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giovedì 31 dicembre 2015

Il mio 2015 di cinema e recensioni

Venezia, in sala a leggere e scrivere di cinema © Luca Ferrari
Un "piccolo" e linkato riassunto di quanto cine-recensito nel 2015 davanti alla mia casa adottiva, il grande schermo.

di Luca Ferrari

Il 2015 è in dirittura di arrivo. Dopo aver decreato il film miglior dell'anno, passo qui in rassegna tutte le recensioni dei film visti sul grande schermo tra il gennaio e dicembre. Le prime ovviamente riguardano quei film realizzati a fine 2014 ma di fatto sbcarati nel grande schermo in quest'annata.

A ospitarmi per scrivere tutto questo, in particolare le sale cinematografiche di Venezia (cinema Rossini e Giorgione), quindi qualche incursione nella teraferma di Mestre (IMG Cinema e cinema Palazzo) e infine anche le sale della 72° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, in particolare la sala Darsena, al Lido di Venezia.

Un una piccola nota su due pellicole. Il peggiore dell'anno nonché il più sopravvalutato? L'inutile Mad Max Fury Road, che potrà anche essere per Quentin Tarantino il meglio del 2015, ma per chi si aspetta da un film quanto meno una STORIA degna di questo nome, è lo zero assoluto e vi posso assicurare che non sprecherò il mio prezioso tempo con i suoi due prossimi sequel.

Mi ha molto rattristato vedere invece come La regola del gioco sia  stato messo subito nel dimenticatoio nonostante non gli mancasse certo l'appeal commerciale visto che il protagonista è il due volte candidato all'Oscar, Jeremy Renner. Un film che parla di una vera e importantissima inchiesta giornalistica ai danni della CIA. Forse sarebbe ora di comprendere che non si vive solo di Tutti gli uomini del Presidente.











Venezia, in sala a leggere e scrivere di cinema © Luca Ferrari
Venezia, in sala a leggere e scrivere di cinema © Luca Ferrari

martedì 29 dicembre 2015

Noi e la Giulia, il miglior film del 2015

Noi e la Giulia - Sergio (Claudio Amendola), Diego (Luca Argentero) e Fausto (Edoardo Leo)
È ancora possibile fare cinema in modo autentico, riflessivo e divertente? La risposta è si. Noi e la Giulia (di Edoardo Leo), il miglior film del 2015 secondo cineluk.

di Luca Ferrari

Originale. Un cast variegato e amalgamato alla perfezione. Un regista esordiente ma già attore con svariati lungometraggi alle spalle (tra cui Smetto quando voglio). Per cineluk – il cinema come non lo avete mai letto non ci sono dubbi, il miglior film del 2015 è Noi e la Giulia (di Edoardo Leo). Di gran lunga superiore rispetto ai tanti polpettoni super-eroici. Una storia vera con un cuore a differenza del grande vuoto decantato (dai soli effetti speciali) della patetica ditta "Sequel, Prequel & Reboot". Più avvincente anche del triumvirato Garrone – Moretti – Sorrentino, delle anteprime di Venezia 72 e persino dei pesi massimi Steven Spielberg, Ron Howard e Woody Allen. Si, Noi e la Giulia (2015, di Edoardo Leo) li ha messi tutti in riga.

Cos’hanno in comune un ignorante televenditore fascista, un vetero-comunista e due “sfigati”? Vi rispondo io, un casolare comprato in comune da trasformare in agriturismo. Il classico piano B per quei quarantenni delusi e sconfitti dalle rispettive esistenze che cercano il colpo risolutivo con la più classica delle fughe dalla città destinazione vita agreste. Un piccolo e assurdo combo umano che troverà la propria unità grazie a uno strano camorrista e una ancor più stramba ragazza incinta. È l’assurda, divertente e riottosa vicenda narrata dall’esordiente (alla regia) Edoardo Leo in Noi e la Giulia, opera tratta dal libro "Giulia 1300 e altri miracoli" (di Fabio Bartolomei).

È l’Italia dei sogni infranti. È l’Italia dove i ribattezzati young adults senza futuro cercano di rimediare agli sbagli e soprattutto alle fallaci promesse delle tante politiche bugiarde colpevoli di aver mandato al macero un’eredità artistico-naturale quasi senza eguali al mondo, lasciando solo povertà e nessun miraggio di rilancio. È l'Italia dove lo sfruttamento, legale o illegale che sia, spazza via chi ancora crede e lotta per un futuro migliore. Questa è l’Italia di Noi e la Giulia.

Spavaldo, arrogante e razzista. Fausto (Edoardo Leo) è un venditore televisivo di orologi, indebitato e col "vizietto" della truffa. Uno che parcheggia senza problemi nei posti riservati ai diversamente abili e capace di presentarsi alle donne aggiungendo al proprio nome anche il secondo (inventato) Maria per mostrare un presunto lato femminile e sensibile. Sulla propria strada per acquistare un casolare, incontra i remissivi Diego (Luca Argentero) e Claudio (Stefano Fresi).

Troppi soldi per chiunque dei tre per pensare di farcela da solo, ecco dunque nascere un'improbabile società nella quale entrerà con le “buone maniere” il compagno Sergio (Claudio Amendola), cui Fausto deve svariate migliaia d’euro. Un comunista di quelli con la K sempre maiuscola. Duro ma leale, deciso a far rispettare i propri diritti di onesto lavoratore. Ultimo acquisto, Elisa (Anna Foglietta). Ex-dipendente della gastronomia (fallita) di Claudio e qui arrivata come addetta alle pulizie e alla cucina.

Del casolare che vogliono rimettere insieme però non si sa nulla degli ex-padroni, solo che hanno fretta di vendere. Il perché il quintetto lo scoprirà presto. Quella è una zona di Camorra e l’affiliato Vito (uno strepitoso Carlo Buccirosso) verrà a dirglielo personalmente di stare attenti alla gente che potrebbero incvontrare. Ovviamente la scappatoia c’è: pagare la protezione. Nessuno pensa di contraddirlo. Nessuno meno Sergio che passa dalle parole ai fatti. Un qualcosa che cambierà per sempre la vita di tutti. Ma proprio di tutti.

Vito non è l’unico camorrista che verrà a reclamare il pizzo. Arriveranno anche due scugnizzi prima del vero boss. E anche in quel caso sarà sempre Sergio che troverà le parole giuste per farli ragionare, questa volta con un grandioso ghigno accompagnato da sigaro in bocca e un'autentica falce & martello incrociati per fargli capire chi è che davvero comanda (il popolo sfruttato). E se poi all’allegra banda si unisse anche l’immigrato di colore Abu (il regista Hany Abu-Assad), il risultato non può che essere vincente.

Parlare di crisi e riuscire a farsi due risate è un’impresa davvero ardua al giorno d’oggi. Checco Zalone fece il miracolo con Sole a catinelle (2013), oggi è il turno di Noi e la Giulia. Rispetto all'opera del collega pugliese però, qui c’è meno comicità univoca e più risate collettive (il resoconto sulla propria vita di Fausto dopo che perfino Tom Cruise gli ha dato buca all’inaugurazione dell’agriturismo è da standing ovation). Noi e la Giulia rappresenta la sfaccettata poesia dell’essere umano: onestà, timori, ribellione, soprusi, sorpresa, bellezza, amicizia, amore.

In questa stagione Noi e la giulia ha fatto incetta di premi nostrani. 2 David di Donatello (Miglior attore non protagonista a Carlo Buccirosso e David Giovani a Edoardo Leo), più altre 5 nomination. 2 Nastri d'argento (Migliore commedia a Edoardo Leo e Migliore attore non protagonista a Claudio Amendola). 2 Ciak d'oro (Rivelazione dell'anno a Edoardo Leo e Miglior attore non protagonista a Claudio Amendola). Infine, anche il Globo d'oro per la Miglior commedia a Edoardo Leo.

Ma chi è poi questa Giulia? La sola protagonista femminile ha un altro nome quindi non è lei, e non è il suo soprannome. La Giulia è l’assurdo che diventa reale. L’assurdo è l’impensabile che sfida il temu-conosciuto. È l’andare oltre le Colonne d’Ercole a bordo di una zattera pensando di raggiungere le Americhe col rischio di finire in bocca ai pescecani ma guardandoli da così vicino da sentire sulla propria pelle i suoi denti aguzzi.La Giulia è quel qualcosa sepolto dentro ciascuno di noi che non siamo in grado di valorizzare ma che con un "Noi" vicino può andare oltre l'impossibile. Quell’instancabile cuore pulsante che gli altri ci possono aiutare a far emergere… più o meno!

No, non ho ammirato Noi e la Giulia al cinema e ne sono davvero dispiaciuto. Delle 60 pellicole viste quest'anno sul grande schermo il mio miglior film non vi risulta. In compenso l'ho consigliato a chiunque abbia incontrato l'indomani della mia prima visione. Persone che ancora oggi mi stanno ringraziando per averglielo consigliato. E se qualcuno di voi non lo avesse ancora visto, non perda altro tempo e rimedi all’istante. Le recensioni di cineluk poseguono nel 2016. Questa giornata però, è appena iniziata...

Immergiti nel mondo di Noi e la Giulia
il commento su Twitter del regista Edoardo Leo sulla recensione di cineluk
Noi e la Giulia - Fausto (Edoardo Leo), Claudio (Stefano Fresi) e Diego (Luca Argentero)
Noi e la Giulia - Elisa (Anna Foglietta)
Noi e la Giulia - il camorrista Vito (Carlo Buccirosso)
Noi e la Giulia - Fausto (Edoardo Leo, regista anche della pellicola)

martedì 22 dicembre 2015

Critica all’Irrational Man impuro

Irrational Man - Abe Lukas (Joaquin Phoenix)
Luoghi (filosofici) comuni, una spruzzata di thriller e voilà. Il solito jazzato Woody Allen è servito. Irrational Man dura il tempo della visione dopodiché, il dimenticatoio è servito!

di Luca Ferrari

Sofisticato. Dotto. Intellettuale. Un po’ spocchioso. Woody Allen è tornato. La sua nuova musa cinematografica, Emma Stone, è di nuovo davanti alla telecamera. Irrational Man (2015). Pochi personaggi, una semplice storia e il sottofondo di jazz onnipresente. Passioni sopite e in piena ormonale. Filosofia in abbondanza su cui (s)ragionare e un movimentato mare statico di parole dove sguazza l’impura ed egoista attività umana. A volte controcorrente, alle volte insieme alle foglie che vi ballonzolano solitarie a cuscino d'aria. 

Brillante, dannato e grassoccio. Fiaschetta alcolica sempre dietro. Idealista, giramondo e donnaiolo un tempo. Oggi depresso e rassegnato a una vita di niente. Il suo nome è Abe Lucas (Joaquin Phoenix), professore di filosofia, in arrivo al Brailyn College di Rhode Island). Il nuovo acquisto suscita subito pettegolezzi. È un solitario ma dall’aurea di “bello” e dannato. La sua collega Rita Richards (Parker Posey), seppur sposata, ne vuole subito una succosa porzione.

A interessare lo svogliato docente però è la testa della brillante studentessa Jill Pollard (Emma Stone), quest’ultima non certo immune al suo dolorante fascino esistenzialista. Parla di lui ancora prima di assistere alla prima lezione. Il fedelissimo fidanzato Roy (Jamie Blackley) sente già aria di minaccia. Mai una scenata però, anche se è fin troppo evidente l’interesse della ragazza per il maschio più maturo.

Abe è un uomo stanco. Deluso dalla vita e dai suoi stessi insegnamenti. Si è avvicinato al sole e si è scottato. Ha provato a fare la sua parte nel nome dei diritti e della libertà ma si è schiantato al suolo e il solo compagno fedele a cui si sente legato è più di un goccetto di qualche whisky. Poi un giorno qualcosa cambia. Per caso irrompe una nuova prospettiva. Un’azione che non sembra avere alcuna controindicazione. L’apparenza della presunta verità. Soggettiva.

Irrational Man piacerà ai devoti di Woody Allen. Un film da salotti borghesi dove poter parlare a voce alta per dare sfoggio della propria cultura filosofica salvo poi non essere in grado di fare nulla di concreto nella propria vita, o quasi. È la prassi. Pochi scorci di novità e quanto al coinvolgimento emotivo, giusto una tiepida tazza di te senza nemmeno qualche realmente gustoso biscotto casereccio.

Se Chritosph Waltz poi è ormai schiavo del suo ruolo da cattivo, Phoenix è sulla buona strada in quello del mezzo sbandato, stralunato o comunque del reietto. The Master e Vizio di forma (2012 e 2015, entrambi di Paul Thomas Anderson), Her - Lei (2013, di Spike Jonze) sono lì a ricordarcelo. Il fratello del compianto River ha trovato la sua dimensione realistico-cinematografica. Qualcosa che si sposa alla grande con la poetica anticonformista e distaccata del suo ultimo regista per l’appunto.

Emma Stone è pura bellezza. Fresca e giovanile. Diversa dal precedente ruolo Alleniano interpretato al fianco di Colin Firth in Magic in Moonlight (2014), questa volta l’ex-fidanzata di Spider-Man è combattiva solarità. È attratta dal lato oscuro ma non si lascia fagocitare nel perverso gioco di qualche dissociazione o distacco mentale. È sempre lei a comandare il gioco. Vuole comandarlo. Lei è la forza. Vuole portare la sua passionale vita nelle affascinanti tenebre di Lukas, non il contrario.

Woody Allen ha 80 anni. Ha il diritto di fare quello che vuole. Da un film di Woody Allena c’è sempre qualcosa da imparare. Con Irrational Man potrebbe aver trovato una coppia da riprovare sul set. Joaquin Phoenix ed Emma Stone si completano. Sarebbe interessante però vederli a ruoli inverti, con l’ex-Commodo spensierato e felice e la rossa Emma incastrata in qualche cunicolo mentale su cui è sbiaditamente parcheggiata senza attese né (in)certezze.

Il trailer di Irrational Man

Irrational Man - Jill Pollard (Emma Stone)
Irrational Man - Abe (Joaquin Phoenix) e Jill (Emma Stone)

sabato 19 dicembre 2015

Qualcuno camminò su Il ponte delle spie

Il ponte delle spie - l'avvocato Donovan (Tom Hanks)
Il vento gelido della Guerra Fredda soffiavava sul mondo intero. USA e URSS intanto si guadarono negli occhi a Berlino su Il ponte delle spie (2015, di Steven Spielberg).

di Luca Ferrari

La morsa della Guerra Fredda e lo spauracchio della Guerra Termonucleare Globale erano all’ordine del giorno. Stati Uniti e Unione Sovietica avevano diviso il mondo. A farne le spese, anche la città di Berlino la cui costruzione di un muro sancì la divisione tra i due blocchi così come della Germania Ovest e Germania Est. In questo esasperato clima di tensione, in una gelida mattinata appena fuori città, le due superpotenze atomiche si guardarono negli occhi. Lì, su Il ponte delle spie (2015, di Steven Spielberg).

James B. Donovan (Tom Hanks) è un brillante avvocato di Brooklyn. Arrivato in ufficio in un giorno come altri, gli viene proposta una causa senza precedenti: offrire assistenza legale a Rudolf Abel (Mark Rylance), o meglio il colonello Abel, spia sovietica appena catturata dai servizi segreti americani. L’intera nazione lo vorrebbe sulla sedia elettrica, Donovan però s'impunta (che strano tipo, ndr) sulla Costituzione e i suoi diritti, pensando inoltre in prospettiva. Messo alle strette, suggerisce di tenerlo in vita nel caso potesse servire per futuri scambi.

La previsione non tarderà ad avverarsi. Francis Gary Powers (Austin Stowell), pilota di un aereo-spia Lockheed U-2, viene abbattuto in territorio nemico durante un’incursione a 7.000 metri di altezza mentre era intento a scattare foto. Catturato e condannato, gli USA lo rivogliono indietro. Bisogna trattare e trovare una via d’uscita. A complicare le cose ci si mette però anche l’arresto nella DDR (Repubblica Democratica Tedesca) del giovane studente americano Frederic Pryor (Will Rogers), rimasto nella parte “sbagliata” del muro.

Proprio in virtù del suo impegno con Abel, viene scelto Donovan per andare a Berlino a sbrogliare la matassa. I servizi segreti americani vogliono solo il pilota, Donovan cerca d’inserire anche lo studente. Le persone con cui trattare però sono due. Anzi, le nazioni sono due. Unione Sovietica e la Repubblica Democratica Tedesca, rispettivamente nelle persone di Ivan Schischkin del KGB (Mikhail Gorevoy) e l’avvocato Wolfgang Vogel (Sebastian Koch).

Occorre organizzare uno scambio al più presto, e si farà presso il ponte di Glienicke, appena fuori Berlino. Tutto  dovrà avere un ruolo non ufficiale. Per l’opinione pubblica non deve essere in atto alcuno scambio tra USA e URSS. Questo almeno fino a quando le cose non dovessero concludersi nel migliore dei modi. In caso contrario, beh, la CIA ovviamente non ne saprà nulla di questo avvocato sbarcato di propria iniziativa oltreoceano.

In un momento della politica internazionale a tratti simile (l’aereo russo abbattuto dalla Turchia nella fantomatica guerra contro l'Isis, ndr), su sceneggiatura dei fratelli Coen, Steven Spielberg (Lo squalo, Shindler's List, Lincoln) porta sul grande schermo una pagina di storia che vede il ponte di Glienicke epicentro di uno scontro nucleare mancato. Un conflitto che forse nessuna delle due parti avrebbe davvero voluto. E in quel rapporto di stima reciproca tra Abel e Donovan si può forse riassumere l’umanità oltre le bandiere, le politiche e le fedi. Non esiste differenza di pensiero che possa impedire a due uomini di andare d’accordo.

Che la si conosca o meno la storia, Il ponte delle spie conquista. Emblematica la città di Berlino ricoperta dalla neve. Una figura candidamente spettrale e dai connotati post bellici senza più nazisti ma con le severe divise della DDR comunista. È la costruzione del muro il vero momento topico. Mattone dopo mattone, strato di malta dopo strato, la divisione va in atto con i tedeschi disperati nel tentativo di passare dall’altra parte. Suspense pura quando viene messo l’ultimo pezzo di muro con il giovane Pryor, tornato nella parte orientale dalla sua fidanzata, ma ora impossibilitato a passare. E così viene subito arrestato.

Già protagonista del politico (e notevole) La guerra di Charlie Wilson (2007, di Mike Nichols), Tom Hanks assume ancora una volta i panni di uno di quegli antieroi a stelle e strisce che in virtù del proprio e personale modo di condurre certi affari, riesce a venire a capo in situazioni alquanto ingarbugliate. Come per la suddetta pellicola, è ancora una volta la Guerra Fredda il teatro per la sua azione. Un’epoca quella sempre più rimpianta da Est e Ovest causa l’imperante anarchia internazionale che regna sovrana nel terzo millennio.

Un'ultima nota personale. Mercoledì 16 dicembre, spettacolo serale delle 19,20. Ero lì, al cinema Rossini di Venezia nel primo giorno di proiezione. Stessa data per altri due colossi. Star Wars: il risveglio della Forza (di J.J. Abrahms) e Irrational Man (di Woody Allen). Con mia grande soddisfazione la massa omologata del popcorn era tutta in fila per il polpettone interstellare, lasciando alla Storia poco più di una decina di presenti, cosa che da un punto di vista personale mi andava benissimo (anzi, ci speravo proprio).

Difficile che qualcuno sia arrivato per vedere Il ponte delle spie senza saperne niente della vicenda, e anzi l'età media era over 30. Di che sorprendersi? Così come a Venezia la massa preferisce rimpinzarsi di (scadente) irrealtà piuttosto che imparare qualcosa. Star Wars ormai è una saga ultra-commerciale che vive di mera pubblicità e zero sostanza. Effetti speciali per intontire un mondo che si è rassegnato alla non reazione. Il ponte delle spie è qualcosa di molto più profondo e umano. A Venezia come altrove la massa ingurgita e si adegua, i pochi cercano un'altra strada e vogliono ancora imparare.

Il trailer de Il ponte delle spie
Il ponte delle spie - Rudolf Abel (Mark Rylance) e l'avvocato Donovan (Tom Hanks)
Il ponte delle spie - l'U-2 abbattuto sopra i cielo sovietici
Il ponte delle spie - a Berlino si costruisce il celeberrimo muro
Il ponte delle spie - l'avvocato Donovan (Tom Hanks) passa sotto il muro di Berlino
Il ponte delle spie (2015, di Steven Spielberg)

mercoledì 16 dicembre 2015

Il coraggio di andare in the Heart of the Sea

Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick (2015, di Ron Howard)
Tutti a bordo della baleniera Essex, destinazione Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick (2015, di Ron Howard). Film, avventura e qualcosa di speciale in più.

by Luca Ferrari

Determinazione. Coraggio. Orgoglio. Sopravvivenza. Erano i primi decenni del XIX secolo, l'epopea della caccia alle balene. Quel mondo oggi è tornato sul grande schermo a partire proprio da colui che lo impresse su carta e nella memoria collettiva con il suo più celebre romanzo. Dalla letteratura al cinema, lì nel mezzo l'uomo contro Madre Natura. Lì nel mezzo, un oceano e le sue misteriose creature. Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick (2015, di Ron Howard).

Herman Melville (Ben Whishaw, l'agente Q di Skyfall e Spectre) ha fatto un lungo viaggio per arrivare a Nantucket, Massachusetts, e incontrare l'ormai anziano Thomas Nickerson (Brendan Gleeson) a quel tempo l'unico sopravvissuto della disastrosa missione che vide la baleniera Essex affondare sotto i colpi di un gigantesco capodoglio bianco. Il rapporto però disse un'altra cosa ma si sa, verità e ufficialità non sempre coincidono e di questo Melville ne è convinto.

Inizia il racconto. Ha inizio l'avventura. Owen Chase (Chris HemsworthThor, Rush) è un marinaio capace e scafato, al servizio di un’importante società esportatrice di olio di balena. Nella sua nuova missione però, invece del promesso grado di Capitano, viene obbligato a essere il Primo Ufficiale del rampollo di casa Pollard, George (Benjamin Walker) la cui esperienza sul campo è pari allo zero. A imbarcarsi insieme a loro, nella ciurma, ci sono anche l’amico di lunga data di Chase, Matthew Joy (Cillian Murphy) e il giovincello Thomas (il neo Spiderman, Tom Holland).

La nave salpa con un obiettivo preciso: riempire 2000 galloni di pregiato olio di balena. Come sempre accade però, due galli nel pollaio sono troppi e a farne le spese sono le “galline”. Chase e Pollard si beccano. Lottano insieme. Sembrano quasi andare d'accordo ma non ci sono loro laggiù, in mezzo alla distese marine. I veri padroni di quel mondo sono le balene. Spintasi a più di 3000 km dalla costa occidentale dell'America Meridionale, la Essex incontra un gigantesco capodoglio bianco che non ha alcuna intenzione di finire a illuminare le città del mondo umano. Ha così inizio un letale duello. Inizia così un'estenuante lotta di sopravvivenza.

Adattamento cinematografico del romanzo Nel cuore dell'oceano – La vera storia della baleniera Essex (2000, di Nathaniel Philbrick), Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick (2015, di Ron Howard) è una storia avvincente da gustarsi tassativamente davanti al grande schermo. Un film che a dispetto del 3D proposto in molte sale cinematografiche, non ha bisogno di chissà cosa per tenere lo spettatore concentrato per le due ore di pellicola. 

Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick è un film che ti entra dentro. Lo si percepisce. Si soffre. Si è sinceramente preoccupati per il destino dei protagonisti. Anche senza effetti tridimensionali si percepisce benissimo la secchezza sulle labbra dei naufraghi. E quel sole accecante che pare volerli condannare a una morte lenta e dolorosa mentre sono in balia delle onde? Per non parlare del puzzo di balena nell'atto di recuperare il prezioso bottino. 
 
Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick non è solo un film di avventurieri. C'è un lato umano. A dispetto di certi luoghi comuni sulla vita marinaresca, ci sono affetti in balia. Partire su di una baleniera significava dover restare lontani da casa anche per due anni (senza possibilità di telefonare, ndr). Al momento di salire a bordo della Essex, Chase saluta la moglie Peggy (Charlotte Riley), incinta. Al suo ritorno, se tornerà, ci sarà dunque un figlio o una figlia in più a riabbracciarlo.

L’Italia è uno di quei rari paesi dove per “colpa” (anche) di una grande scuola di doppiatori, i film non vengono mai proposti in lingua originale. Il rischio è di identificare troppo una voce con un attore e quando questi passa a un altro, son dolori. È stato così con il Capitano Pollard, il quale ogni volta che apriva bocca ero convinto di trovarmi dinnanzi a Ewan McGregor e non al buon Benjamin Walker, quest'ultimo doppiato in Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick da Francesco Bulckaen. Lo stesso dell'attore scozzese.

Un'ultima nota personale. Come insisto a ripetere alla mia valente collega pugliese Anna Maria Colonna, autrice tra gli altri del blog-magazine di viaggi Terre Nomadi, mentre lei incarna alla perfezione la figura dell'indomabile giornalista ficcanaso (come a ragione l’avrebbe ribattezzata Crocodile Dundee), io mi considero più uno scrittore-creatore prestato alla suddetta disciplina. A darmi ulteriore convinzione di codesta visione, proprio la pellicola di Ron Howard. 

Melville è lì, con penna e calamaio che trascrive la storia della colata a picco della Essex. Potrebbe essere una sorta d’intervista, in realtà è più un attento ascolto del racconto da cui poi lo scrittore trarrà ispirazione per il suo capolavoro, Moby Dick. Ecco, mentre vedevo la penna intingere l’inchiostro e toccare la carta, qualcosa dentro di me si muoveva. Volava. Esondava. Vedevo scrivere e lo ammetto, ero emozionato. Avrei voluto essere lì, io. Al posto di Herman.

Quando poi, a racconto-film finito, la telecamera indugia sullo scrittore che s’incammina per tornare a casa, ci vuole poco per immaginarselo nel silenzio insieme ai suoi quaderni. Pronti per essere lievitati dall’immensità della propria inventiva. Melville è un pioniere. Vuole osare dove nessuno si era ancora spinto. È pronto e deciso a dare al mondo qualcosa che ancora nessuno aveva fatto. E così sarà. Ecco, ora sapete come mi sento ogni volta che scrivo qualcosa.

Il trailer di Heart of the Sea - Le origini di Mobu Dick

Heart of the Sea, Le origini di Moby Dick - Herman Melville (Ben Whishaw)
Heart of the Sea, Le origini di Moby Dick - Joy (Cillian Murphy) e Chase (Chris Hemsworth)
Heart of the Sea, Le origini di Moby Dick - il giovane Thomas (Tom Holland)
Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick (2015, di Ron Howard)

mercoledì 9 dicembre 2015

Dio esiste ed è una gran brutta persona

Dio esiste e vive a Bruxelles – il Creatore (Benoit Poelvoorde) in subdola azione
Dio non è amorevole. Dio è un egoista, padre-padrone e creatore di sfighe universali per la razza umana. Dio esiste e vive a Bruxelles (2015, di Jaco Van Dormael).

di Luca Ferrari

"Quando ti scivola una fetta di pane farcita,  cadrà dalla parte dalla marmellata". "T'innamorerai di una donna che non potrai mai avere". "Il telefono squillerà non appena ti sarai immerso nella vasca". Sono solo alcune delle “simpatiche” leggi imposte da Dio alla razza umana. Perché se qualcuno non credesse alla sua esistenza, dovrà purtroppo presto ricredersi. Dovrà proprio farlo. Dio esiste e vive a Bruxelles (2015, di Jaco Van Dormael).

Da quando si ha memoria il dio (cristiano) delle genti è sempre stato visto (spacciato) come un essere pieno di saggezza e misericordia. Creatore dell'uomo e della donna, il cui fine supremo è la pace e l'amore tra le genti. Stop, cancellate tutto. Il regista belga Jaco Van Dormael ha la sua idea sull'argomento. Un’idea in cui questo “signore” non è esattamente una persona amabile, anzi. Se l'essere umano è nato, è solo per il suo sadico divertimento.

In vestaglia. Alticcio. Violento. Un macho odioso che zittisce sempre la moglie (Yolande Moreau) e non si risparmia di prendere a cinghiate la figlioletta Ea (Pili Groyne) quando disobbedisce. Questo è Dio (Benoit Poelvoorde). La giovinetta però è arrivata al classico e umano punto di non ritorno. Stufa marcia delle prepotenze “padreterne” e con la complicità del fratello J. C.. che sa tanto di rapper ma altri non è che Gesù Cristo (David Murgia), abbandona la casa e se ne va sulla Terra con un obiettivo ben preciso: trovare 6 nuovi apostoli e scrivere un nuovo Nuovo Testamento (da qui il titolo originale, Le tout nouveau testament).

Prima di dire addio per sempre alla casa-prigione in cui era obbligata a vivere, lascia un bel ricordino a Dio. Questi infatti non ha chissà quali poteri. Decide e gestisce tutto da un banalissimo computer. Lei lo sa bene e così invia a tutti gli esseri umani la data della loro morte, di fatto ridisegnando in toto l'approccio al proseguo della vita.

Aiutata dallo scrivano clochard Victor (Marco Lorenzini), Ea si mette alla ricerca dei sei prescelti. Uno dopo l’altro li va a trovare a casa: Aurélie (Laura Verlinden), Jean-Claude (Didier De Neck), Marc (Serge Larivière), François (François Damiens, il papà “barbuto” de La famiglia Belier), Martine (Catherine Deneuve) e in ultima il piccolo Willy (Romain Gelin). Una volta incontrati, Ea regala a ciascuno una canzone di musica classica che li identifica, riassumendone il carattere.

Non ho visto Dio esiste e vive a Bruxelles in chissà quale sala all'avanguardia né ho calzato occhialetti 3D. L’esatto opposto. Pur di vederlo mi sono accomodato nella stretta sala B del cinema Giorgione di Venezia che, mi spiace dirlo, trovo davvero poco onesto che si faccia pagare biglietto intero per una sala minuscola e uno schermo dalle ridotte dimensioni (non entro neanche nel merito della qualità del suddetto). Il film a ogni modo avrebbe parecchio da insegnare in quanto a originalità a tanti spacciati capolavori dai budget milionari.

Jaco Van Dormael (Toto le héros – Un eroe di fine millennio, L'ottavo giorno, Mr. Nobody) dirige una commedia scorretta senza però rinunciare alla dolcezza nè alla poesia. Un film che aldilà delle svariate risate apre un ampio spazio per le riflessioni. Che cosa faremmo se potessimo già sapere quanto ci resta da vivere? Ancor prima della risposta, è la domanda a spaventarci perché ciò significherebbe che esiste un ordine prestabilito e dove tutto è già deciso. Ma siamo sicuri che da ogni singola azione non possa nascere una strada e dunque una vita differente?

Benoit Poelvoorde è un Dio che più odioso non si potrebbe, davvero una gran brutta persona come lui stesso al contrario ha definito il sottosctitto dopo che gli avevo amabilmente scritto su Whatsapp (vedi foto) anticipandogli la suddetta recensione. Talmente subdolo e meschino da umiliare un onesto prete (Johan Heldenbergh, il fattore-musicista Didier di Alabama Monroe – Una storia d'amore) venutogli per di più in soccorso, e portandolo a un tale livello di sopportazione da non lasciargli altra scelta che… non vi svelo altro.

Ea al contrario è la purezza in persona. È piccola ma non è svampita. Regala sogni. È decisa, arrabbiata ma non stupida. Agisce con un piano prestabilito. Anche quando ritroverà il padre sulla Terra gli dimostrerà come lei sia davvero in possesso di qualcosa di divino. Attendo con ansia Dio esiste e vive a Bruxelles nella cinquina dei film stranieri candidati all'Oscar. E se così non fosse, che il Dio di Jaco Van Dormael perseguiti l'Academy senza pietà!

Il trailer di Dio esiste e vive a Bruxelles

Dio esiste e vive a Bruxelles – la decisa Ea (Pili Groyne)
Dio esiste e vive a Bruxelles –  (da sx): Xenia (Anna Tenta) e gli apostoli Marc (Serge Larivière), Aurélie (Laura Verlinden), François (François Damiens), Martine (Catherine Deneuve) e un gorilla
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mercoledì 2 dicembre 2015

Tutti gli uomini de Il caso Spotlight

 Il caso Spotlight (2015, di Tom McCarthy) ©Kerry Hayes
Giornalismo d'inchiesta e cinema. Presentato a Venezia sez. "Fuori concorso", Il caso Spotlight (2015, di Tom McCarthy) si è aggiudicato tre Gotham Awards.

by Luca Ferrari

Miglior film, Miglior sceneggiatura (Tom McCarthy e Josh Singer) e Premio Speciale della Giuria per il lavoro d’insieme del cast: Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel McAdams, Liev Schreiber, John Slattery, Stanley Tucci e Brian D’Arcy James. Tutto in una notte. La trionfante notte de Il caso Spotlight (2015, di Tom McCarthy) durante la 25° edizione dei Gotham Indipendent Film Awards, svoltasi a New York lo scorso 30 novembre.

Il caso Spotlight racconta la storia del team di giornalisti investigativi del quotidiano Boston Globe che nel 2002 rivelò al mondo intero il sistematico insabbiamento da parte della Chiesa Cattolica sugli abusi sessuali commessi da oltre 70 sacerdoti locali ai danni di minori. Un'inchiesta questa che venne premiata col massimo riconoscimento in ambito media, il Premio Pulitzer.

Un semplice caso assume i connotati di un autentico inferno taciuto. Avere fiuto per le notizie però non basta. Se i cronisti Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), Michael Rezendes (Mark Ruffalo) e lo specialista in ricerche informatiche Matt Carroll (Brian d’Arcy James) cominciano a indagare sul caso, anche il caporedattore Walter “Robby” Robinson (Michael Keaton) e il neo-direttore Marty Baron (Liev Schreiber) danno manforte ai propri uomini sul campo nel nome di quel valore troppo spesso dimenticato: la verità.

Presentato in anteprima alla 72° edizione Festival del Cinema di Venezia (sez. Fuori concorso) con proiezione in Sala Grande nella seconda giornata della rassegna, giovedì 3 settembre 2015, rassegna questa dove si è aggiudicato il Mouse d'argento e il Premio Brian, Il caso Spotlight sbarcherà nelle sale cinematografiche di tutta Italia giovedì 18 febbraio 2016.

Oltre ai due premi in laguna e i tre Gotham Awards, Il caso Spotlight si è anche aggiudicato l'Hollywood Film Awards per la Miglior sceneggiatura, il Chicago International Film Festival come Miglior film e il Mill Valley Film Festival per il Miglior film statunitense. È inoltre candidato a quattro premi della 31° edizione degli Independent Spirit Awards (27 febbraio 2016): Miglior film, regia, sceneggiatura e montaggio, mentre ha già ottenuto Premio Robert Altman sempre nella stessa manifestazione.

Nella serata della cerimonia dei Gotham Awards sono stati conferiti anche quattro premi alla carriera, fra cui Helen Mirren (vista di recente in Woman in Gold) e Robert Redford. Già, proprio lui. Lui che in Tutti gli uomini del presidente (1976, di Alan J. Pakula) interpretò il giornalista del Washington Post Bob Woodward, e che insieme al collega Carl Bernstein (Dustin Hoffman) fecero emergere lo scandalo del Watergate e successive dimissioni del presidente Richard Nixon.

Tutti gli uomini del presidente, Il caso Spotlight. Casi isolati verrebbe da dire o comunque non la prassi. Non è la prima volta che giornalismo e cinema s'incontrano ma troppe volte i film realizzati sono stati ignorati o non hanno avuto l'attenzione che si sarebbero meritati. Ne è un desolante esempio il recente La regola del gioco (2014, di Michael Cuesta) con al centro della vicenda lo scandalo dei Contras nicaraguensi finanziati dalla CIA.

Il giornalismo viene spesso accusato di non dire nulla, di riportare solo quanto accade eppure il grande pubblico ignora lungometraggi che ne raccontano il duro lavoro portando alla luce fatti che altrimenti resterebbero nell'oblio. Nella sezione Controcampo Italiano della 68° Mostra del Cinema di Venezia l'attuale presidente della Rai, Monica Maggioni, presentò il documentario Out of Tehran (20110). Dov'è quel lavoro così come tanti altri? Perché il pubblico non li ha visti?

Appuntamento al 18 febbraio 2016 sul grande schermo con Il caso Spotlight (2015, di Tom McCarthy). Con la speranza che invece di andare a buttare via soldi con l'ennesima pacchianata della Marvel Comics o simili, la gente riversi la propria attenzione  su qualcosa di vero. Qualcosa che sarebbe potuto rimanere nell'ombra per sempre ma grazie a un coraggioso e deciso nugolo di giornalisti, la verità è venuta a galla.

 Il caso Spotlight - Robinson (Michael Keaton) e Rezendes (Mark Ruffalo) ©Kerry Hayes
 72° Mostra del Cinema di Venezia, Mark Ruffalo © la Biennale di Venezia Foto ASAC
 72° Mostra del Cinema di Venezia, Stanley Tucci © la Biennale di Venezia Foto ASAC
 72° Mostra del Cinema di Venezia (da sx): il direttore Alberto Barbera, Stanley Tucci, Tom McCarthy,
il presidente della Biennale Paolo Baratta e Mark Ruffalo © la Biennale di Venezia Foto ASAC