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martedì 28 luglio 2015

Still Alice, in contatto con la vita

Still Alice - Lydia (Kristen Stewart) e sua madre Alice Howland (Julianne Moore)
Malata precoce di Helzheimer, la professoressa Howland continuerà a credere e lottare per la sua vita. Still Alice (2014, di Richard Glatzer).

di Luca Ferrari

Alice Howland sta per andare a correre sulla spiaggia insieme all’amato marito John. Prima di andare però, un piccola sosta bagno. Alice scende le scale e inizia ad aprire tutte le porte. Non si ricorda più dove sia la toilette. Non capisce più dove si trovi. I suoi pantaloni aderenti da jogging si bagnano come se fosse una neonata. È il dramma di una cinquantenne affetta dal morbo di Halzehimer. È il dramma di Still Alice (2014, di Richard Glatzer).

Forte. Sicura di sé. In carriera, madre premurosa e moglie fedele. Una vita al limite della perfezione quella della dottoressa Alice Howland (Julianne Moore). Poi un giorno qualcosa non torna. Da una parola dimenticata a un mondo sfuocato. È l’inizio di un precoce morbo di Alzheimer. È l’inizio di una vita su cui si perde il controllo. Giorno dopo giorno il cervello la svuota dei ricordi senza che la volontà possa far nulla.

Alice Howland insegna alla Columbia, una delle più rinomate università degli Stati Uniti. È brillante. I suoi corsi sono tra i più seguiti del campus. Non è da meno il marito John (Alec Baldwin), affermato medico. A chiudere il quadretto familiare, i tre figli Anna (Kate Bosworth), Tom (Hunter Parrish) e Lydia (Kristen Stewart). Quest’ultima è la meno avvezza a una vita sicura, inseguendo i propri sogni di attrice sulla West Coast.

Nell’oliato meccanismo familiare qualcosa però si è inceppato. Qualcosa per certi versi peggiore anche di un cancro. Alice ha notato qualcosa che non va. Una affaticamento. Una sensazione di non capire più dove sia. Un termine che proprio non vuole saperne di uscire. Consulta un neurologo e dopo qualche esame la diagnosi è quanto di più infausta si possa immaginare: una forma rara e precoce di Alzheimer.

Alice è una combattente e non si arrende di certo, però piange. Ha paura. Ha paura di vedere la sua amata vita scomparire dalla sua mente. E quando a natale Tom si presenta con la nuova fidanzata subito salutata da Alice, una volta seduta a tavola pochi minuti si ripresenta a lei come se non l’avesse mai vista prima. Lydia sembra l’unica ad accorgersi di quello che sta realmente accadendo.

Dimenticate le inquietudini vampiro-licantropesche della saga di Twilight e archiviato il mediocre Biancaneve e il Cacciatore, la giovane Kristen Stewart torna a far parlare per quel solo argomento che dovrebbe riguardare chi fa la sua professione: un buon film. Dalla tipica figlia minore ribelle, Lydia si fa sempre più materna verso la propria mamma finendo per abbandonare Los Angeles e il suo agente per starle vicino via via che la malattia si fa sempre più grave.

La sua sofferenza così come i propri segreti li affida alle parole di un diario. Si prende parole dalla sorella maggiore ma la sua forza è evidente, e al momento del bisogno si dimostrerà più decisiva anche dello stesso padre che a dispetto della richiesta di Alice di prendersi un anno sabbatico per vivere insieme quello che potrebbe essere il suo anno cosciente, finirà comunque per accettare un nuovo e importante lavoro lontano da casa.

Sono anni che Julianne Moore (classe ’60) è considerata una delle migliori attrici in circolazione eppure era incredibilmente a secco di riconoscimenti ufficiali “in casa”, avendo trionfato al contrario a Berlino, Venezia e Cannes. Con la sua performance di Still Alice invece si è portata casa Critics' Choice Movie Award, BAFTA, Golden Globe per la Miglior attrice in un film drammatico e premio Oscar 2015 come Miglior attrice protagonista.

I suoi occhi a metà strada tra desolazione, rabbia e determinazione sono quelli di una donna che potrà anche non riconoscere più i suoi figli ma non intende svanire come un granello di sabbia inghiottito dalla tempesta. Lei è decisa ad affrontarlo questo uragano silenzioso che giorno dopo giorno le sta cancellando la memoria. Lei cammina fiera dentro le invisibili onde dell'oblio.

Il trailer di Still Alice

Still Alice - Alice Howland (Julianne Moore) e il marito John (Alec Baldwin)

venerdì 24 luglio 2015

Spy è un film sulle spie, cazzo!

Spy – l’agente segreto Susan Cooper (Melissa McCarthy)
Il suo nome è Cooper, cazzo, Susan Cooper (Melissa McCarthy). Inesperta-implacabile agente segreto nella divertentissima commedia Spy (2015, di Paul Feig).

di Luca Ferrari

Inesperta. Goffa. Senza autostima. Innamorata senza essere ricambiata. La persona ideale da far passare inosservata e avvicinare pericolosissimi terroristi. Il suo nome è Cooper, Susan Cooper (Melissa McCarthy). Se il mondo cinematografico freme nell’attesa di vedere la quarta prova di Daniel Craig nei panni di James Bond nel prossimo Spectre in uscita il 6 novembre, al momento ci si può fare grasse risate con il divertente Spy (2015, di Paul Feig).

Bradley Fine (Jude Law) è l’uomo di punta della CIA. Indomito, affascinante e impeccabile nel portare a termine le sue missioni. Ad aiutare a svolgere il suo compito, direttamente dalla sede operativa dei Servizi Segreti c’è Susan, il suo orecchio. Colei che grazie ai sofisticatissimi sistemi tecnologici gli dice tutto quello che deve sapere per la propria incolumità.

C’è di più. Lei è innamorata di lui, e nel classico degli amori impossibili Fine manco se ne accorge e anzi, arriva perfino a regalarle un allucinante collanina a forma di dolcetto. Tutto però cambia quando viene freddato dalla spietata terrorista bulgara Rayna Boyanov (Rose Byrne). Un fatto che sconvolgerà a tal punto la timida Susan da farla entrare in azione sul campo. Una decisione questa che sarà avvallata dalla stessa capa dell’agenzia Elaine Crocker (Allison Janney) mandando così su tutte le furie il più navigato e scafato Rick Ford (Jason Statham).

Ha inizio così un viaggio che porterà la neo-spia a confrontarsi direttamente con Rayna tra Parigi, Roma e infine nell’est europeo. A darle manforte, il collega anglo-romano Aldo (Peter Serafinowicz), l’amica inesperta Nancy/Amber Valentine (Miranda Hart), senza dimenticarsi dell’onnipresente Ford, anche se più che aiutarla, finirà per creare ulteriori casini e incazzarsi con lei.

Fate largo, Paul Feig ha trovato una nuova coppia da urlo. Dopo aver già diretto Melissa McCarthy in Le amiche della sposa (2011) e Corpi da reato (2013), questa volta le ha messo a fianco un rude partner a dir poco perfetto. E non stiamo parlando del bel Jude Law (che ha già il suo alterego cinematografico in Robert Downey Jr. nella coppia Sherlock Holmes & Watson) ma di Jason Statham (The Snatch, I Mercenari, Fast & Furious 7).

Rick Ford è il classico incazzoso. Non sente ragioni. Si fa come dice lui o manda tutti affanculo. E a farne le spese è ovviamente Susan che ovunque vada, se lo ritrova sempre tra i piedi, dovendosi sorbire ogni volta un nuovo elenco di tutte le sue (presunte) imprese da spia. Epica la volta in cui gli venne staccato il braccio sinistro e dice, se lo ricucì con la destra.

A funzionare a dovere nell’ingranaggio di Spy (finalmente anche in italiano il titolo è rimasto tale e quale), è anche  Rose Byrne (Troy, X-Men l'inizio, Gli stagisti). La sua Rayna ha una vera ossessione per la propria capigliatura. Nonostante Susan le salvi la vita, la tratta sempre come una povera mentecatta, brutta e incapace di indossare un vestito decente. Dice che le ricorda una povera vecchietta bulgara e in parte sua madre (un mostro), subito mollata dal padre dopo il concepimento.

Ad amalgamare il tutto, altri ottimi comprimari a cominciare dalla capa della CIA che per le missioni sotto copertura impone a Susan identità e nomi da autentica sfigata della middle class americana, e pure la collega di ufficio Nancy, che pur di sacrificarsi per la missione arriva a interrompere un concerto del rapper 50 Cents (se stesso), saltandogli addosso come una fan ninfomane.

In quest’estate torrida, Spy (2015, di Paul Feig) rappresenta un’autentica oasi di puro divertimento da godersi tassativamente nel fresco dell’aria condizionata del cinema. Sarebbe bello credere che sarà un’opera unica ma a giudicare dall’incredibile feeling dimostrato sul grande schermo, è molto probabile che rivedremo ancora Melissa McCarthy e Jason Statham insieme in qualche nuova cazzutissima missione.

Guarda il trailer di Spy
Spy – le agenti segrete Susan Cooper (Melissa McCarthy) e Nancy/Amber Valentine (Miranda Hart
Spy – l’agente segreto Rick Ford (Jason Statham)
Spy – la spietata Rayna (Rose Byrne)

mercoledì 22 luglio 2015

Lo squalo dell’opportunismo

Martin Brody (Roy Scheider) alle prese con Lo squalo 
A quarant’anni dallo sbarco al cinema, Lo squalo (1975, di Steven Spielberg) continua a "uccidere" grazie al fondamentale e opportunista contributo della razza umana.

di Luca Ferrari

Non esiste tragedia mortale dove l’uomo non abbia dimostrato e dimostri la sua natura più bieca e opportunista. Che si tratti di un’aggressione o l’evitare un disastro naturale, nessuno vuole mai prendersi la responsabilità di mettere la sicurezza dell’essere umano dinnanzi al profitto. Quarant’anni dopo il suo debutto al cinema, Lo squalo (Jaws, 1975, di Steven Spielberg) si aggira ancora affamato tra i mari del nostro egoismo per darci la più dolorosa delle lezioni.

Lo squalo - In concomitanza con la festa del 4 luglio, nella placida isola turistica di Amity sta per cominciare la stagione balneare. Da poco si è insediato il nuovo capo della polizia, Martin Brody (Roy Scheider), arrivato direttamente da New York. Rispetto alla Grande Mela però qui non c’è traccia di omicidi né di rapine. Un impiego decisamente tranquillo fin quando la giovane Christine Watkins (Susan Backlinie) non viene rinvenuta morta sulla battigia, pare in seguito all’incontro con uno squalo durante un bagno notturno.

All’epoca gli effetti speciali erano qualcosa di molto artigianale e per salire in cattedra ci voleva una vera storia, l’esatto contrario dell’oggi (vedi il penoso Mad Max Fury Road, al contrario incensato da una critica superficiale e troppo concentrata sul fumo). Ma se la maggior parte degli occhi del pubblico e della critica furono e sono ancora puntati sulle mascelle del pescecane, c’è un altro dettaglio ancor più inquietante. Un elemento capace di fare un’autentica mattanza, al cinema come nella realtà.

Torniamo a inizio film, quando si diffonde la notizia dello squalo assassino, per altro in principio mascherata (la ragazza morta, dicono le autorità civili, è deceduta per un contatto con un’elica). Viene convocata una riunione d’emergenza durante la quale Brody annuncia di voler chiudere le spiagge finché il mostro non sia messo nelle condizioni di non nuocere più. Ma al primo e inevitabile sussulto-rimbrotto dei commercianti che vedono a rischio la loro economia, che cosa fa il vile sindaco Vaughn (Murray Hamilton)? Corregge il tiro e specifica che trattasi di un solo giorno.

Ecco il punto. La paura di perdere anche un solo cliente (elettore) fa diventare ciechi. Ognuno pensa a se stesso e se poi qualcuno ci dovesse rimettere la vita, pazienza, tanto non toccherà certo a me. Anche a L’Aquila in quel fatale 2009 sarà successo qualcosa di simile? La zona sismica era nota ma piuttosto che rinunciare a guadagnare qualche soldo con le costruzioni, che cosa fecero i decisionisti? Se ne fregano, fino a quando ovviamente la tragedia non colpisce spietata.

E anche nella pellicola Spielberghiana andrà esattamente in questo modo. Nonostante il parere del tutto contrario dell’oceanografo esperto di squali Matt Hooper (Richard Dreyfuss), la spiaggia apre secondo copione ed è a disposizione di tutti. Nessuno però si tuffa ancora in acqua. È allora lo stesso Vaughn a spingere i bagnanti in questa direzione. Un banchetto davvero invitante per lo squalo che infatti nel canale limitrofo attacca, uccidendo questa volta due persone, tra cui un bambino e rischiando di far fare la stesa fine al figlio di Brody.

Il dio denaro/potere è più forte della morte. Che speranze avrebbe un sindaco di essere rieletto nel caso decidesse di chiudere le spiagge di una località balneare sebbene la scelta fosse dettata per il bene della comunità? Forse nessuna certo, ma intanto più di un padre e una madre non si ritroverebbero a piangere disperati la perdita del loro unico figlioletto.

Neanche dinnanzi a questo spettacolo di morte la logica ha la meglio sull’interesse ed è solo grazie alla spinta decisa di Brody che il sindaco acconsente a stanziare la somma richiesta (10.000 dollari) dall’esperto e solitario cacciatore di squali Quint (Robert Shaw) per mettersi sulle tracce del killer marino e abbatterlo. Una missione pericolosa nella quale sarà accompagnato da Hooper e lo stesso capo della polizia. Ha inizio così una grandiosa caccia in mare aperto.

Basato sull'omonimo romanzo di Peter Benchley, Lo squalo fu il film che consacrò Steven Spielberg, portandolo in seguito a firmare altri epici cult tra cui I predatori dell'arca perduta (1981), E.T. L'extra-terrestre (1982), Jurassik park (1993) e Schindler’s List (1993). Oggi però, dinnanzi al costante sfruttamento umano, non riesco neanche più a godermi Lo squalo per quello che è. A fare da padrona nel corso della visione è la metafora di una realtà senza happy end e decisa a ripetere sempre gli stessi errori nel nome del proprio opportunistico tornaconto, lasciando che le carcasse umane senza più vita si ammassino sulla sabbia sporca di sangue.

Il trailer de Lo squalo

Lo squalo - Hooper (Richard Dreyfuss), Brody (Roy Scheider) e Quint (Robert Shaw)
Lo squalo - bagnanti in fuga dall'acqua

venerdì 17 luglio 2015

Ted 2, un milione di modi per morire di noia

Ted 2 - John (Mark Whalberg), Ted e l'avvocato Jackson (Amanda Seyfried)
Gag e scorrettezze già viste. Mark Whalberg sotto tono. Seth MacFarlane non va oltre il compitino in Ted 2 con la sola eccezione di una grandiosa Amanda Seyfried.

di Luca Ferrari

Scialbo e con poca voglia di osare. Avete presente quei film tanto incensati che ti promettono grasse risate e poi in fin dei conti te ne esci dicendo: si ok, vabbeh, bella quell'intuizione e poi? Ted 2 (di Seth MacFarlane) è esattamente questo. Politicamente scorretto ma senza chissà quali gag da strapparsi i capelli e tutto basato sul carisma stralunato di Amanda Seyfried, già diretta dal regista nel mediocre Un milione di modi per morire nel West (2014).

Film nuovo, vita nuova. Se nel primo Ted (2012, sempre diretto da MacFarlane) la telecamera era maggiormente incentrata sull'anomala (e sboccata) amicizia tra un orsacchiotto e l'amico John Bennet (Mark Whalberg) che in virtù di un desiderio espresso da bambino vide prendere vita il proprio peluche, in questo sequel la vicenda affronta tempi più maturi seppur non rinunciando alla goliardia.

Ted ora è sposato con la bionda Tami-Lynn (Jessica Barth) e dopo le gioie dei primi tempi, la coppia scivola nei classici e banali litigi fino a che per risolvere i loro problemi decidono di avere un figlio (opinabile, ndr). Ovviamente c'è il piccolo problema che un peluche non può certo ingravidare una donna, così pensano a un donatore. Tutto sembra volgere al meglio fino a quando Ted si vede negare il diritto di essere umano, ribattezzato “oggetto”.

Ha inizio così una battaglia legale per dare a Ted ciò che gli spetta, il diritto a venir considerato una persona. E per farlo, non avendo troppi mezzi, i due amici si affidando all'inesperta ma determinata Samantha Leslie Jackson (Amanda Seyfried). In principio scartata senza mezze parole, sarà un suo particolare vizio curativo a farla salire vertiginosamente nei gusti dei due querelanti.

Tra camei di Morgan Freeman, Sam Jones (lo storico Flash Gordon) e soprattutto Liam Neeson (anch'esso nel cast di Un milione di modi per morire nel West), la pellicola fa il suo dovere senza chissà quale picchi comici. Amanda Seyfried (Mamma mia, Cappuccetto rosso sangue, Les Miserables) è la grande novità, mentre le scurrilità di Ted non aggiungono nulla di nuovo a quanto visto nel primo film o nelle serie televisive animate realizzate dal regista (I Griffin, American Dad). Il punto è che da uno come MacFarlane ti aspetteresti qualcosa di più.

Gradito ritorno infine con tanto di orrendo parrucchino, quello del viscido e frustrato bidello Donny (Giovanni Ribisi), deciso questa volta a scoprire il segreto della vita di Ted per produrlo in serie e farne avere uno a tutti i bambini del mondo. Altra presenza ben riuscita, il gay Guy (Patrick Warburton) che insieme al suo compagno si divertono a umiliare i nerd durante una convention in stile Comic-Con.

Il trailer di Ted 2

Ted 2 - Ted alla banca del seme
Ted 2 - la voce originale dell'orsacchiotto di peluche nonché regista Seth MacFarlane
Ted 2 - Tami-Lynn (Jessica Barth) e il marito Ted

giovedì 16 luglio 2015

Premio Mattador, gli sceneggiatori del domani

Premio Internazionale per la Sceneggiatura Mattador
Venerdì 17 luglio nelle Sale Apollinee del Teatro La Fenice a Venezia saranno premiati i vincitori del 6° Premio Internazionale per la Sceneggiatura Mattador.

by Luca Ferrari

Aprire ai giovani le porte del cinema, questa la missione del Premio Mattador, dedicato al giovane studente di cinema Matteo Caenazzo, giunto oggi alla sua 6° edizione e pronto a premiare i talenti dai 16 ai 30 anni. Il Premio ha proposto quest’anno una novità: accanto alle sezioni già esistenti, sceneggiatura, soggetto, sceneggiatura per cortometraggio CORTO86, si è aggiunta DOLLY “Illustrare storie per il cinema”.

La Giuria 2015 composta da Stefano Mordini (regista, presidente di giuria), Monica Mariani (sceneggiatrice), Alessandro Corsetti (script editor Rai Cinema), Davide Toffolo (disegnatore e illustratore) e Giampaolo Smiraglia (produttore), si è riunita lo scorso 3 luglio a Trieste e ha reso noti i nomi dei vincitori della Borsa di formazione del Premio al miglior soggetto, uno dei percorsi formativi che qualifica Mattador:

  • Claudia De Angelis (23 anni, Caserta) con King of the road 
  • Camilla Buizza (25 anni, Montichiari), con Parla in silenzio 
  • Sara Cavosi (25 anni, Roma) e Fabio Marson (29 anni, Trieste) con L’amor fu
Alla fine del percorso formativo, il migliore soggetto riceverà il premio di 1.500 eur Domani invece, al Teatro la Fenice di Venezia, saranno resi noti  i nomi dei vincitori delle altre sezioni:
  • Migliore sceneggiatura: premio di 5.000 euro
  • Migliore sceneggiatura per cortometraggio CORTO86: il premio consiste nella realizzazione del film tratto dalla sua sceneggiatura, di cui potrà firmare anche la regia, e infine, per Dolly
  • Migliore storia raccontata per immagini: il premio consiste nella Borsa di formazione sullo sviluppo della storia
I tre autori premiati inoltre avranno inoltre la possibilità di vedere pubblicati i loro lavori nei volumi della collana Scrivere le immagini. Quaderni di sceneggiatura. A tutti i vincitori poi, sarà consegnato il Premio d’Artista 2015, originale e prezioso elemento che fin dalla prima edizione viene offerto ai premiati come simbolo di Mattador.

Ogni artista invitato, con la sua tecnica e la sua poetica, realizza un lavoro originale ispirato al percorso creativo di Matteo. Per la sesta edizione si tratta di una fotoincisione e acquatinta tirata in più esemplari dall’opera intitolata Mattador, realizzata con la tecnica dell’acrilico e olio su carta e tela, da Luigi Carboni, noto artista contemporaneo, docente di pittura all’Accademia di Belle Arti di Urbino, che ha esposto in numerose gallerie private e musei in Italia e all'estero.

martedì 14 luglio 2015

Cinecomics, la dittatura dei supereroi

Batman v Superman: Dawn of Justice (2015, di Zack Snyder)
Più delle zanzare, l'estate 2015 è stata presa d'assalto dai cinecomics e i loro supereroi, neo-dittatura imperante sul grande schermo.

di Luca Ferrari

Virtuosi superattrezzati. Fenomenali attaccabrighe. Sono forti e dall’appeal hollywoodiano. Li vogliono sfidare tutti, extraterrestri inclusi. Sono i supereroi dei fumetti (buoni e/o cattivi). Uomini e donne votati a un qualche grandioso disegno. Sono ormai ovunque. È impossibile non sentirne parlare. Una vera dittatura imposta dai media. Due giorni fa si è concluso il Comic-Con di San Diego e via tutti a parlare e scrivere di supereroi, ormai più fastidiosi delle zanzare che letali ti pungono a ogni ora del giorno di questa afosa estate 2015.

Ti compri tutte queste magliette da supereroe ma quando si tratta di rimboccarti le maniche e fare la cosa giusta, ti nascondi in lavanderia, rimproverava Penny (Kaley Cuoco) all’egoista e viziato Sheldon (Jim Parson) quando per paura dei germi si rifiutava di andare all'ospedale dove era stata ricoverata la madre del suo amico Howard (IV serie, puntata n. 23 La reazione al fidanzamento - The Big Bang Theory).

Come spesso accade, il passaggio alla realtà non sembra  essere così diverso. Tutti a fare la fila per vedere questi esseri dotati di superpoteri eppure così scarsi nell’utilizzare le proprie risorse nella vita quotidiana, lasciando alla dimensione onirica il momento delle grandi imprese.

Non che prima di questo boom non ci fossero film del genere, c’erano si ma non con l’esagerata attenzione che gli viene conferita di questi tempi. L’anno di svolta fu il 2008, curiosamente lo stesso dell’esplosione della crisi economica mondiale, quando uscì il primo film della saga Iron Man con il ritrovato Robert Downey Jr. A questi, restando solamente in casa Marvel Comics e citando i più famosi, fecero seguito due sequel, due film su Thor, altrettanti su Captain America, il corale The Avengers e l’anemico sequel di quest'ultimo.

Nel frattempo si erano già ritagliati il loro spazio i mutanti X-Men con prequel vari, la trilogia di Batman si andava affermando senza precedenti, quindi è arrivato il turno di Superman e nel frattempo l’Uomo Ragno, dopo la trilogia di Sam Raimi con Tobie Maguire protagonista, era già approdato a una seconda serie di film con Andrew Garfield, decisamente sotto tono (ora ne è in arrivo una terza con la premio Osca Marisa Tomei nelle vesti di zia Mei). Non entro nemmeno nel merito del piccolo schermo altrimenti rischiamo di fare notta fonda.

Ma perché d’improvviso questo filone è stato letteralmente preso d’assalto dalla settima arte trasformando Stan Lee in un guro non più di soli nerd ma per chiunque? E perché tutto questo successo di personaggi inesistenti? Senza scomodare esperti psicologi la risposta è molto semplice. A seconda del continente nel mondo di oggi vige un’anarchica dittatura politica, economica e/o militare. L'essere umano non sembra essere in grado venirne fuori in nessuno modo, o qualcuno gli vuol far credere tutto ciò. L'unica salvezza è un supereroe. Una sorta di immaginifico dittatore illuminato che non pretende nessun tributo in cambio. Agisce per il bene supremo caricandosi sulle spalle tutte le conseguenze delle sue azioni.

Un mondo dunque dove l’essere umano normale viene ridotto a una macchietta. A una comparsa. Un mondo che finirebbe facilmente nelle mani spietate dei vari Loki o chicchessia se non intervenissero questi esseri eccezionali. Ma siamo davvero sicuri che nel mondo effettivo non ce ne siano di eroi? Ce ne sono, ce ne sono. Ma vuoi mettere il fascino di un palestrato dai bicipiti scolpiti e resi evidenti dal lattex della propria tuta rispetto a un comune mortale?

C’è un cinema, un altro cinema, capace anch’esso di celebrare i propri eroi. Quello che avrebbero davvero le carte in regola per ispirare l’umanità a compiere grandi azioni. Film recenti come The Search (di Michael Hazanavicious), Il padre (di Fatih Akin) o La regola del gioco (di Michael Cuesta) sono stati praticamente ignorati. Scarso pubblico e ancor meno attenzione da parte di quei giornali che leggono tutti. Chi sono i loro eroi? Un bambino che fugge con la sorellina nell'inferno della guerra cecena, un uomo che sopravvive al genocidio armeno e un giornalista che smaschera un traffico governativo ai massimi livelli.

Nessuno dei tre ha alcun super potere. I primi due lungometraggi sono ambientati durante tragedie realmente accadute che furono ignorate dalla Comunità Internazionale. Non sorprende dunque nemmeno un po’ che i magazine di settore gli abbiano riservato lo stesso trattamento. Il terzo invece è tratto dalla storia vera del giornalista Gary Webb, premio Pulitzer e così bravo da non riuscire più a scrivere per alcun giornale in virtù dei suoi scoop.

Perché il grande pubblico non può essere educato a prendere ispirazione da persone come loro? Persone normali e reali. Anche in questo caso la risposta è molto semplice. Perché così acquisirebbero forza e userebbero il cervello, mentre lasciare la massa a sognare con poteri che non avrà mai ha lo stesso effetto della droga. Prima ti eccita e poi di fa sbattere contro il muro della penosa realtà ma a quel punto la frittata è fatta e non si può più tornare indietro.

Viviamo in un mondo “libero” e se la stampa specializzata vuole consumare ettolitri d'inchiostro e km di web per incensare un certo genere di film, ha tutto il diritto di farlo. Ma parafrasando un “certo insegnamento”, potrei argomentare che: da una simile azione deriva una grande responsabilità, anzi una larga conseguenza di cui si cura molto poco. La stampa cinematografica sta ormai sempre più “privilesaltando” l’analisi tecnica (effetti speciali) dimenticandosi che è la storia a fare grande una pellicola.

Il filone cine-fumettistico è interessante e si merita spazio ma è indubbio che ormai stia diventando invadente a livelli pericolosi. Di film come gli ancora inediti Batman v Superman: Dawn of Justice (2015, di Zack Snyder) e Suicide Squad (2015, di David Ayer) si sta parlando in modo bulimico e da tempo immemore. Se i risultati poi doveesero essere anche solo simili agli ultimi prodotti della Marvel, c’è ben poco di che stare allegri.

E se poi un film come Birdman, spacciatosi per essere l’anti-superhero movie (molto discutibile), si guadagna 4 dei principali premi Oscar a discapito di pellicole come The Imitation Game (2014, di Morten Tyldum) o La teoria del tutto (2014, di James Marsh), allora Houston, abbiamo davvero un grosso problema. Un problema di eroica super-dittatura ma questo è ciò che il grande pubblico vuole. La massa di pecore amerà i supereroi proprio per questo.

(da sx) Il padre, The Search e La regola del gioco
Suicide Squad (2015, di David Ayer

venerdì 10 luglio 2015

Wimbledon, il tennis alla Notting Hill

Wimbledon - Lizzie Bradbury (Kirsten Dunst) e Peter Colt (Paul Bettany)
Colpi improbabili e una storiellina alla Notting Hill con Paul Bettany e Kirsten Dunst sullo “sfondo” del torneo di tennis più importante del mondo, Wimbledon.

di Luca Ferrari

Il tennis non è mai stato (fin'ora) uno sport troppo valorizzato dalla settima arte. Giusto minimi scampoli ma mai veri e propri lungometraggi dedicati. Non è da meno il più che modesto Wimbledon (2004), del regista inglese Richard Loncraine. A dispetto del titolo, sembra più un Notting Hill in salsa tennistica con solo di sfondo la disciplina, mostrata sui veri campi verdi a tratti in modo alquanto inverosimile.

Peter Colt (Paul Bettany) è un modesto tennisa sul viale del tramonto. Un tempo a ridosso della top ten, oggi langue oltre la 100° posizione. Ma prima di appendere la racchetta al chiodo e diventare il presidente di un circolo tennistico, è pronto a giocare il suo ultimo torneo in casa. Sul verde di Wimbledon, entrando direttamente nel tabellone principale grazie a una wild card.

È lì che incontra la rabbiosa americana Lizzie Bradbury (Kirsten Dunst), campionessa spaccona e dal carattere difficile ma in segreto innamorata proprio di lui. Un film che più scontato non si può, dall'esito prevedibile su tutti i fronti fino all'esagerazione all'acqua di rose dell'amicizia sul campo tra Colt e raccattapalle bambino che addirittura viene colpito in faccia da un servizio dall'odiato rivale, ex (pure) di Lizzie.

Non voglio entrare troppo nel merito del tennis vero e proprio. Basterebbe vedere il match point per capire che mai nella storia del tennis si è assistito a un punto simile di questa importanza. Gli "atleti" spesso sono fuori posizione e neanche colpiscono la palla facendo cadute alquanto plateali.

Più divertenti senza dubbio la ruspante famiglia di Colt, a cominciare dai genitori in crisi: mamma Augusta (Eleanor Bron) e papà Edward (Bernard Hill) ma ancor di più il fratello minore Carl, che scommette sempre contro di lui, e interpretato da un giovane James McAvoy (L'ultimo re di Scozia, Wanted, X-Men – L'inizio) .

Il film, dedicato alla memoria di Mark McCormack (1930-2003), stimato avvocato e procuratore sportivo di grandissimi campioni tra cui Björn Borg, Chris Evert e Pete Sampras, vede nel cast nel ruolo di se stessi come commentatori televisivi, due autentiche leggende del tennis maschile e femminile: gli americani John McEnroe e la già citata Evert, entrambi vincitori del torneo di Wimbledon in tre edizioni ciascuno: '74, '76 e '81 lei, '81, '83-'84 lui.

Se la storia d'amore tra i due protagonisti sembra a tratti ricordare quella tra i due tennisti Andre Agassi e Steffi Graf, sembra alquanto palese l'ispirazione  dalla carriera di Goran Ivanisevic per l'impresa di Colt. Dopo anni di promesse disattese e tre finali a Wimbledon perdute, il mancino croato riuscì a vincere il torneo ormai prossimo al ritiro e non di meno entrando nel tabellone principale solo grazie a una wild card.

Wimbledon (2004, di Richard Loncraine) è un film che può giusto venir voglia di vedere nel corso del torneo (come ora). Per il resto dell'anno, ci sono film romantici decisamente più adorabili e allo stesso tempo film sportivi degni di questo nome. Tra gli ultimi sbarcati sul grande schermo: L'arte di vincere (football) di Benneth Miller e Di nuovo in gioco (baseball) di Clint Eastwood.

Il trailer di Wimbledon

Wimbledon - Peter Colt (Paul Bettany)
Wimbledon - Lizzie Bradbury (Kirsten Dunst)
Wimbledon - le fan di Peter Colt (Paul Bettany)
Wimbledon - Carl (James McAvoy, a dx) insieme alla sua ragazza e amici guarda la partita del fratello

Il segreto di un cinema non voluto

Sabato 11 luglio al MAAV di Abano Terme si terrà la presentazione dell'opera Il “Mio” Segreto di Italia – Testimonianza di un cinema non voluto, di Antonello Belluco.

by Luca Ferrari

Il cinema divide. Il cinema rivela. Il cinema fa riflettere. Per il suo quinto lungometraggio Il segreto di Italia il regista padovano Antonello Belluco ha scelto un tema molto difficile, il cosiddetto eccidio di Codevigo, ossia le varie  esecuzioni compiute nella cittadina padovana dai partigiani della Brigata Garibaldi ai danni di iscritti al partito fascista o meri aderenti. Quel film oggi è diventato un libro.

Sabato 11 luglio a partire dalle h. 18 presso la MAAV – Museo Abano Terme Arte Vetro Galleria al Montirone (Via Pietro D’Abano, 20 Abano Terme) sarà presentato l'opera Il “Mio” Segreto di Italia – Testimonianza di un cinema non voluto, di Antonello Belluco.

In questo volume Antonello Belluco (Antonio guerriero di Dio, Il Giorgione) racconta in forma diaristico-autobiografica i quattro anni durante i quali è stato impegnato nella produzione del film “Il segreto di Italia”, uscito a novembre del 2014 e ancor oggi in programmazione in alcune città italiane, con protagonisti Romina Power e Gloria Rizzato.

Il libro consta di diciassette capitoli nei quali l’autore-regista narra aneddoti relativi alla sua vita e alla realizzazione della pellicola. Parla della sua famiglia, rievocando con tenerezza e ammirazione la figura del nonno, che definisce “un grande esempio”; racconta gli anni della sua formazione e l’inizio della sua carriera. Si sofferma poi sulla descrizione dell’incontro con Gerardo Fontana, cugino di Farinacci Fontana (assassinato dalla Brigata Garibaldi), tramite il quale Belluco ha conosciuto la tragedia di Codevigo.

Centrale è la volontà di svelare una verità storica in nome della libertà di pensiero, contro il silenzio imposto da pregiudizi ideologici. “Ho semplicemente cercato di aprire un piccolo spiraglio, un’infinitesima fessura densa di speranza” ha sottolineato Bellucco, “il grande sogno di vedere la storia non utilizzata per sostenere un regime di pensiero o un’ideologia, ma come chiaro esempio e monito per un popolo in grado di ragionare liberamente in modo autonomo, senza lasciarsi coartare né fuorviare”.

L'orrore del Fascismo così come di tutte le più spregevoli dittature è stato naturale fonte di vendette spietate. E ciò che fecero i Partigiani nel fatto in sé, non fu tanto diverso dalla strage delle foibe con protagonista la Jugoslavia di Tito ai danni degli italiani. E mentre i moralisti già si sprecano, verrebbe da chiedersi come dovremmo considerare le due bombe atomiche scagliate contro il Giappone dagli Stati Uniti a guerra ormai finita. Ecco appunto.

Il trailer di Il segreto di Italia