto quello che sa d’informazione viene recepito come annosa richiesta da letterato di spiaggia. Sto ancora aspettando di trovare un locale dove non fare nulla di diverso dalla normalità ignorata. La cernita dei tempi, delle maschere e degli elementi in grado di seguirci è solamente una momentanea amputazione di dune. Ma tu questo, David Lynch, lo hai memorizzato già abbastanza. È sempre e comunque tutto una storia vera.

sabato 20 aprile 2013

Twitter Alyssa Milano, Prayers for Boston

la foto di Alyssa Milano
È stata la figlia di Arnold Schwarzenegger nel “testosteronico” Commando (1985, di Mark L. Lester), la Jennifer Mancini della sitcom generazionale Melrose Place e la giovane strega Phoebe Halliwell capace di mettere in discussione l’oscuro Belthazor (Julian McMahon). 

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer 

Se l’ultima apparizione sul Grande Schermo è nel corale Capodanno a New York (2011, di Garry Marshall), quest’anno ha da poco esordito nella nuova serie televisiva statunitense Mistresses andata in onda per la ABC.

La giovane attrice newyorkese Alyssa Milano è sempre in prima linea quando si tratta di cause umanitarie. Non è un caso che sia ambasciatrice Unicef e supporti molte cause. E da qualche giorno, l’immagine del suo profilo Twitter è un grande cuore rosso con la scritta Prayers for Boston.

venerdì 19 aprile 2013

La fine è il mio inizio (2010), Tiziano Terzani

La fine è il mio inizio - Tiziano Terzani (Bruno Ganz) e il figlio Folco (Elio Germano)
Ha sempre sognato un mondo di legalità e giustizia. Ha sempre preferito i dialoghi dei mercati alle istituzioni. Lui era il giornalista Tiziano Terzani.


Ha descritto paesi lontani. Ha testimoniato ideologie e canti di trionfo. Ha viaggiato, è tornato e si è messo in cammino ancora. Si è lasciato tutto alle spalle con una certezza: nessuna guerra ha mai messo fine alle guerre. Tratto dall'omonimo libro postumo, il regista bavarese Jo Baier dirige La fine è il mio inizio (2010), il toccante racconto degli ultimi giorni di vita del giornalista Tiziano Terzani.

Niente flashback. Niente meraviglie. Nella quiete domestico-rurale dell’Appennino Tosco-Emiliano Tiziano Terzani (Bruno Ganz) è un uomo in pace con se stesso. Lontano anni luce dalle rabbiose farneticazioni d’intolleranza anti-islamica della collega Oriana Fallaci. Qual è l’ispirazione di oggi? si domanda. La storia di Tiziano è nota a tutti. A 33 anni parte con la famiglia per l’Asia. Resta dodici anni a Singapore. Documenta la presa di Saigon dei Vietcong e la fine della guerra del Vietnam.

Nel 1980 riesce a entrare in Cina come inviato per il settimanale tedesco Der Spiegel e lì si accorge che il sogno maoista altro non è che un controllo totale di una società dove chi crede nel Sistema reprime chi lo nega. E questa tragica storia è continuata. Lì, come in troppi luoghi del mondo.

Il racconto al figlio Folco (Elio Germano) non ha il sapore dell’ultima testimonianza né della confessione. Alterna aneddoti di reportage all’incontro con l’amata moglie Angela (Erika Pluhar). Tiziano ha ancora qualcosa da dire. E lo fa. Insieme al sangue del suo sangue. Nel nome della più grande rivoluzione possibile e immaginabile. Quella interiore. Per uscire dal giogo feroce dove ciascuno è succube della bramosia economica.

Ganz interpreta Terzani con straordinaria e toccante umiltà. Germano è un gregario perfetto che accompagna al traguardo (della vita) il “vecchio” nella sua ultima salita. Chi crederebbe in Gandhi al giorno d’oggi, si domanda candidamente. Tiziano Terzani è solo Tiziano Terzani. Un uomo che ha fatto la sola vita possibile per se stesso: quella in cui ci si riconosce. E lassù, sulla montagna toscana. Insieme a Folco. Nel guardare le nuvole che si susseguono, è ormai arrivato. Il suo cerchio si è chiuso. La fisicità del suo corpo è pulviscolo d’immortalità.

Chi fa cantare gli uccellini? C’è questo essere cosmico, e se tu per un attimo hai la folgorazione di appartenergli, non hai più bisogno d’altro, disse. E al giorno d’oggi, chi crederebbe a Tiziano Terzani?

 Guarda il trailer del film La fine è il mio inizio

La fine è il mio inizio - Tiziano Terzani (Bruno Ganz)
La fine è il mio inizio (2010, di Jo Bayer)

giovedì 18 aprile 2013

X-Men, andate affanculo

Charles Xavier (James McAvoy), Wolverine (Hugh Jackman) ed Erik Lehnsherr (Michael Fassbender)
Wolverine (un clinteastwoodiano Hugh Jackman) ha i suoi pensieri e non vuole sentire né vedere nessuno mentre si gode placido al bar whisky e sigaro.

di Luca Ferrari

X-Men - L'inizio
(2011, di  Matthew Vaughn). I mutanti Charles Xavier (James McAvoy) ed Erik Lehnsherr (Michael Fassbender) sono in fermento. Sono in giro a reclutare i loro simili per insegnargli a gestire i propri poteri in modo corretto. Non tutti gradiscono però. Arrivati in un bar per parlare con il sig. Logan (Wolverine), fanno appena in tempo a presentarsi che senza essere degnati di nemmeno uno sguardo, si beccano un chiaro e semplice Andate affanculo.

Da osservare con attenzione l’espressione dei due “viandanti” dopo siffatte parole al limite del divertito/sorpreso.

Go fuck yourlself, Wolverine

mercoledì 17 aprile 2013

Urgenza cinematografica Hitchcock

L. Wasserman (Michael Stuhlbarg), P. Robertson (Toni Collette) e A. Hitchcock (Anthony Hopkins)
Può davvero comprendere solo chi crea o ha inventato. Può intendere quel bisogno di urgenza solo chi osserva il mondo in costante moto perpetuo. Rielaborante. In punta di valanga. Può invadere i sensi solo a chi sente di avere un destino prima ancora della propria vita.

di Luca Ferrari

L'ex-giornalista Sacha Gervasi racconta una storia sul regista Alfred Hitchcock. E lo fa evitando d'ingrossare le fila del facile trend dei remake, ma tracciando il percorso di come nacque e si sviluppò il più grande successo del regista londinese, Psycho (1960).

La telecamera entra nel privato della vita domestica. Quella che fa emergere le debolezze del mito e aumenta il ricordo dell’uomo. Per interpretare un Maestro ci vuole un altro Maestro: Anthony Hopkins. E per ogni grand’uomo che si rispetti c’è sempre un gran donna al suo fianco (e viceversa). A incarnare impegno, preoccupazioni e intelligenza di Alma Reville, dolce metà di Hitchcock, Helen The Queen Mirren.

Le luci sul prima e durante il film. Hitchcock (2012). Chi se ne importa della linea del traguardo, adesso voglio il vedere il sudore del viaggio e Sacha esegue volenteroso. Senza sosta. Dall’incontro di Alfred, nervoso per la mancanza di un nuovo progetto, con l’omonimo romanzo di Robert Bloch al rifiuto della major Paramount di finanziare il nuovo progetto. Quindi la scelta di rischiare con il proprio denaro (ipotecando la casa) e l’inizio delle riprese. 

Gl'iniziali sguardi imponenti dell’uomo-invincibile-Alfred dinnanzi al candidato sceneggiatore, lo psicologo-dipendente Joe Stefano (Ralph Macchio) e il possibile protagonista Anthony Perkins (James D’Arcy), mitigano poi in moine ed esagerati vezzeggiamenti verso la prima attrice, la bella Janet Leigh (Scarlett Johansson). Camminano alleati di Hitchcock, la fedele segretaria Peggy Robertson (un’irriconoscibile Toni Collette) e il proprio agente Lew Wasserman (Michael Stuhlbarg).
Non c’è solo “Motore, Ciak e azione”. Gervasi chiede di più. Così, mentre il genio creativo di Alfred insegue attrici perfette e dialoga con il criminale che ispirò la stesura del libro Psycho, il serial killer Ed Gein (Michael Wincott), Alma prende le redini del film quando il marito è malato e  la Paramount vuole sostituirlo. Io voglio solo fare il mio film, dice Alfred quasi come un bambino imbronciato. 

E se Hitchcock è l’uomo che filma in attesa della gloria (che puntuale arriva), la Reville è la donna ombra. Soffre, lotta, si preoccupa e piange col marito. Eppure sembra che l’unico a rivolgerle le attenzioni che merita sia lo scrittore Whitfield Cook (Danny Huston). Alma però non è quel tipo di donna che si arrende. Vuole attenzioni. Vuole riconoscimento. E li pretende da chi ha sposato e non da qualche farfallone che spera in un aiutino per il suo ultimo libro. Alma lascia l’ingombrante (in tutti i sensi) marito godersi la fama mentre lei si ritaglia il ruolo di gregaria. 

Ma qualcosa è cambiato per sempre. Con Psycho il Maestro ha scoperto che la realtà ha superato le fantasie. In tutti i sensi.


lunedì 15 aprile 2013

Dead Man

Dead Man - William Blake (Johnny Depp)
Bianco e nero. Chitarra elettrica distorta. Un lento e inesorabile vagabondare nel nulla. Dead man (1995, di Jim Jarmusch).

di Luca Ferrari

Frastuono di fanatismi. Odori intermittenti di blues umani. Fiori di carta avvinghiati sul fango più dolcemente rattristato. Sono le persone che oggi non potrebbe mai scappare. La strada punta il nord. La strada non torna a Oriente. L’immagine che mi ha attraversato in un simile territorio temporale non spiega il perché sia arrivato fino a questo punto. Tutto ciò non potrebbe ricordare il colloquio che hanno appena interrotto? Attesa. Il tempo sapeva fare solo quello. Attesa. Può un giovane uomo già rassegnarsi a morire lontano da tutto e ripensare ai lamponi che gli sarebbe piaciuto coltivare? Non lo so.

Dicono sia preferibile non viaggiare con un morto. Non lo so. Credo di essere rimasto col dubbio per parecchi mesi prima d'incontrare il regista Jim Jarmusch.

Quello che ricordo al mio risveglio fu una non-coincidenza per qualsiasi inscrizione a lati uguali. I polpastrelli sfiancati. Il confine oltre la propria separazione onirica - Dead man (1995) - Fin dall’attimo successivo alla fine, la sensazione che non ci fosse più posto per interrare i solchi. Ormai è stato tardi, anche se mi mettessi di traverso tra uno scalino e una portata.

Dead Man (1995, di Jim Jarmusch) – William Blake (Johnny Depp) è un timido contabile di Cleveland, neo-assunto all’estremo West americano nella città di Machine dove vige la legge dello spietato John Dickinson (Robert Mitchum). Uno scontro a fuoco con il figlio di questi per salvare la giovane Thel (Mili Avital) e scatta la caccia all’uomo. 

Vengono assoldati i tre migliori bounty killer: il temerario (e cannibale) Cole Wilson (Lance Henriksen), il logorroico Conway Twill (Michael Wincott) e il giovane Johnny “The Kid” Pickett (Eugene Byrd). Nella sua fuga a cavallo, il disperato e ferito William s’imbatte nel nativo Exaybachay (Gary Farmer), Colui Che Parla ad Alta Voce Senza Dire Niente detto Nessuno. Un tempo portato in Europa in gabbia, lì imparò a leggere e conobbe i versi del poeta William Blake. Non concependo l’idea dell’omonimia, scambia il fuggitivo per la reincarnazione dell’artista. Comincia una nuova iniziazione dove l’uomo si deve rimpossessare dell’io più inaccessibile e intangibile.

L’impatto dentro la pellicola è spietato nel lento e progressivo cavalcare metallico del convoglio. Fermata dopo fermata, il viaggio dall’Est all’Ovest si snoda negli abiti e nella fisionomia differente dei passeggeri. Un truce e analfabeta macchinista (Crispin Glover) dialoga con William Blake in treno prima di arrivare a destinazione, preannunciandogli senza giri di parole una macabra fine. I primi passi in città sono crudi e impassibili. Teschi di bisonte ovunque. Sporcizia. Cavalli che urinano. Un pistolero nell’atto di farsi soddisfare oralmente da una donna che mal tollera lo sguardo esterrefatto dello straniero.

Ad accompagnare la narrazione della pellicola, presentato in concorso alla 48° edizione del Festival di Cannes, la chitarra irresistibilmente distorta del cantautore canadese Neil Young. Nota dopo nota supporta il percorso dello “stupido uomo bianco” verso la propria dimensione tra peregrinazione, omicidi, peyote e oblio celeste. Talvolta solo note. Arpeggi. Talvolta sono tuoni. Aggraziati. Impuri e minacciosi. Rimbombi interiori senza alcuna indicazione di pace. Tagliole senza circostanze. Flauti con vista sull’infinito. Echi ombrosi del proprio respiro. Fino all'ultimo battito. 

A immortalare ogni singolo scorcio languente, la fotografia di Robby Müller. Un mondo dove si ha la sensazione che la civiltà, intesa come costruzione, sia un optional. Nel bianco e nero di Jim Jarmusch l’uomo può ancora ambire al dominio dei sensi.

Nella macchia dove non esistono punti cardinali ma soltanto i resti di qualche “sfortunato” avventuriero, cadono tutti sotto i colpi di Blake & Nessuno. Sceriffi assoldati da Dickinson, pistoleri in cerca della taglia, missionari (Alfred Molina) e pure una combriccola di ambigui accampati: Big George (Billy Bob Thornton), Benmont (Jared Harris) e Salvatore "Sally" Jenko (Iggy Pop), tutti desiderosi di “avere” per sé il bel Willie. Il viaggio verso l’accampamento indiano di Nessuno prosegue. Il ricongiungimento del poeta con il Grande Spirito è estenuante. C’è una canoa che lo aspetta alla fine della corsa. Una canoa per il suo esangue cammino verso il Tutto senza nome.

Una torcia, e già mi chiedono se stia andando a casa.  La conversazione interrotta sulla strada intervallata da un’unica e inespugnabile frase che perdura ancora dentro di me. I pensieri anticipano una reazione che può essere una fermata. Uno scossone alla testa, etc. Assaggio il mio sangue per necessità rinascente. Lascio le ferite in vista dell’oscurità. Lontano ancora. Lontano, finalmente.


Dead Man, by Jim Jarmusch

Dead Man (1995, di Jim Jarmusch)
Dead Man - il nativo Nessuno (Gary Farmer)
Dead Man - William Blake (Johnny Depp)
Dead Man - William Blake (Johnny Depp)
Dead Man (1995, di Jim Jarmusch)
Dead Man - William Blake (Johnny Depp)

venerdì 12 aprile 2013

Tempesta, X-Woman in Romicsland

Romics 2013Viviana Ammannato è la mutante buona Tempesta
Tempesta è il personaggio in assoluto più appropriato per questo periodo. Mi è piombata addosso all'improvviso” parola di cosplayer.

di Luca Ferrari 

“Inizialmente per questo Roma Romics avrei dovuto interpretare un altro personaggio e non la mutante buona" racconta la danzatrice/pittrice Viviana Ammannato, "ma poi è andata così. Tempesta ha il potere di controllare e manifestare il tempo atmosferico terrestre ed extraterrestre, i campi elettromagnetici, le correnti oceaniche, l'aria e le molecole d'acqua.

Ha un potenziale che le consente l'uso della magia e della stregoneria. Molti dei suoi antenati erano maghi e sacerdotesse. Appartiene a una linea di donne che, per qualche ragione sconosciuta, fin dagli albori di Atlantide hanno caratteristiche distintive di capelli bianchi e occhi azzurri. Questo spiega il suo aspetto fisico”.
E se per rivedere sul grande schermo il premio Oscar Halle Berry nuovamente nelle vesti mutanti di Tempesta bisognerà aspettare il 2014 con X-Men: Days of Future Past, diretto da Bryan Singer con giovani e più maturi eroi mutanti quali James McAvoy, Patrick Stewart, Michael Fassbender, Ian McKellen, Mr. Wolverine Hugh Jackman e Jennifer Lawrence, nel frattempo "ci possiamo consolare" con la sua degna erede, Viviana. Ma come tra i tanti personaggi femminili la sua scelta sia caduta proprio sulla superoina Ororo Munroe (il vero nome di Tempesta), lo spiega la diretta interessata:

“Attualmente mi sento un tutt’uno con la tempesta, con il mondo intorno a me. Talmente insita nelle cose, in pro e in contro, che ogni mio pensiero, ogni umore, è in grado letteralmente di calamitare a me eventi/cambiamenti e situazioni. Un potenziale immenso, che a tratti persino io stento a padroneggiare e del quale, solo a patto di un lavoro costante e intenso, rimango consapevole. Un po’ proprio come Tempesta con i suoi sentimenti, che appena gliene sfugge mezzo, il mondo intorno a lei cambia. Si può arrivare all’eccellenza, soltanto con la Presenza. E anche alla Divinità nel suo caso. Perché poi lei, diventa una Dea.

Dopo essersi calata nei panni della residenteviliana Alice Abernathy, l'intrepida Lara Croft e la spaziale Lamù, quest’anno Viviana ha pescato dal filone fumettistico dei mutanti. E per il 2014? "Per il prossimo anno ho già in mente diverse idee ma sono aperta a qualunque cosa a questo punto" spiega la giovane, "Per lo spirito interpretativo con cui mi trovo a partecipare a questi eventi e raduni scopro di volta in volta che mi si – attacca – addosso la parte più appropriata di quello specifico periodo. Come essere in una casa degli specchi: ci sono varie – me – intorno, ma gira e rigira mi corrisponde sempre il riflesso/personaggio più giusto per un caso che non è mai veramente per caso".

Prima di veder sparire Viviana nella dimensione Woderlandiana insieme ad Alice e il Cappellaio matto, non mi resta chiederle quali superpoteri le piacerebbe davvero avere.

"Vorrei essere specchio di essenza. Per me e per le altre persone così che, specchiandosi, tutti potessero sentire e vedere la maggior parte disponibile di sé. La parte più vera e innegabile" replica la fanciulla, "Questo porterebbe molti a impazzire, a fuggire, a nascondersi, a suicidarsi. Altri a cambiare, a scegliere o a rimanere semplicemente quel che si è e dove si è.

Perché la Verità è sempre la cosa più scomoda o difficile da affrontare, soprattutto in periodi difficili come questi che viviamo, ma è l'unica via, e vale sempre la pena. Anche volare comunque non mi dispiacerebbe. E compiere grandi evoluzioni fisiche. Per trascendere i limiti di questo corpo. E a questo ci sono abbastanza vicino".

Romics 2013Viviana Ammannato è la mutante buona Tempesta
Romics 2013Lamù (Ilaria Venturi) e Tempesta (Viviana Ammannato)
Romics 2013Alice, Il cappellaio matto e Tempesta
Romics 2013Lamù e Tempesta con a fianco due possenti guerrieri

giovedì 11 aprile 2013

Il figlio dell'altra, People Have The Power

Il figlio dell'altra (2012, di Lorraine Levy)
Un banale esame del sangue prima dell’arruolamento militare fa emergere una impensabile realtà per due famiglie di Israele Palestina Il figlio dell'altra (2012, di Lorraine Levy).

Nel 1991, durante l’ennesimo scontro tra Israele e Territori Palestinesi, Orith Silberg (Emmanuelle Devos) e Leïla Al Bezaaz (Areen Omari) partorirono nel medesimo centro e durante la fuga dall’ospedale il personale medico scambiò i neonati. Per diciotto anni Joseph (Jules Sitruk), arabo, ha vissuto a Tel Aviv come un normalissimo cittadino ebreo mentre Yacine (Mehdi Dehbi), israeliano, ha passato l’intera infanzia e adolescenza in Palestina tra controlli sul muro e viaggi in Francia per diventare un giorno un dottore.

Ora che la verità è emersa, che cosa si fa? Si beve un caffè? Si fuma una sigaretta? Si lava la macchina nel cuore della notte? Si continua a fare il proprio lavoro? Si, esattamente questo. All’inizio per lo meno. Poi inevitabilmente qualcosa cambierà. Qualche saluto tirato. Qualche equilibrio (s)fo/erzato. Qualche carezza interiore. Qualche gesto che nessun trattato di logica o filosofia applicata sarà mai in grado di comprendere davvero. Il figlio dell'altra (2012, di Lorraine Levy).

Israele e Palestina. Una tragica storia infinita cui il mondo occidentale e l’Europa in particolare ha la responsabilità maggiore. Troppa vergogna per accettare di aver avuto dentro sé l'atroce piaga del nazismo (anche se per i macelli e genocidi in Nord America, Africa e Sudamerica non c’è stato lo stesso mea culpa) e così hanno portato il popolo ebraico, ancora traumatizzato dalla follia hitleriana, nella loro terra d’origine.

E nella miglior tradizione dei Ponzio Pilato, il nuovo esodo ebraico viene condotto senza pensare alle possibili conseguenze, o forse in modo più subdolo e calcolato, è stato tutto voluto. Tanto sarà lontano, quindi chi se ne frega. Funziona sempre così. Può anche scatenarsi l’inferno, l’importante è che sia a debita distanza. O in certi casi pure vicino (il genocidio in Bosnia), l’importante è che non sia fondamentale per l’economia delle stelline giallo-azzurre.

Sono passati decenni nell’ingiusta follia israelo-palestinese. Un orribile muro circonda una nazione. Quando saremo vecchi (alcuni di noi) e sarà passato un secolo dalla fine della II Guerra Mondiale, ci sarà ancora. O magari no. Forse la gente farà capire alla politica opportunista che non basta il cemento per dividere e affossare per sempre lo spirito dell’uomo e la sua lotta di giustizia ed eguaglianza. 

Lo stesso “braccato” Roberto Saviano ha ribadito il concetto, di avere più fiducia nei suoi lettori che non in se stesso. People Have The Power cantava Patty Smith. Si, la gente ha la forza di cambiare. Iniziano subito a farlo le due madri. Unite dal dolore di poter vedere andare via un ragazzo che hanno amato per 18 anni come il loro legittimo figlio e sapendo che il vero frutto del loro amore è stato lontano per tutto questo tempo.

La politica non asciuga le lacrime né mette un cerotto su di una sbucciatura. La politica non resta in piedi fino a notte tarda quando per la prima volta andiamo a una festa. La politica non sa cosa significhi non vedere più tornare a casa qualcuno. Non c’è ideologia che tenga. Non c’è follia nazionalistico-religiosa che possa pensare di piegare a tal punto le emozioni degli esseri umani. Ci stanno provando da secoli e non ci sono mai riusciti. 

La conferma arriva direttamente dalla delicata regia di Lorraine Levy, quando l'inizialmente rigido colonnello Alon Silberg (Pascal Elbé) usa tutta la sua influenza per far avere un foglio di visto per entrare in Israele al giovane Bilal (Mahmoud Shalaby), fratello carnale del suo figlioccio Joseph. O ancor di più quando i due padri di casa, Alon e Saïd (Khalifa Natour) vanno in un bar anche se non sanno cosa dirsi, specialmente visto il mondo diverso cui appartengono (inevitabile lo scontro ideologico). 

Per Joseph e Yacine è invece tutto più facile. Analogo discorso per le due madri. Sono donne. Sono più in connessione con la propria anima emotiva. Alla tavolata dell’amore c’è sempre posto. Anche se arriva in ritardo di diciotto anni. Anche se bisogna passare per lacrime solitarie sulla spiaggia. Il lieto fine ci deve essere sempre. Nel guardare Leïla e Saïd che aggiungono un’immagine di Joseph nelle loro foto di famiglia appesa, hai la certezza di una cosa. Cadrà tutto. Cadrà ogni muro ideologico.

Il trailer de Il figlio dell'altra

Il figlio dell'altra - Joseph (Jules Sitruk) e Yacine (Mehdi Dehbi)
Il figlio dell'altra - le famiglie ebree e arabe vengono messe al corrente
Il figlio dell'altra - Said (Khalifa Natour) e Leila (Areen Omari)

mercoledì 10 aprile 2013

Cineluk, il magazine che voleva ingannare il diavolo

Parnassus, l'uomo che voleva ingannare il diavolo - Tony Shepard (Heath Ledger)
"Quale prezzo hanno i vostri sogni?" chede lo straniero Tony (Heath Ledger) al cospetto del dott. Parnassus? Cineluk risponde con le parole dell'anima
 
di Luca Ferrari

Dal cinema alla mera composizione di parole. Talvolta prima ancora del film. Talvolta è sufficiente un trailer per farsi travolgere da un'esigenza incontrollabile. Il maestro Terry Gilliam mi scarica addosso una tempesta di colori visivi, e il risultato è un confano che si rivela porta primogenita di sentieri senza fili né interruzioni. Dove il mondo è tutto quello che si crede possa essere.

THE IMAGINARIUM OF CINELUK

tengo gli occhi nelle mani
senza guardare quello che accade fuori dalla finestra
alzando ugualmente  la posta in palio
sui farraginosi trampoli del tempo mutato

faccio esattamente quello che compete
a chi cade sempre all’indietro
al momento di fare a botte con la morte

ho provato a usare l’inchiostro simpatico
per impreziosire i miei sogni
evirandoli di regole interrogative... tu che ne dici?
Voilà... non sapete nemmeno dove sia in questo momento
eppure pretendete di sentire il rumore dei portoni

l’immortalità anche di un solo mistero
è abbastanza per non dare alcuna tregua
alle acrobazie del proprio specchio recondito sopra le nostre orme

perché mi chiedi cosa stia facendo quando non ho mai smesso
di usare le pianure
sotto uno di quei sovrastimati cieli che ora appena usato i gradini
per andare chissà dove...


Heath Ledger in Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo

Parnassus (Christopher Plummer) e il diavolo (Tom Waits)

Al Pacino, Scent of Man

Scent of Woman (1992) – Frank Slade (Al Pacino) difende Charlie Simms (Chris O'Donnell)
La lezione totale. Contro l’arroganza, il nepotismo, le strade facili, il ricatto. L’oratore è il tenente colonnello Frank Slade (Al Pacino). 

Nessuno lo aspettava. La vittima sacrificale era già sul patibolo e come sempre nel cappio non ci finiscono mai i potenti. Meno che meno nella fucina dell'alta aristocrazia dei giovani bambocci americani. Per fortuna del brillante ma di umile estrazione Charlie Simms (Chris O'Donnell) al suo fianco c’è un uomo tutto d’un pezzo. Un uomo che ha combattuto in Vietnam e poco incline a farsi impressionare dai debosciati politicanti di turno.

Slade alza la voce ma non lo fa per porre la testa china sul ceppo del boia. Entra in quell’aula per vincere, non per dire la sua opinione e sentirsi a posto con la propria coscienza. Entra in quell’aula per cambiare un destino già segnato. Slade ragiona da pragmatico. Infischiandosene delle latrine ideologiche e propagandistiche di cui il mondo è invas(at)o. Slade si batte per un amico coraggioso.

Scent of Woman (1992). Con la sceneggiatura di Bo Goldman, il regista Martin Brest rilegge Profumo di donna (1974) di Dino Risi con protagonista Vittorio Gassman. Il giovane Charlie è alla prestigiosa Baird School grazie a un sussidio. Testimone per caso di un atto di vandalismo ai danni dell’auto del preside di facoltà, il sig. Trask (James Rebhorn), rifiuta di fare i nomi degli autori (suoi compagni di classe) anche dinnanzi alle "pressanti" richieste del dirigente scolastico che in caso di rifiuto gli promette una decisa ostruzione nel mondo universitario.

E mentre il viziato figlio di papà George Willis jr. (Philip Seymour Hoffman), anch’esso semi-presente all’atto, viene lodato per aver menzionato a metà qualche nome, Charlie viene pubblicamente denigrato e definito dal preside “un artista della dissimulazione” e un “perfetto bugiardo”. A quel punto interviene il colonnello Slade ribattendo alle accuse di Trask:

“Ma non è una spia! Non la scuso, e questa è una grandissima stronzata. Il sig. Simms non vuole un’ultima chance per dire la verità. Non gl’interessa l’etichetta di studente ancora degno delle Baird School. Ma che significa? Qual è il vostro motto qui? Basta denunciare i propri compagni per salvarsi il culo? E chi non fa la spia viene mandato al rogo? Beh, signori miei. Quando piove la merda c’è molta gente che scappa e pochi altri che tengono duro. E qui Charlie affronta il fuoco mentre George si nasconde nelle mutande di papà. E voi che cosa fate? Decidete di salvare George e di distruggere Charlie.

No amico mio, non ho finito. Ho cominciato appena, replica subito deciso in risposta alla saccente arroganza del preside. Novello (guerriero) prof. Keating dell'Attimo Fuggente (1989) sale sopra una (metaforica) cattedra e riprende il suo discorso senza lesinare giudizi.

Io non so chi ha frequentato questa scuola. Guglielmo Howard Tell? Chiunque sia, il loro spirito è morto e se ce l’hanno mai avuto, è scomparso. Alla Baird state forgiando dei serpenti. Una razza di viscidi conigli spioni. E se credete di portare questi cuccioli alla virilità, levatevelo dalla testa signori miei perché io vi dico che state uccidendo quello spirito che questa istituzione pretende d’infondere. Che truffa! E cos’è questa pagliacciata che avete messo su oggi? L’unico attore di classe di questa farsa è accanto a me. E io affermo che l’anima di questo ragazzo è intatta. Non è negoziabile. E sapete come lo so? Qualcuno qui, e non starò a dirvi chi, lo voleva comprare ma il nostro Charlie non vendeva.

Lei sta esagerando, tuona Tarks con colpo di martello sul leggio.

Glielo faccio vedere io cosa vuol dire esagerare (alzandosi in piedi). Lei non sa che cosa divento quando esagero sig. Trust. Glielo farei vedere ma sono troppo vecchio. Troppo stanco e anche troppo cieco. E se fossi l’uomo che ero cinque anni fa, oooooh io verrei con un lanciafiamme in quest’aula.
 
La smetta, dice stizzito Tarks che come il prof. Nolan vede la sua autorità piegarsi a una forza più dirompente (i ragazzi nell'Attimo Fuggente, qui il coriaceo militare).

Ma la smetta lei piuttosto, ma con chi crede di parlare? Ho girato il mondo, cosa crede? C’è stato un tempo in cui ci vedevo. E allora ho visto, ragazzi come questi. Più giovani di questi. Con le braccia strappate. Le gambe brutalmente lacerate ma non c’è niente di peggio di assistere alla stupida amputazione di un’anima perché per quello non c’è protesi. Voi pensate di rispedire questo splendido soldato alla sua casa nell’Oregon con la coda fra le gambe, ma io vi dico signori che voi state condannando a morte la sua anima. E perché? Perché non è uno della vostra Baird? Un privilegiato! Ferite questo ragazzo e infangherete la Baird. Tutti quanti. E voi Harry, Gimmy, Trent, dovunque siate laggiù, andate affare in culo.

Faccia silenzio sig. Slade (doppio colpo di martello).

Io non ho ancora finito. Entrando qua dentro ho sentito queste parole: la culla della leadership. Beh, quando il supporto si rompe, cade a pezzi la culla e qua è già caduta. È già caduta. Fabbricanti di uomini, creature di leader, state attenti al genere di leader che producete qua. Io non so se il silenzio di Charlie in questa sede sia giusto o sbagliato. Non sono giudice né giurato ma vi dico una cosa. Quest’uomo non venderà mai a nessuno per comprarsi un futuro. E questa amici miei, si chiama onestà. Si chiama coraggio e cioè quelle cose di cui un leader dovrebbe essere fatto. 

Io mi sono trovato spesso a un bivio nella mai vita. Io ho sempre saputo qual’era la direzione giusta. Senza incertezze sapevo qual’era. Ma non l’ho mai presa. Mai. E sapete perché? Era troppo duro imboccarla. Questo succede a Charles. È giunto a un bivio. E ha scelto una strada. Ed è quella giusta. È una strada fatta di principi che formano il carattere. Lasciatelo continuare nel suo viaggio. Voi adesso avete il futuro di questo ragazzi nelle vostre mani. È un futuro prezioso. Potete credermi. Non lo distruggete. Proteggetelo. Abbracciatelo. È una cosa di cui un giorno andrete fieri. Molto fieri.  

martedì 9 aprile 2013

Un giorno sono andata

Un giorno devi andare (2013, di Giorgio Diritti)
Un giorno Augusta è partita. Si è messa in gioco senza rete di protezione perché nella vista succede che Un giorno devi andare (2013, di Giorgio Diritti).

di Luca Ferrari

Augusta (Jasmine Trinca) è in viaggio con il suo carico di pensieri. I sorrisi per se stessa restano al minimo indispensabile. Non sono necessari. Non ci sono e basta. Forse. Augusta fa la missionaria in Amazzonia (Brasile) con Suor Franca (Pia Engleberth) ma Dio non c’entra per la ragazza. Le sue domande mettono la stessa religiosa in difficoltà ma non c’è conflitto. Forse è solo un problema di fede. C’è chi ce l’ha, e chi non sa nemmeno cosa vede quando si specchia sulle acque del mare.

Augusta solca il Rio delle Amazzoni e il suo sguardo trasforma le proprie emozioni in carezze senza contatto. Ha perso il papà di recente. Nel freddo altoatesino la madre Anna (Anne Alvaro) aspetta sue notizie. Qualche sporadica chiamata e un sorriso un po’ malconcio via skype.

Augusta prosegue il viaggio da sola. Cercando la propria strada. Volendo stare bene. Anche da sola. A contatto con la sola terra e l’acqua della pioggia. Da un lavoro in palestra all’impegno per salvare una comunità delle favelas, a un girovagare fisico e interiore in canoa. Augusta non cerca d’insegnare nulla a nessuno.

Fragilità e forza. Smarrimento e certezze. Un giorno devi andare (2013). Giorgio Diritti non mette mappe né isole inesistenti nel percorso della sua protagonista. Lei è semplicemente e banalmente seduta con lo sguardo senza futuro davanti a una cattedrale. Con l’umidità di una calda mattinata privata delle sue attese a non interferire. Il dolore non chiede vaticini né consigli. Aspetta tutto insieme a lei. Nell’altro capo del mondo intanto, sua nonna Antonia (Sonia Gessner) inizia ad avere paura di morire.

Un pacco nel frattempo arriva in Brasile. Ci sono i piatti d’orchestra del padre musicista. Augusta si fa novella pifferaia di un mondo che ormai le appartiene ma non le chiede nulla. Non le chiede un sorriso quando lui è allegro. Non le chiede quanto e se resterà. La sua impronta sulla sabbia viene sbilanciata dalle coccole e la gioia che regala e da cui si fa travolgere da un bambino indio (il piccolo Nilson Trindade Miquiles). Poi tutto finisce. Non so se lei voglia ricominciare. Si lo farà. No, non lo farà.

Un giorno non devi mai tornare. Un giorno l'arcobaleno non sorge. Un giorno non l'ho inventato io.

Il trailer di Un giorno devi andare

Un giorno devi andare - Augusta (Jasmine Trinca) e i piccoli delle favelas
Un giorno devi andare (2013, di Giorgio Diritti)