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venerdì 31 gennaio 2014

Il popolo invisibile di Martin Scorsese

The Wolf of Wall Street (2013, di Martin Scorsese)
Prove superbe di Leonardo DiCaprio e Jonah Hill ma The Wolf of Wall Street (di Martin Scorsese) è un film superficiale, tropppo lungo e fine a se stesso.

di Luca Ferrari

Testosterone. Cameratismo. Donne-oggetto. Onnipotenza. Famelici istinti dollaro-maniaci trattati con ogni droga e vizio sessuale possibile. Per ogni problema c’è uno zero in più per risolverlo. Gli avvoltoi della ricchezza s’ingozzano. Si avvicendano. S’inorgogliscono. I frodati non hanno volto. Tornano a casa con le piaghe del duro lavoro. Martin Scorsese dirige The Wolf of Wall Street (2013).

Da aspirante broker a eccessivo imprenditore milionario. Fondatore della società Stratton Oakmont, capace di arrivare in pochi anni a fatturare oltre 1 miliardo di dollari in modo illegale. The Wolf of Wall Street (2013), storia ed eccessi di Jordan Belfort (Leonardo Di Caprio), il nuovo film di Martin Scorsese (Toro scatenato, Casinò, The Aviator).

Un uomo arraffa più dollari che può. Crea il suo esercito. Compra tutto quello che si può comprare. Un mondo costellato di eccessi, droghe e prostitute. Martin Scorsese racconta la storia del broker Jordan Belfort basandosi sull’autobiografia del suddetto, The Wolf of Wall Street. Un lungo spiattellare l’esistenza di Jordan senza nulla di più. Senza nemmeno un titolo di coda in memoria di tutti i comuni mortali che ha rovinato con le sue azioni. 

Nessun lato grigio. Solo il bianco accecante delle polverine da sniffare. Solo mera cronaca. Peter Travels (Rolling Stone) lo ha definito uno dei migliori film dell’anno. E non è certo l’unico. Un’analisi a dir poco superficiale, incagliata nell’ossessiva ripetizione delle parole (attori) chiave. The Wolf of Wall Street non è che un lungo dettato giustificato. Senza punti d’interpunzione né spazi. Un solitario assolo delle eccelse doti recitative di Leonardo DiCaprio e ancor di più di Jonah Hill (L’arte di vincere, 21 Jump Street, Django Unchained).

A dir poco sopra le righe l’attore californiano nei panni di Donnie Azoff, braccio destro di Jordan, capace d’incarnare un personaggio talmente squallido che fatto totale, si masturba pubblicamente a una festa (con moglie presente) alla vista della bionda Naomi (Margot Robbie), futura moglie di Jordan.

In tre ore di film Martin Scorsese non ha mai trovato il tempo di accendere i riflettori sulla massa lavoratrice. Mai un volto esangue di quel popolo che grazie alle imprese di certi lestofanti in completo da 3.000 dollari, ancor oggi sta pagando magari con il pignoramento della casa o il licenziamentio. Si certo, Jordan che deve patteggiare. Si certo, Jordan che viene mollato dalla moglie. Si certo Jordan, Jordan, Jordan.

Un film del genere negli anni Ottanta avrebbe avuto più senso, ora no. In un’epoca di crisi economica mondiale dove finanzieri-avvoltoi hanno rovinato e continuano a rovinare intere famiglie e nazioni, bisognava osare. Bisognava avere il coraggio di dire qualcosa e non difendersi dietro le pagine di un libro. Si possono raccontare le storie dei peggiori criminali senza farli passare per simpatici o eroi, e Martin Scorsese ha miseramente fallito in questo.

E come se non bastasse, una volta mandati in galera e incriminati tutti i personaggi coinvolti, la telecamera si sofferma sull’agente federale Kyle Chandler (Patrick Denham). Memore della prima conversazione avvenuta con Jordan a bordo del suo sfarzoso yacht, il suo sguardo basso di uomo-medio s’infrange malinconico nella classe operaia della metropolitana. Quasi desiderasse quella ricchezza e quello stile di vita sopra le righe di cui si millantava il “nemico”.

È la fine. Per molti di noi. E lo sarà ancora e per molto tempo.

The Wolf of Wall Street - Donnie Azoff (Jonah Hill) e Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio)

The Wolf of Wall Street - testosterone, cameratismo e donne-oggetto
The Wolf of Wall Street - Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio)

lunedì 27 gennaio 2014

Tutta colpa di Hollywood

Tutta colpa di Freud - il papà psicologo Francesco (Marco Giallini) e le figlie
Sara (Anna Foglietta), Marta (Vittoria Puccini) ed Emma (Laura Adriani)
Tutta colpa di Freud (2014), la nuova commedia del regista Paolo Genovese, è fin troppo hollywoodiana nell'esagerato beverone di zucchero borghese.

di Luca Ferrari

Una famiglia unita. Un cuore fremente. Un consiglio che non manca mai. Bella la vita per i nuovi protagonisti “Genovesiasi”. Il vento gelido di New York City è una tiepida brezza in cui librarsri su due ruote. Il fracasso capitolino cede il posto a una ristoratrice spremuta d’arancia. Le difficoltà adolescenziali si azzerano dinnanzi a una felice maturità che non lascia spazio a futili sballi discotecari.

Non è la Roma esageratamente sfarzosa di Paolo Sorrentino. Non è la Roma all’inseguimento della Cinecittà felliniana. La Roma di Tutta colpa di Freud (2014, di Paolo Genovese) è gentile e garbata. È stabilizzata tra la quiete di Trastevere e Campo dei Fiori. Il sole splende sempre e i soli problemi dei protagonisti sono quelli sentimentali.

Francesco (Marco Giallini) è un analista divorziato da tempo immemore. Abbandonato dalla moglie dopo il terzo parto, nella sua vita non c’è più stato spazio per l’amore ma solo per lavorare e crescere le tre figlie Sara (Anna Foglietta), Marta (Vittoria Puccini) e la più piccola Emma (Laura Adriani). Crescerle e ascoltare i loro problemi sentimentali, s’intende Un compito tutt’altro che facile.

La storia si snoda in un momento cruciale per tutto il nucleo familiare. Sara è appena rientrata da New York dopo l’ultima concente delusione (aveva chiesto la mano della sua compagna). Emma è alle prese con una relazione con il cinquantenne Alessandro (Alessandro Gassman) e Marta s’innamora di uno strano ladro della sua libreria, il sordomuto Fabio (Vinicio Marchioni). In mezzo a queste rivoluzioni di cuore, il saggio padre si prende una cotta per Claudia (Claudia Gerini).

Emblema dei “casini snetimentali” è Sara, decisa a cambiare sessualità e passare al mondo degli etero. E a chi si rivolge? A papà naturalmente, che puntuale la istruisce al riguardo mostrandole con chi avrà a che fare. Suddivide così gli uomini in quattro categorie: i Vorrei ma non posso, i Peter Pan, i Mammoni e i Depressi (Insoddisfatti). Fuori di questi, c’è solo un 5 per cento di sano. Auguri!

Commedia piacevole ma senza chissà quali spunti e originalità. Esilaranti i tentativi di Marta di combinare un incontro per Sara. Più che Enrico il poeta (Paolo Calabresi), il vero capolavoro è Andrea il geometra (Gianmarco Tognazzi), capace si, di condividere il dolce con la sua dolce compagna ma in modo “ugualmente impeccabile”, di dividere alla romana il conto, facendole anche presente di non ordinare pietanze così care se un’altra volta vorrà spendere meno.

Guarda il trailer di Tutta colpa di Freud (2014, di Paolo Genovese)

Tutta colpa di Freud (2014, di Paolo Genovese)
Tutta colpa di Freud - Marta (Vittoria Puccini) e Fabio (Vinicio Marchioni)
Tutta colpa di Freud - Emma (Laura Adriani), Sara (Anna Foglietta) e Marta (Vittoria Puccini)
Tutta colpa di Freud - Claudia (Claudia Gerini) e Francesco (Marco Giallini)

mercoledì 22 gennaio 2014

In #fugazi da American Wolf Street

American Hustle e The Wolf of Wall Street
American Hustle e The Wolf of Wall Street, due film con esasperate sovraesposizioni mediatiche. Ormai si sa già troppo prima di entrare in sala.
 
di Luca Ferrari

Si sa tutto. Si sa troppo. Si scrive sempre più di pochi eletti e troppo poco di pellicole  menolocate. A dispetto dell’ormai consueta valanga di nuove uscite cinematografiche, gennaio 2014 sarà ricordato per due film in particolare, i pluripremiati e candidati American Hustle di David O. Russel e The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese.

Cast stellari in entrambi. Il regista di The Fighter e Il lato positivo ha trasportato in questa storia (vera) ambientata negli anni ’70 il meglio di quanto già diretto: Christian Bale, Jennifer Lawrence, Amy Adams e Bradley Cooper; a questi poi si è aggiunto anche il gangster Robert De Niro e un azzeccatissimo Jeremy Renner.

Cast robusto anche per Mr Scorsese, alla quinta direzione di Leonardo DiCaprio, supportato alla grande da Matthew McConaughey e Jonah Hill. Non sarò certo io a voler ridimensionare il valore di questi due lungometraggi, ma che se ne stia esageratmente parlando (i trailer passati all’inverosimile), questo è indubbio e il rischio è di ritrovarsi al grande schermo in overdose, vedendo via via scemare l’interesse come se lo si avesse già visto.

Ad aggiungere tonnellate d’acqua (e altri articoli/servizi)  al mulino di American Hustle e The Wolf of Wall Street, le scontate vittorie ai Golden Globes e la cascata di candidature agli Oscar.

Sette nomination ai Golden Globe per l’ultimo lavoro di O. Russel di cui tre portati a casa: Miglior Fim, Miglior attrice non protagonista (Jennifer Lawrence) e Miglior attrice (Amy Adams). In attesa di trasformarsi in qualche altro premio poi, le dieci nomination alla 67° edizione dei BAFTA – British Academy Film Awards (16 febbraio) e altrettante ai Premi Oscar (2 marzo).

Due invece le nomination ai Globes per The Wolf of Wall Street, di cui uno aggiudicato grazie alla superlativa prova messa in campo da DiCaprio che ha conquistato il premio come Miglior attore in un film commedia o musicale. Sono quattro le nomination ai BAFTA e cinque agli Oscar, ma tutte di prima categoria: Migliore film, Migliore regista (Martin Scorsese), Migliore attore protagonista (Leonardo Di Caprio),  Miglior attore non protagonista (Jonah Hill) e Migliore sceneggiatura non originale (Terence Winter).

Non è considearbile uno spazio eguale per tutti, e questo si sa. La macchina del business non è rallentabile. Ma visto che i multisala sono traboccanti di questi due film, perché almeno non prevedere qualche proiezione in lingua originale? Nel guardare le performance dei vari Lawrence, Cooper, Bale e Adams, avrei proprio voluto sentire le loro ugole ufficiali. Idem per il triumvirato di squali della finanzia DiCaprio-McConaughey-Hill.

Jonah Hill e Leonardo DiCaprio in The Wolf of Wall Street
il cast stellare di American Hustle

martedì 21 gennaio 2014

Distensione.. ma non troppo

Don Camillo monsignore... ma non troppo - il senatore Peppone (Gino Cervi)
Il popolo non amerà dare spettacolo, ma Don Camillo e Peppone, se c’è da farsi sentire, se le dicono. Kennedy, Krusciov o Distensione o che sia.

di Luca Ferrari
 
Gli anni passano per tutti ma la natura battagliera, quella vera, non muore mai. L’epoca del primo Dopoguerra è passata anche per Don Camillo e Giuseppe Bottazzi detto Peppone, "promossi" per evitare che combinassero ulteriori guai. Oggi (Don Camillo monsignore... ma non troppo, 1961, di Carmine Gallone) i due protagonisti si sono imborghesiti/imbolsiti, ma quando vengono entrambi spediti nell’amata Brescello per sistemare una questione, l’antica lotta si rianima.

È l’epoca della Distensione promossa tra Kennedy e Krusciov. Il neo-reverendo Camillo (Fernandel) e il neo-senatore Peppone (Gino Cervi) si ritrovano l’un contro l’altro  in una calda giornata romagnola. L’abile Monsignore concede senza troppe remore una piccola porzione di terra per la costruzione di una Casa del Popolo, lasciando la spinosa questione della Madonnina del Borgetto agli operai comunisti. Ma una volta preso il piccone, di fronte alla statuina di Maria, nessuno vuole colpire e abbatterla.

Peppone alza la voce, e quelle epiche parole continuano a risuonare ancora. Così, rivolgendosi a Don Camillo, lo incalza, “È la terra che ci serve. Ce la dovete dare libera. Madonne e santi sono di vostra competenza. Non vi abbiamo mai chiamato per tirare  giù a picconate le statue di Stalin e di Lenin”. Risponde il Monsignore: “Ma se ci aveste chiamati, saremmo venuti”...

Se ti piace il genere, leggi anche:

- Don Camillo e l'onorevole Centrosinistra
- Peppone e Don Camillo, Fratelli d'Italia 

Don Camillo monsignore... ma non troppo - il senatore Peppone (Gino Cervi)
Don Camillo monsignore... ma non troppo - il senatore Peppone (Gino Cervi)
Don Camillo monsignore... ma non troppo - il monsignore Camillo (Fernandel)

mercoledì 15 gennaio 2014

The Butler, l'immutevole razzismo di massa

The Butler - i Freedom Writers attaccati dal Ku Klux Klan
Non illuda l’happy end di The Butler (2013), il razzismo è una piaga in ottima salute negli Stati Uniti, in Italia e in quasi tutto il resto del mondo.

di Luca Ferrari


Dalla schiavitù nei campi di cotone a maggiordomo della Casa Bianca. Il regista di Lee Daniels (Precious, The Peperboy) porta sul grande schermo l’incredibile storia (romanzata) di Eugene Allen. Nella pellicola The Butler (2013) il protagonista si chiama Cecil Gaines (Forest Whitaker) e si attraversano più di cinquant’anni di storia statunitense, arrivando alla prima elezione dell’attuale “comandante in capo” Barack Obama.

Storia familiare e della Nazione procedono unite e distinte. Da Forrest Gump (1994), passando per La meglio gioventù (2003) fino al più recente La mafia uccide solo d’estate (2013), la formula di mescolare vita privata ed avvenimenti reali raccoglie sempre molti consensi. The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca (2013, di Lee Daniels) però impone altre riflessioni. Decise e senza mezze parole.

Nelle piantagioni della famiglia Westfall, Cecil (Michael Rainey) è un bambino di otto anni quando vede la madre Hattie (Maria Carey) violentata dal giovane e spietato proprietario bianco Thomas (Alex Pettyfer). Il padre non fa tempo a dire ehi all’autore del gesto, che si prende una palla in fronte.

La più comprensiva matrona allora, Miss Annabeth (Vanessa Redgrave), prende l’orfano con sé, addestrandolo come “negro di casa”. La nuova sistemazione però dura giusto qualche anno, il tempo d’imparare il mestiere e scappare. Lì fuori è anche peggio. Affamato e senza un tetto Cecile è disperato. Spacca un vetro per mangiare dei dolci. Se quella fosse la casa di un bianco, sarebbe morte (violenta) certa. Non è così. E la sua vita cambia per sempre.

Finisce a lavorare in un lussuoso hotel di Washington ma l’apartheid esiste ancora. Poi la chiamata impensabile. Segnalato da un facoltoso cliente, si ritrova alla Casa Bianca. Ci resterà il tempo di servire sette Presidenti: Eisenhower (Robin Williams), Kennedy (James Marsden), Johnson (Liev Schreiber), Nixon (John Cusack), Ford, Carter e Reagan (Alan Rickman).

Ma se il lavoro va a gonfie vele, sono le mura domestiche a far vacillare l’equilibrio di Cecile. La moglie Gloria (Oprah Winfrey) lamenta la sua quasi totale assenza in casa mentre il figlio maggiore Louis (David Oyelowo) si dimostra deciso a sposare la causa dei diritti dei neri, in netto contrasto con l’accondiscendenza paterna, e così se ne va a fare il college al Sud.

Sarà l’inizio di uno scontro padre-figlio che vedrà da una parte il maggiordomo della Casa Bianca deciso a non smuovere di un millimetro lo statu quo, ma convinto che le cose presto o tardi miglioreranno. Dall’altra, l’adesione del giovane Gaines prima ai Freedom Riders quindi alle più riottose Black Panthers. Lì nel mezzo, arresti, pestaggi e scontri contro gl’incappucciati bianchi del Ku Klux Klan e annesse croci infuocate.

Scena emblematica, commovente e triste allo stesso tempo, la cena con i coniugi Gaines, il figlio minore Charlie (Elijah Kelley) prossimo alla partenza per il Vietnam, Louis e fidanzata Black Panther, scioccante nel look e nei modi (rutto libero). Da una banale conversazione sul film Indovina chi viene a cena con l’attore nero Sidney Poitier, scoppia la miccia e la lite divampa tra i due maschi più grandi. La madre in principio difende il figlio dalla rabbia del marito, ma quando quest’ultimo viene etichettato con un denigrante  “maggiordomo”, lei lo fulmina intimandogli di uscire immediatamente dalla casa (puttanella inclusa).

Negri impiccati per le strade. Uccisi senza remore nei campi di cotone. Non è passato poi così tanto tempo da quando le persone di colore non avevano diritti. Eppure ci volgiamo tutti indietro fieri come se il mondo fosse tanto migliore adesso. Non lo è. E badate bene, non è un’opinione. Basterebbe guardarlo un po’ oltre uno schermo o un social network per rendersene conto.

I campi di sterminio non sono lontani da qui, dice Cecile alla moglie, ci dimentichiamo che anche noi li abbiamo avuti. Già quegli stessi che anche l’Italia ha in casa propria. I campi di detenzione degli sbarcati. Non-persone senza diritti e confinate. Scarlattati come "immigrati illegali". Trattati come inferiori. E questo grazie a vergognose leggi razziste. E questo grazie a partiti politici di stampo razzista (Lega Nord e Alleanza Nazionale) che hanno aizzato il liquame dell’odio verso chiunque non sia di casa propria, degno erede del più becero fascismo.

Ci hanno abituato a considerare tovaglioli da confessionale anche i tacchi più acuminati. Hanno distrutto epitaffi universali. Ci hanno abituato a vedere la normalità anche nel peggior abominio della mano. Allora come oggi gli indifesi del nostro giardino sono pellegrini cui scaricare addosso ogni fallita risurrezione.

Se t'interessa cinema e razzismo, leggi anche:
Guarda il trailer di The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca 

The Butler - Hattie (Maria Carey)
The Butler - il Ku Klux Klan attacca un autobus dei Freedom Riders
The Butler - i coniugi Gaines, Gloria (Oprah Winfrey) e Cecile (Forest Whitaker)
The Butler - il presidente Nixon (John Cusack)
The Butler - il presidente Reagan (Alan Rickman)
The Butler - Cecile Gaines (Forest Whitaker)

domenica 12 gennaio 2014

Pastiera, canederli e Un boss in salotto

Un boss in salotto - i fratelli Carmela (Paola Cortellesi) e Ciro (Rocco Papaleo) © Gianni Fiorito
Un boss in salotto (2013, di Luca Miniero) con Rocco Papaleo e Paola Cortellesi. Comicità si, ma soprattutto spunti sociali su cui riflettere e ricominciare.

Luca Ferrari

Non è il classico scontro Nord-Sud. Al suo sesto lungometraggio, Un boss in salotto (2013), "Mr. Benvenuti al…" Luca Miniero ci porta ai piedi delle montagne nordorientali per mettere ordine e pace nel presente di una donna in fuga da se stessa. E per mutare la finzione ci vuole l’anarchia. Così, dopo lacrime, rabbia e tempesta, torna in campo la comprensione (accettazione) e irrompe il nuovo mondo.

Cristina D’Avola (Paola Cortellosi) ha lasciato la Campania moltissimi anni fa. Oggi è l’impeccabile madre di Vittorio (Saul Nanni) e Fortuna (Lavinia De' Cocci). È moglie del flebile e un po' bambinone pubblicitario Michele Coso (Luca Argentero). Vive nella quiete “demafizzata” del Nord Italia in odore di Trentino-Alto Adige.

Cristina si vergogna delle sue origini a tal punto da nasconderle del tutto alla propria famiglia, accento/cadenza inclusa. Odia perfino il sole e dice di amare il freddo. Si presenta con un altro nome (si chiamerebbe Carmela in effetti) e mente sulla morte di parenti stretti (il fratello delinquente). Rinnega qualsiasi debolezza, aspirando solo alla perfezione.

Per Cristina anche le ricche delizie napoletane (pastiera inclusa) sono sinonimo di cattivi ricordi. Ormai si è votata donna del nord, è una fiera consumatrice di canederli e strudel, sempre pronta al pensiero positivo più intransigente. Footing la domenica con la famiglia. Vive al di sopra delle proprie possibilità economiche. Cieca e sorda dinnanzi agli evidenti problemi di figli e marito.

Il fallace maniero però inizia a sgretolarsi quando da quel Sud Italia tanto disprezzato da cui è scappata, arriva proprio lui, il fratello spacciato per morto: Ciro Cimmaruta (Rocco Papaleo). Questi ha chiesto di scontare gli arresti domiciliari in casa della sorella in attesa di un processo che lo vede coinvolto in mezzo alla Camorra. È un colpo per Miss Superficialità che vede messo in crisi tutto ciò per cui ha tanto faticato.

Ma al contrario di quanto pensi, il suo mondo cambia in meglio. La notizia del pericoloso malavitoso si diffonde in città e tutti iniziano a trattarli coi guanti, inclusi gli odiosi coniugi Manetti, il capo incapace di Michele, Carlo (Alessandro Besentini) e la moglie snob Doriana (Angela Finocchiaro) cui Cristina fa una corte serrata per entrare nelle sue grazie.

Le bambole per la figlia, gli amici ricchi per il figlio, macchina aziendale e segretaria per Michele. Anteprime a teatro per Cristina. Un’ascesa senza precedenti per la famiglia Coso fino all’assoluzione di Ciro e la verità che emerge (non è affatto un boss mafioso). E a quel punto, giù nell’oblio. La famiglia Coso subisce senza ribattere ma quando si sente dare del terun da una maschera, il sangue ribollisce ed è ora di ricominciare.

Una menzogna nasce dalla paura. Una menzogna nasce dalla certezza di non comprensione della verità. Una menzogna nasce dalla necessità di offrire alla società qualcosa di adeguato allo status quo imperante. Una menzogna non lascia macchie sulla tovaglia. Semmai c’è l’anima ma quella tanto, vale ancora qualcosa?

Guarda il trailer di Un boss in salotto (2013, di Luca Miniero)

Un boss in salotto (2013, di Luca Miniero)
Un boss in salotto - L'impeccabile famiglia Coso al completo
Un boss in salotto - Ciro Cimmaruta (Rocco Papaleo)
Un boss in salotto - Carlo Manetti (Alessandro Besentini) e la moglie Doriana (Angela Finocchiaro)
Un boss in salotto - Un boss in salotto - Carmela/Cristina (Paola Cortellesi) e Ciro (Rocco Papaleo)

giovedì 9 gennaio 2014

Il grande match di Rocchio Scatenato

Rocchio 47 sfida Il grande match 
I "non-giovani" Sylvester Stallone e Roberto De Niro se le danno sul ring del Grande Match. Era più credibile Rupert Sciamenna nei panni di Joe Rocchio.

di Luca Ferrari

L’avanzare della terza età non da scampo a nessuno, miti del cinema inclusi. E se Rupert Sciamenna riesce perfino ad alzarsi dalla propria poltrona e tornare nella mischia, Sylvester Stallone e Robert De Niro fanno le cose molto più sul serio al centro del quadrato. O almeno così sembrerebbe. Si spera. My god!

Trovare qualcuno che non abbia mai visto nemmeno uno dei sei film della saga del pugile italo-americano Rocky Balboa è un'impresa. Le canzoni delle colonne sonore  poi (Gonna Fly Now e Eyes of the Tiger su tutte) sono presenze fisse di ogni vera playlist che si rispetti di chiunque la mattina, prima di cominciare il lavoro, scenda in strada per farsi una corsa.

Rocky (Sly) e Jake La Motta detto Toro Scatenato (De Niro), due miti cinematografici. Ma perché andarli a scomodare? Perché metterli l'un contro l'altro quando gli anni  dovrebbero suggerire qualche altra idea sul set? Passi che il cinema sia finzione, ma anche l'anagrafe vuole la sua parte, pena un pericoloso sfociare nel grottesco o peggio nel ridicolo.

Con tanto di esagerata attenzione mediatica, è appena sbarcato sul grande schermo Il grande match (2013, di Peter Segal) con protagonisti gli ex-Rocky e Toro Scatenato: Sylvester Stallone, classe ’46, e  Robert De Niro, classe ’43. Il film per l'appunto è stato presentato in Italia.

Quanto può essere credibile un match di pugilato tra un sessantasettenne e un settantenne (anche se nella pellicola ne hanno di meno)? Film ironico-nostalgico? Sarebbe già qualcosa, ma non aspettatevi un Last Vegas (2013, Jon Turteltaub con i fieri "vecchietti" Morgan Freeman, Michael Douglas, Kevin Klein e proprio lui, Bod De Niro) del ring.

Il grande match è stato arditamente paragonato da qualcuno a Incontriamoci a Las Vegas (1999, di Roy Shelton), dimenticando forse che i due protagonisti della sfida pugilistica Cesar Dominguez e Vince Boudreau erano interpretati rispettivamente da Antonio Banderas e Woody Harrelson, all’epoca con 39 e 38 candeline sulle spalle.

Ma più che alla pellicola di fine anni Novanta, Il grande match (Grudge match) rischia di richiamare l'epico cortometraggio Rocchio 47, parodia dell'ultimo capitolo della saga stallonesca, Rocky Balboa (2006). Portato sul piccolo schermo via Gialappa’s band, protagonista indiscusso è Franco Mari (Rupert Sciamenna) insieme ai compagni di merenda Marcello Macchia (Maccio Capatonda), Luigi Luciano (Herbert Ballerina), Enrico Venti (Ivo Avido) e l’astro nascente Caterina Gei Giuniori (Catherine J. Junior).

Rocchio non aveva rivali. Ha i pugni nelle mani, si diceva di lui ma ormai è un decrepito. A dispetto del (lunghissimo) corso degli anni, decide di tornare a combattere tra cecità galoppante, improbabili diete, osteoporosi e amorevoli sacrifici di chi gli sta accanto. Così, dopo una serie di "massacranti allenamenti" (tra cui salire cinque scalini di fila), arriva al fatidico giorno del rientro sul ring ma...


il trailer di Rocchio 47

Rocchio 47 -  Joe Rocchio (Rupert Sciamenna) e coach Maccio Capatonda
Il grande match - Billy "The Kid" McDonnen (Robert De Niro)

martedì 7 gennaio 2014

Smaug, non avrai la mia Erebor

Lo Hobbit:  La desolazione di Smaug - Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage)
Esuli alla conquista della terra perduta. Insieme allo hobbit Bilbo, la compagnia dei Nani è di nuovo in marcia destinazione Erebor e il fuoco di Smaug.

Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer 

Magari mi troverò la casa braccata da orde di Fantasy-supporter ma il secondo capitolo della seconda trilogia Tolkeniana diretta dal regista neozelandese Peter Jackson, Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013), non passerà certo alla storia per chissà quale narrazione, sviluppo e soprattutto non-finale.

I nani sono di nuovo in viaggio. Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) dirige le operazioni. Lo stregone Gandalf il Grigio (Ian McKellen) ispira e consiglia. L’hobbit Bilbo Baggins (Martin Freeman) segue segugio senza separarsi mai (ragni giganti permettendo) dal suo misterioso strappato al Gollum in quel primo Inaspettato viaggio (2012).

Il cammino dei Nani è denso si pericoli, e come troppo spesso accade le maggiori insidie arrivano da chi non dovrebbe per forza esserlo. E invece, oltre a essere inseguiti da forzuti orchi capitanati ancora dal malvagio Azog (Manu Bennett), si ritrovano imprigionati nel regno degli Elfi dove alla decisa ostilità di Legolas (Orlando Bloom) e una più moderata presenza di Thranduil (Lee Pace), si contrappone l’arciera Tauriel (Evangeline Lilly), in odore di flirt col prigioniero semi-nano Kíli (Aidan Turner).

Il primo a sfidare il drago sarà proprio lui, l’ex-timoroso Bilbo spedito da Thorin in prima linea contro Smaug doppiato (nell’originale dall’inglese Peter Cumberbatch: La talpa, Star Trek - Into Darkkness, Il quinto potere e in italiano dal “gladiatore” Luca Ward), per le sue non comuni abilità e così trovare e portare avvia al possente sputa fuoco la preziosa Arkengemma.

Cos’è davvero questa desolazione del titolo? È la sofferenza per una vita priva delle proprie radici? È una terra sotto costante minaccia? È la superficialità di un animato metallo capace di schiodare qualsiasi umano sentimento? È la pavidità che mangiucchia sbavando l’evoluzione di ciascuno di noi?

La desolazione è un potere più forte di noi. La desolazione di Smaug è un ostacolo incastrato nelle tenaglie di una sofferenza soggettiva e non c’è modo di aggirarla. Se si vuole inscrivere il proprio nome nel rispettivo destino, si può solo combattere e cambiare per sempre qualcosa

Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) non finisce. Rimanda all’ultima parte senza troppi doppi sensi. Finisce il film e arrivederci al prossimo capitolo.

Guarda il trailer de Lo Hobbit - La desolazione di Smaug

Lo Hobbit:  La desolazione di Smaug (2013, di Peter Jackson)
Lo Hobbit:  La desolazione di Smaug - Gandalf (Ian McKellen)
Lo Hobbit:  La desolazione di Smaug - Tauriel (Evangeline Lilly) e Legolas (Orlando Bloom)
Lo Hobbit:  La desolazione di Smaug - La compagnia dei Nani
Lo Hobbit:  La desolazione di Smaug - Bilbo Baggins (Martin Freeman)

domenica 5 gennaio 2014

Minion, fuck off social network

Un suggerimento dai piccoli ometti gialli Minion
Nient'altro da aggiungere. Ce n'è per tutti: Facebook, Twitter e Whatsapp. Minion for ever!