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giovedì 20 novembre 2014

Interstellar siamo noi

Interstellar - Murph (Jessica Chastain)
Christopher Nolan porta sul grande schermo il realismo della fantascienza teorizzata dal fisico Kip Thorne. Un’odissea Interstellar(e) con grandi protagonisti.

di Luca Ferrari

Devo ancora riprendermi. Faccio fatica a digerirlo. Insolitamente ai miei trend cinematografici che poco hanno a che sbavare con la fantascienza, mi sono infilato in una sala buia per assistere alla visione di Interstellar. Gusto momentaneo a parte, non era una scelta particolarmente entusiasmante per il sottoscritto. Del film se ne parlava troppo. Di Christopher Nolan si scrive a ripetizione, e in più le due 2,45 h. di visione non mi facevano impazzire di gioia. Risultato? Nemmeno un secondo di smarrimento o di occhi cadenti. Un viaggio interstellare tanto realistico quando inimmaginabile.

Dimenticatevi (per un po’) di Stanley Kubrick e la sua celeberrima Odissea. Cancellate dalla vostra memoria Gravity (2013, di Alfonso Cuarón)) e i tanti viaggi spaziali fin troppo improbabili. La Terra è in difficoltà, ma non siamo ai livelli cannibali di The Road (2009, di John Hillcoat). La sola speranza sarebbe abbandonarla trovando un altro mondo abitabile, ma tutti sanno che nella nostra Galassia non vi è un altro pianeta con le condizioni di vita terrestre. Come si fa allora? Qualcosa in effetti si potrebbe fare, ma è molto, molto lontano.

Senza che il resto del pianeta ne sia al corrente vi sono già state missioni verso nuovi mondi. A guidare l'ultima c'è Cooper (Matthew McConaughey), padre vedovo di due figli, oggi agricoltore per ragioni di sopravvivenza ma ex-pilota della NASA. Il caso (almeno così sembra) lo conduce a bussare alla porta dei suoi ex-datori di lavoro, scoprendo qualcosa di inimmaginabile. Dalle parti di Saturno c’è un buco nero attraverso il quale è possibile raggiungere mondi abitabili. Già altri valorosi astronauti si sono spinti fin laggiù. Realizzatore del progetto, il suo mentore, il professor Brand (Michael Caine).

Pur con le lacrime rabbiose della figlia Murph (Mackenzie Foy), vuole e deve partire. Qualcosa o qualcuno sembra averlo scelto per quest’ultima missione, anche se una strana forza di gravità scrive sul quaderno della piccola di restare. Lui però va. Al suo fianco, la figlia di Brand stesso, la biologa Amelia (Anne Hathaway), due scienziati e due robot. Ha inizio un viaggio a più dimensioni, dove un’ora vissuta in uno di quei pianeti equivale a sette anni terrestri.

Cooper non è un eroe. Accetta la missione poiché convinto che senza di lui la Terra non avrebbe nemmeno una possibilità. È preparato a stare solo e affrontare l'ignoto, ma quando si ritrova la figlia ormai cresciuta (Jessica Chastain) che gli lascia un video-messaggio, e praticamente sua coetanea, la tensione del suo viso si scioglie in lacrime più coinvolgenti di qualsiasi esasperato e futile 3D.

“Era da un bel po' di tempo che non andavo al cinema e in principio questo titolo mi era sfuggito. O meglio avevo deciso di non spendere 7,5 euro” commenta sincero il veneziano Andrea Venerando, “Poi però la polemica che si era sollevata sulla lunghezza del film, sulle inesattezze, etc. unita a una sana dose di curiosità (ammetto che adoro i film catastrofici-catastrofisti) mi hanno spinto a entrare in sala. Tre ore dopo di film senza interruzioni e con il collo che me le farà pagare tutte, posso dire di essere rimasto angosciosamente soddisfatto.

È stato impossibile non restare incollati alla poltroncina senza perdere nemmeno un secondo. Insomma, soldi ben spesi. Film ben fatto e finalmente realistico. Per la prima volta (non la seconda dopo Gravity) le esplosioni nello spazio sono state magnificamente silenziose. Le polemiche sulle, chiamiamole “licenze poetiche” del regista, sono del tutto immotivate. Signori, è un film e non un documentario di fisica quantistica. Una volta tanto è l'uomo la causa della sua rovina, non degli strani omini verdi ma allo stesso tempo è l'uomo (speriamo anche nella realtà) l'artefice del proprio destino”. 

Oltre a un grande cast nel quale figurano anche Matt Damon (Dr. Mann), Casey Affleck (Tom cresciuto) e John Lithgow (Donald, il suocero di Cooper), il grande merito di Nolan è aver tenuto una storia così lunga senza facili effetti suspense, mostrando uomini e donne privi di qualsiasi corazza cinico-Marvelliana, ma animati al contrario anche nel cosmo più lontano dagli stessi egoismi e legittimi sentimentalismi.

Interstellar colpisce. Fa riflettere in un modo diverso. Non ha morale. Non usa escamotage per farci credere che se ci sapremo prendere tutti per mano, qualcosa cambierà e non saremo risucchiati nel vortice dell'auto-distruzione. C'è qualcosa di più profondo. Di più possibile.C'è qualcosa di universalmente nostro che ci appartiene oltre ogni confine.

Guarda il trailer di Interstellar

Interstellar - Murph (Mackenzie Foy) e Cooper (Matthew McConaughey)
Interstellar - Cooper (Matthew McConaughey)
Interstellar - Amelia (Anne Hathaway)

venerdì 14 novembre 2014

Jerry Maguire, chi viene con noi?

Jerry Maguire (Tom Cruise)
Lealtà? Rispetto? Cuore? Ma dove! Il mondo del lavoro è sempre più spietato e i romantici alla Jerry Maguire finiscono disoccupati o brutalmente sfruttati.

di Luca Ferrari

Il mondo del lavoro italiano è allo sfascio. Le aziende o qualsiasi altro ipotetico erogatore d'impiego pretendono sempre di più, dando in cambio meno del meno. Ferie, sanità, maternità. Tutte noie cui si deve per forza abdicare, altrimenti quella è la porta. E se qualcuno poi provasse a metterci un po' di calore umano, neanche a parlarne. È il debole del branco e si fa fuori. A metà anni Novanta accadeva tutto ciò anche al procuratore sportivo Jerry Maguire. La sua però era una storia (1996) by Cameron Crowe, con un trionfante lieto fine.

Jerry Maguire (Tom Cruise) è un uomo di successo. Vive per il lavoro. È sprezzante, lanciato e cosa peggiore, tratta i propri rappresentati come introiti a due gambe. Non gli bastano mai. Ne vuole sempre di più. All'ennesimo trauma cranico di un suo giocatore di football però, il figlio di questi lo prende a mal parole e qualcosa nella sua coscienza ha la meglio. Si mette al computer unicamente dettato dai propri sentimenti.

“Ho cominciato a scrivere quella che chiamano una relazione programmatica” dice Jerry nella sua svolta interiore che lo segnerà per sempre, “A un tratto ero di nuovo Maguire. Ho scritto e scritto e scritto e scritto. E non sono mai stato nemmeno uno scrittore. Ricordai perfino le parole del più grande procuratore sportivo, il mio mentore, il grande e compianto Dicky Fox che diceva – il segreto di questo mestiere sono i rapporti, i rapporti personali –.

È la sua fine professionale. Un suicidio stampato e consegnato a tutti i colleghi. Licenziato dal suo delfino, il viscido Bob Sugar (Jay Mohr) che gli da il benservito nel modo più vigliacco possibile, invitandolo a pranzo in un ristorante. Maguire rimane solo. Torna in ufficio chiedendo ai colleghi di seguirlo, per iniziare un nuovo corso. Ispirata dalle sue parole, solo la giovane vedova Dorothy (Renée Zellweger) accetta, pur mettendo a repentaglio il proprio futuro e quello del giovane figlioletto Ray (Jonathan Lipnicki).

Tutti i giocatori lo scaricano, anche i fedelissimi. Preferendogli la sicurezza della sua ormai ex-agenzia. Tutti meno uno, il sottovalutato Rod Tidwell (Cuba Gooding Jr.), giocatore di football dal carattere un po' difficile ma di gran cuore. Jerry deve risalire su di un treno che lo ha scaraventato fuori in malo modo, e per cosa? Perché si è dimostrato umano. Perché ha provato a rivedere le sue posizioni pensando al rispetto oltre che al proprio conto in banca.

Per quanti ne ho letti e ne sto leggendo, potrei scrivere un libro sugli annunci di lavoro. La quasi totalità di essi si propongono sempre allo stesso modo: chiedono una quantità infinita di competenze e mansioni da svolgere senza specificare mai la retribuzione che con tutta probabilità, se ci sarà, non sarà all'altezza dell'impegno preso. E se per caso si avesse l'ardore di non gettarsi subito tra le loro fauci chiedendo qualche legittima spiegazione, la risposta è inesistente.

Si va avanti così allora, in un'Italia seviziata brutalmente da una crescita che non c'è (per il 2015 Moody's ha previsto un margine tra –0,5 e +0,5 per cento), inflazione ben lontana dalla soglia di sicurezza, disoccupazione in costante aumento e pure il settore degli inoccupati sguazza con numeri allarmanti. Lo sfruttamento non produce benessere, sa solo alimentare il bacino della povertà. Ormai la legge imperante è quella del prelevare goccia dopo goccia tutta l'energia dei dipendenti. Ormai la legge imperante è sfruttare e sfruttare ancora, fino a che ciascuno di noi “non sarà visto esangue, cadere in terra a coprire il suo sangue”.

Oggi ancora una volta il Governo non ascolta i Sindacati, e questi sanno solo scendere in piazza. Nessun dialogo. Ognuno prosegue senza costruire nulla. Lì nel mezzo, a non sapere più cosa fare, ci sono milioni e milioni di cittadini. Pedine  sacrificabili di un mondo senza più eroi né autentiche folle rivoluzionarie. Jerry Maguire va per la sua strada. Il suo isolamento diventerà la sua forza. Lui ce la farà. Allo stremo, ma ce la farà. La maggior parte degli emarginati al di qua dello schermo, proprio no.

Disgusto. Frustrazione. Speranza? No, ormai è morta anche quella.

Ritorno al mero cinema per un'ultima chicca d’autore.  Da gran cultore della scena rock anni ‘90 di Seattle qual è Cameron Crowe, vedi i film Singles – l'amore è un gioco (1992), Pearl Jam Twenty (2011) fino all’ultimo La mia vita è uno zoo (2011) dove irrompe l'immortale “Hunger Strike” dei Temple of the Dog, anche in Jerry Maguire (1996) il regista ha voluto omaggiare quel mondo con un piccolo frammento in versione recitativa. A consegnare al protagonista infatti la sua rivoluzionaria relazione programmatica appena stampata, c’è Jerry Cantrell, chitarrista-seconda voce degli Alice in Chains, in versione profetica come ha specificato IMDB nel cast completo, Jesus of CopyMat, che gli dice “È così che si diventa grandi amico, con le palle appese a un filo”. 

Chi verrebbe con noi oggi, Jerry Maguire?

Jerry Maguire - il musicista Jerry Cantrell in versione "profetica"

Jerry Maguire - Dorothy (Renée Zellweger
Jerry Maguire - Rod Tidwell (Cuba Gooding Jr.)
Jerry Maguire - Jesus of CopyMat (Jerry Cantrell)
Jerry Maguire (Tom Cruise)

venerdì 7 novembre 2014

Trainspotting, io cambierò

Trainspotting - Mark Renton (Ewan McGregor)
Demoni, riscossa e memoria. Non capita tutti i giorni di rivedersi un film rimasto nel passato da diciott'anni. A me è appena accaduto, con Trainspotting (1996).

di Luca Ferrari

Una nebbia spietata ad attendermi fuori dalla sala cinematografica. Lì dentro era stata appena consumata la visione di una delle pellicole più chiacchierate del momento, Trainspotting (1996 di Danny Boyle), basato sull'omonima novella di Irvine Welsh, con protagonista quel Ewan McGregor che negli anni successivi si sarebbe sempre più imposto come attore versatile e capace. Il film fu un pugno nello stomaco. Scene crude. Siringhe in vena. Tragedie. Astinenza. Qualcosa che non può non colpirti se hai 19 anni e il mondo lì fuori non è che un gigantesco essere carnivoro travestito da punto di domanda incancrenito.

Ci sono film che guardi e riguardi fino a ricordarti ogni singola battuta. Ci sono film di cui vuoi sempre più assaporare i dialoghi, arrivando a saperli realmente a memoria. Ci sono poi film che come si suol dire - una volta basta e avanza -. Vuoi per i ricordi, vuoi per il tema, vuoi per ragioni personali. Trainspotting è stato uno di questi fino a mercoledì 5 novembre 2014, quando ne ho semplicemente riassaporato l'intera visione.

Per rivedere un film come Trainspotting devi accettare che si accenderà una lotta dentro di te. Rivedere Trainspotting per la prima volta dopo quell'unica visione nell'autunno del '96 significa piazzarsi volontariamente davanti ai cocci di uno specchio, rischiando di cadere dopo qualsiasi espressione. Eppure lo fai, accendi il computer come se fosse l’azione più naturale del mondo.

Scozia, anni Novanta. Un gruppetto di amici portano avanti un’esistenza scandita (a seconda) da eccessi di droghe e alcol. Mark (Ewan McGregor), Spud (Ewen Bremner), Sick Boy (Jonny Lee Miller), il violento Begbie (Robert Carlyle) e l'inizialmente pulito Tommy (Kevin McKidd). Nessuno lavora o quasi. Furtarelli, assegno di disoccupazione e ogni volta che hanno qualche sterlina in tasca (Begbie e Tommy a parte), finiscono tutti nelle tasche del loro spacciatore di fiducia, Swanney (Peter Mullan), detto anche Madre Superiore.

Droga, droga e ancora droga. La morte di un neonato figlio di un’amica tossicomane è la quasi goccia che fa traboccare il vaso e dopo l’ennesima pera con annessa dolorosa riabilitazione, Mark decide di rompere col passato. Abbandona la natia Scozia e ricomincia una nuova vita a Londra. Lavorando. Pagando le tasse. Conducendo una vita sana. I colori vivaci della City pre-Blairiana sono una ventata d’aria fresca rispetto al grigiore scozzese appesantito da colazioni inenarrabili, e dove la sola e unica via d’uscita per l’uomo sembra sia quella di non cercare alcuna via d’uscita. La nuova frontiera inglese tiene il passo fino all’arrivo di Begbie, a cui segue Sick Boy. E coi vecchi amici tornano anche i vizi di un tempo. C’è allora bisogna di qualcosa di definitivo per svoltare sul serio, e cambiare.

Sono passati quasi vent'anni da allora, dalla storia di Trainspotting. Sarà davvero cambiato Mark? Avrà messo la testa a posto come diceva nello speranzoso finale, sottolineando di non vedere l’ora di cominciare questa nuova esistenza? Avrà davvero scelto la famiglia, il lavoro, “il maxi televisore del cazzo”, la lavatrice, la buona salute, il colesterolo basso, la polizza vita, il mutuo, la prima casa, la moda casual, le valigie, i figli, l’orario d’ufficio, i tanti maglioni, la pensione privata e l’esenzione fiscale?

Trainspotting, storia di sbandati dove uno solo alla fine riesce a uscire dal gregge marcio scegliendo il sole. Trainspotting, storia di spietata tossicodipendenza dove l’unica vittima adulta soccombe per amore, sprofondando nella dipendenza più letale dopo essere stato mollato dalla propria ragazza.

Qualche scena esilarante in Trainspotting, ma c’era e c’è ben poco da ridere. Il film uscì in un’epoca in cui molto stava cambiando. La musica erede degli anni Sessanta per coscienza sociale e impegno politico era ormai stata soppiantata da una superficialità disarmante (proseguita imperterrita nel terzo millennio), il tutto condito dai rave party dello sballo più chimico.

Il mondo però va avanti. Tutto cambia. Lo ripete a Mark anche la giovane Diane (Kelly Macdonald). Quella affermazione andrebbe rivista. Quasi tutto non cambia. Forse quel poco di buono che c’è nel mondo ci riesce, il resto soccombe ai propri limiti. Affogando nella gommosità del proprio stridente rossore. Lasciando incautamente solitario un mondo dove il dolore chiede solo una pausa dai pregiudizi.

Trainspotting - Marc sceglie la vita

Trainspotting - Mark (Ewan McGregor) e Madre Superiore (Peter Mullan)
Trainspotting - Mark (Ewan McGregor) si fa di eroina
Trainspotting - la giovane Diane (Kelly Macdonald)
Trainspotting - Begbie (Robert Carlyle), Sick Boy (Jonny Lee Miller) e Mark  (Ewan McGregor)