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venerdì 29 gennaio 2016

Steve Jobs, cinema allo stato puro

Steve Jobs interpretato da un grandioso Michael Fassbender 
Il grande, grandissimo cinema è tornato. I dialoghi. Le parole. La sceneggiatura. Gli interpreti. Steve Jobs (2015, di Danny Boyle). 

di Luca Ferrari

Il lancio del Macintosh nel 1984. I difficili rapporti umani con lo storico collega Steve Wozniack e la figlia non riconosciuta. Il ritorno del geniale informatico come CEO di NeXT. Lì nel mezzo, un uomo affamato di grandezza ma vulnerabile come un qualsiasi altro comune mortale. Basato sull’omonima biografia autorizzata (2011) scritta da Walter Isaacson, a distanza di neanche tre anni da un altro biopic sul co-fondatore della Apple, è uscito giovedì 21 gennaio Steve Jobs (di Danny Boyle).

Tre atti come in una pièce teatrale. Tre atti per immortalare su pellicola il guru informatico Steve Jobs (Michael Fassbender). Dirimpettai del suo genio e brama di creazione, Steve Wozniak (Seth Rogen), co-fondatore della Apple e creatore dell'Apple I e della serie Apple II; la fedele capo-ufficio stampa Joanna Hoffman (Kate Winslet) e l’amministratore delegato della Apple, John Sculley (Jeff Daniels). Con loro Jobs si scontra e confronta. Nei loro dialoghi le convinzioni di un uomo che ha cambiato il mondo sociale molto prima dell’avvento dei social network.

Lavoro, lavoro e tanto lavoro. Il Jobs di Danny Boyle non ammette lo sbaglio. Ha un’idea del mondo e quello vuole rappresentare. Tutti gli altri si devono sintonizzare con lui e se ciò non dovesse accadere, non ha problemi a paventargli la pubblica gogna come nel caso del “povero” ingegnere Andy Hertzfeld (Michael Stuhlbarg), il cui peccato consiste nel non riuscire a far dire ciao al Macintosh durante la presentazione.

Steve è un orfano. Non gl’interessa piacere a tutti. Il meglio di sé lo vuole creare e donarlo (a un prezzo cospicuo, cosa che gli costerà più di un fallimento professionale) al mondo intero. Insieme all’amico Woz ha creato tutto da un garage e non accetta che i tanti Ringo comprimari gli possano sottrarre ciò che è frutto del suo "Lennoniano" ingegno. "Gli artisti guidano, i mediocri vanno ad alzata di mano" ringhia messo al muro da quel Consiglio d'Amministrazione che ha la pretesa di dirgli come gestire ciò che lui ha creato.

È un dolore (nascosto) il mancato riconoscimento della figlia Lisa, la cui madre Chrisanne (Katherine Waterston) viene ridicolizzata sulle pagine di Time Magazine, mettendo in dubbio la fedeltà di rapporti. E se Jobs insiste a volere creare il futuro è la materna a farlo mettere in ascolto del proprio cuore, "Quello che produci non dovrebbe essere la parte migliore di te, è quando sei padre. Quella dovrebbe essere la tua parte migliore".

Se dal Jobs (2013) di Joshua Michael Stern ne usciva un ritratto contraddittorio con un Aston Kutcher più adolescente rabbioso che non complesso uomo d’affari, Boyle non gioca a fare lo psicologo con la vita di Steve Jobs. Danny Boyle sa bene chi ha davanti e nessun uomo è perfetto, Steve incluso. Il ritratto che ne esce non lascia spazio a commiserazione o esaltazione. Lui è Steve Jobs, take it or leave it! Prendere o lasciare.

Nell’ultima delle tre presentazioni Steve
offre un tributo ad Alan Turing, l’uomo che “ha vinto la II Guerra Mondiale da solo” come dice lui stesso. Un uomo spinto al suicidio dal Governo (Britannico) in seguito a un’infamante punizione ormonale a causa della propria omosessualità. Quell’uomo cui Benedict Cumberbatch ha dato memoria imperitura con una sontuosa interpretazione in The Imitation Game (2014, di Morten Tyldum).

Ma ciò che letteralmente esplode più di tutto nel film sono i dialoghi. I face to face. Jobs-Wozniack, Jobs-Joanna e Jobs-Sculley. Scontri. Incontri. Esce tutto. Esce l’uomo, qualche accenno di debolezza. Esce la volontà. Non ci sono luci. Non ci sono digiuni forzati. Michael Fassbender, Kate Winslet e Jeff Daniels si superano. “Senza buone sceneggiature alla base è impossibile fare grandi film” ha raccontato lo sceneggiatore del film, Aaron Sorkin al mensile Ciak, nell’intervista realizzata dal collega Andrea Morandi (numero gennaio 2016).

Vincitore di due Golden Globes per la Miglior sceneggiatura a Sorkin e per la Miglior attrice non protagonista a Kate Winslet, Steve Jobs è atteso anche ai prossimi premi BAFTA (Londra, 14 febbraio) dove è candidato per il Miglior attore protagonista (Fassbender), Miglior Attrice non protagonista (Winslet) e Miglior sceneggiatura non originale (Sorkin). Due sole le nomination agli Oscar (Los Angeles, 28 febbraio), ancora per Michael e Kate.

Mai stato un devoto di Jobs. Non ho un iPad né iPhone. Ho solo avuto un Mac portatile che mi si è bruciato in un anno ma dopo questo film il mio approccio verso il geniaccio di Cupertino non sarà più lo stesso. Merito di un grande sceneggiatore in primis. E a dispetto degli ormai noti tentativi della sig.ra Lauren Powell Jobs di persuadere chiunque a non interpretare-dirigere-scrivere questa pelllicola, io sono la prova vivente che qualunque idea avessi di suo marito prima di ieri, oggi è decisamente migliorata.

E il finale è tutto per il già citato Ciak, con il cui account Instagram ho dialogato prima e alla fine della visione di Steve Jobs. Un confronto che mi ha regalato l’ispirazione per il titolo (vedi ultima foto, ndr). Perché si, questo è davvero un grande film dove le persone e le loro parole sono gli indiscussi protagonisti. Che se lo culli pure l'Oscar se mai lo vincerà DiCaprio con l'egocentrico Revenant, tra cent’anni saremo ancora qui a parlare di Steve Jobs e dell'interpretazione di Michael Fassbender.

Il trailer di Steve Jobs

Steve Jobs - Wozniack (Seth Rogen) e Jobs (Michael Fassbender
Steve Jobs - Joanna Hoffman (Kate Winslet
Steve Jobs - Jobs (Michael Fassbender) a colloquio con John Sculley (Jeff Daniels)
Steve Jobs (2015, di Danny Boyle) e la mia conversazione via Instagram con Ciak

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