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sabato 27 agosto 2016

Angelo Bacci, il cinema addosso

il manifesto di Venezia 73 e (dx) Angelo Bacci
Un uomo dentro e fuori la settima arte. A pochi giorni dall’inizio della 73° Mostra del Cinema di Venezia, quattro chiacchiere con “chi” il Festival lo ha vissuto per davvero, Angelo Bacci.

di Luca Ferrari

Gli aneddoti. Le storie. A tu per tu con Angelo Bacci, uomo di grande cultura e storia del cinema. Quattro chiacchiere pre-73° edizione del Festival di Venezia con Angelo Bacci, tra, ricordi, presente e nuove iniziative. Conobbi Angelo Bacci parecchi anni fa e fu allora che misi piede per la prima volta dentro il Palazzo del Cinema. E fu lì che iniziò un’avventura che non cesserò mai di aggiornare, film dopo film. Sceneggiatura dopo sceneggiatura. Incontro dopo incontro. Ispirazione dopo ispirazione.

Venezia, 23 agosto ‘16. È una calda giornata di fine agosto. Mi sto per incontrare con Angelo Bacci a Sant’Elena. Lì, all’estremità dell’isola veneziana. Lì dove il Lido, terra del Festival cinematografico, si potrebbe anche raggiungere a nuoto (ma è vietato, ndr). Seduti sotto il frescolino del fitto manto arboreo, Angelo parte subito come il più classico dei proiettori in piena. Una bobina di storia si racconta. Ha lavorato dietro le quinte della Mostra del Cinema dal 1970 al 2004 e ne ha viste passare. Dai tempi di Gian Luigi Rondi fino al terzo millennio super-tecnologico.

Rondi, una personalità complessa. “Quando andrai all’inferno, dirai che sei in paradiso” gli disse una volta Pierpaolo Pasolini all’auditorium Santa Margherita, ricorda divertito Angelo. Una figura quella che non sfuggì nemmeno all’occhio “Disneyano” del fumettista veneziano Giorgio Cavazzan che lo immortalò in una epica storia Paperopolese dove il multimiliardario Paperon de’ Paperoni, pur di scroccare vitto e alloggio alla Biennale, si spacciò per regista alla conquista del Leone d’Oro, approdando alla Mostra del Cinema. Non andrà esattamente così, ma quella è un’altra storia. Questa invece ha le parole di Angelo Bacci.

Parlare con qualcuno di cinema è come assistere a un concerto rock. Non sai mai davvero cosa ascolterai, ma sai già che sarà entusiasmante e ciò che ti rimarrà dentro lo potrai ri-raccontare negli anni a venire. Per preparami a dovere mi viene automatico regalare al mio udito un bel collage di colonne sonore. Dall’epica “Limahliana” de La storia infinita e il gotico strumentale di Beetlejuice, ai più recenti e struggenti duetti di Les Miserables. Sbarco alla mia fermata. Si ferma la musica. Silenzio in “sala”.

Ha visto il calendario di questa 73° edizione, cosa ne pensa?
Mi piace molto il progetto e la visione. Il direttore Alberto Barbera ha portato tanti maestri e stelle che creeranno una cronice particolare alla Mostra. Ha fatto una selezione meticolosa e importante. L’ha sempre fatto ma quest’anno in particolare. Mi duole invece constatare lo scarso coinvolgimento dell’isola, elemento che contribuirebbe non poco per l’ulteriore rilancio della manifestazione. Andai a Cannes in un più di un’occasione e lì la partecipazione della città era di un altro livello. A Venezia è tutto complicato. Anche Roma gli sta togliendo spazio.

C’è qualche pellicola che in particolare aspetta di vedere più delle altre?
Sono molto curioso di vedere i tre film italiani in concorso di cui sento parlare molto bene: Questi giorni di Giuseppe Piccioni, Piuma di Roan Johnson e il documentario Spira Mirabilis di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Dei film stranieri, la mia attenzione sarà in particolare rivolta a Jackie (di Pablo Larrain con Natalie Portman nei panni della vedova Kennedy). Più che la storia, voglio capire come verranno trattati i risvolti di quella gestione della politica e della società americana.

Che film l’ha più colpita quest’anno?
La grande scommessa di Adam Mckay con Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling e Brad Pitt. Un film attuale. Una specie di cronistoria di ciò che sta accadendo a livello  mondiale, ossia che la finanza è padrona.

Perché così tanti remake: ci sono davvero poche idee rispetto al passato o sono le grandi Produzioni a volere così? 
C’è sempre meno valorizzazione delle nuove idee, nonché carenza di esperienza e qualità. Una volta portavamo avanti progetti che avevano obiettivi e finalità chiare: l’attualità. Adesso aldilà del business, c’è la politica. Certi temi toccano la società e dunque la politica, perciò devi farlo in modo sfumato o non te lo fanno proprio fare. Invece una volta la cinematografia aveva la caratteristica di portare a conoscenza queste tematiche. Una volta era più coraggiosa.

C’è un periodo in particolare della sua esperienza che ricorda con maggior affetto? 
La gestione Lizzani è stata tra le più significative, merito anche del suo stretto collaboratore nonché critico e sceneggiatore Enzo Ungari. È grazie a lui che furono proiettati alla Mostra, all’Arena (oggi sala Darsena) la saga di Guerra Stellari ed E.T - L'extraterrestre. Una sala quella che poteva contenere fino a 1300 persone ed era sempre affollatissima fino a ore tarde. Il Bar Lions era il nostro ritrovo. Lì ho fatto indimenticabili e interminabili riunioni.

Un altro personaggio straordinario con cui ebbi la fortuna di lavorare fu la critica cinematografica Flavia Paulon, una donna molto amata e rispettata. Addirittura produttori e registi internazionali scrivevano a lei invece che a Rondi per il Festival. In certi anni, prima ancora del mio arrivo, l’Italia faceva scuola. Negli anni ‘50 e ‘60 il gruppo di operatori cinematografici guidati da Umberto Picuti venivano ogni anno chiamati a Cannes per fare i proiezionisti. Poi dagli anni ‘70 è finita.

Quale attore/attrice dal vivo l’ha più colpita e perché?
Dal punto di vista umano, Dustin Hoffman e Robert De Niro. Il primo lo incontrai sotto la direzione artistica di Guglielmo Biraghi, forse la persona più elegante e preparata nell’ambito cinematografico che abbia mai incontrato, sempre molto raffinato nelle sue scelte. Una volta mi chiese di andare a prendere/accogliere Hoffman che era all’hotel Excelsior per condurlo alla conferenza stampa. Arrivati alla porta girevole, d’improvviso lo vidi sparire per poi riapparire, sempre nella bussola, sottobraccio a una persona anziana. Era un uomo sensibile. Simpatico. Disponibile. Ironico. Molto semplice.

De Niro lo conobbi durante gli anni in cui fu direttore del festival Gillo Pontecorvo (del quale quest’anno ricorre il cinquantennale della sua opera più celebre, La battaglia di Algeri, che sarà riproposto alla Mostra del Cinema, ndr). Un’atmosfera informale. Una bicchierata in studio da Gillo nel cuore della proiezione, com’era sua consuetudine fare. Pontecorvo fu decisivo per riportare il cinema americano a Venezia. Nei miei anni alla Mostra incontrai più volte Al Pacino, Wood Allen, Martin Scorsese e Steven Spielberg (Disneyzzato anch'esso).

Qual è un film cui non saprebbe mai rinunciare?
Gli intoccabili.

The Untouchables (1987, di Brian De Palma). Quattro uomini contro un sistema corrotto. Un sistema che non lascia scampo. Rispetto a tante altre pellicole, De Palma mostrò la mafia per quello che era (ed è) davvero: una spietata organizzazione criminale la cui unica moneta è la violenza. Ma questa volta perde. L’agente federale Eliot Ness (Kevin Costner), lo sbirro di pattuglia Jimmy Malone (Sean Connery), la giovane recluta George Stone (Andy Garcia) e il ragioniere Oscar Wallace (Charles Martin Smith) riusciranno a bloccare Al Capone (Robert De Niro). Chiacchiere e distintivo avranno la meglio.

Nell’immediato futuro, oltre alla presentazione letteraria del suo ultimo lavoro, “La mia Biennale – Sottosopra”, Angelo Bacci tornerà anche quest’anno, sabato 3 settembre h. 18.30, a dedicare un intenso momento al compianto Claudio Maleti, titolare dell’omonimo bar al Lido di Venezia. “È stato un uomo che ha sempre investito molto sull’isola e sulla Mostra del Cinema, ecco perché ho voluto dedicargli una serata e un premio alla sua memoria, assegnato quest’anno a Giancarlo Di Gregori, direttore della comunicazione istituzionale e delle attività Giornalistiche di Luce Cinecittà. “Claudio ha sempre voluto creare un rapporto più stretto tra la Mostra e l’isola”.

Saluto Angelo Bacci e mi avvio. Nei pochi metri che mi separano dal battello direzione Lido, sento nella mia mente movimenti di macchine, schiamazzi e schizzi d’inchiostro. Parole, immagini, sequenze visive. Il film è la superficie più appariscente, lì dietro c’è un mondo affascinante fatto di mille mestieri e artigiani d’ogni arte possibile e immaginabile. L’amore per la settima arte è arrivato un po’ tardivo nella mia vita, intanto però mercoledì prossimo comincia la 73° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e io per il 9° anno consecutivo sarò in prima linea. Editoriale, s’intende, inviato del settimanale internazionale L’Italo-Americano.

Jackie (2016, di Pablo Larrain)
La grande scommessa (2015, di Adam McKay)
(sx) Angelo Bacci in una bellissimo disegno di Giuseppe Pasqualetto e a dx durante
una  presentazione letteraria insieme all'amico Livio 
Gli intoccabili - The Untouchables (1987, di Brian De Palma)

sabato 13 agosto 2016

Il drago invisibile, le favole non hanno mai fine

Il drago invisibile - Elliott e il piccolo Pete (Oakes Fegley)
Le vere favole non hanno e non avranno mai fine, come quella di Elliott, Il drago invisibile (2016). La Disney ci regala la magia di una fiaba senza età, diretta da David Lovery.

di Luca Ferrari

Le fiabe sono storie cui non si dovrebbe mai smettere di credere. Non importa i libri, la scienza e le altre diavolerie veritiere o teorizzate che siano. Credere nelle fiabe è un atto d’amore verso la propria vita. Quella parte di noi che vale la pena guardare sempre con occhi disincantati incuranti di mode e amarezze personali. Questa che sto per raccontarvi è una di esse. Ispirato al breve racconto di S. S. Field e Seton I. Miller, la Walt Disney Pictures rilegge in chiave live action Il drago invisibile (2016, di David Lovery).

Il piccolo Pete (Oakes Fegley) è in viaggio con la sua mamma e il suo papà. Un improvviso incidente muterà la sua vita per sempre, così eccolo d’improvviso ritrovarsi orfano e perso nel bosco con un branco di famelici lupi già a sentirne l’odore. Qualcosa però di gigantesco si fa largo nella fitta vegetazione e i predatori battono la ritirata. È un gigantesco drago verde. Un drago buono che adotterà il bambino diventando la sua famiglia.

Non troppo distante da quei boschi c’è l’ormai anziano incisore di legno, sig. Meacham (Robert Redford) che da tempo immemore racconta ai bambini una storia (fantasiosa) di come affrontò e uccise un terribile e gigantesco drago verde. Un tempo piccina e ora sensibile guardia forestale, la di lui figlia Grace (Bryce Dallas Howard), oggi è meno incline a credere alle fiabe paterne ma sempre dalla parte di quella dimensione naturale.

Tutto cambierà quando durante l’ennesimo scontro col fidanzato Jack (Wes Bentley) sulla questione degli alberi che si possono abbattere, la sua figlioletta Natalie (Oona Laurence) vede un bambino mezzo svestito che si aggira solo nel bosco. Ha inizio così un lento riavvicinarsi nella società. Pete però ha in mente una sola cosa: ritrovare l’amato drago Elliott, che ha la capacità di rendersi anche invisibile. Ma chi davvero potrebbe credergli? Gavin (Karl Urban) intanto, il fratello di Jack, incontra realmente la creatura e dopo una fuga, è pronto a dargli la caccia.

Per quelli della mia generazione nati a fine anni ’70, vedere un drago ha un solo e unico cine-rimando. Non è il recente Smaug né il più lontano co-protagonista sputafuoco di Ladyhawk, per noi bambini-ragazzini degli anni ’80 c’è solo Falkor, il fortunadrago de La storia infinita di Wolfgang Petersen. Elliott è più umano del collega fantastico, ma sono entrambi amichevoli e “morbidosi”.

Il drago invisibile vede per l’ennesima volta lo scontro umano tra chi vuole lasciare nel mondo quel pizzico di magia e chi lo vuole conquistare, soggiogandolo al proprio volere. L’innocenza di un bambino è ancora quel briciolo di sabbia con cui ricostruire il regno di Fantàsia. Basta crederci. Basta esprimere un desiderio e nessuna razionalità potrà mai sottometterlo. Pete ha un amico sincero, e per sua fortuna ne incontrerà altri (di umani) che faranno si che il suo mondo non scompaia in catene e foto ricordo.

Dolcemente interpretata da Bryce Dallas Howard (Spider-Man 3, Hereafter, The Help), Grace è oltre modo materna nei confronti del piccolo Pete. È cresciuta in un mondo di favole, e anche se dice di non crederci più, è andata a fare il solo lavoro possibile che le consentisse di mantenerle intatte e incontaminate dentro di sé, ergendosi a protettrice del bosco e dunque di tutte le sue creature: orsi, volpi, uccelli, bambini persi e d’ora in avanti, anche di un docile drago verde.

In principio snobbato, è stata la presenza di Robert Redford (Il vento del perdono, Leoni per agnelli, Truth – Il prezzo della verità) ad attirarmi verso Il drago invisibile, e la successiva voglia di lasciare il mondo per un paio d’orette tuffandomi nella magia umano-fantastica di questa pellicola. Con negli occhi ancora il verde sconfinato di un recente viaggio in Canada, ho sentito che sarebbe stato il film perfetto per ricominciare a prendere confidenza con il grande schermo.

Nel corso della visione de Il drago invisibile ovviamente è riemersa la favola disneyana con Elliott pacioccone in tutta la sua delicata semplicità. Ritrovarsi infine in un cinema estivo circondato da bambini festanti è stata un’esperienza differente dalle consuete proiezioni cui assisto. L’applauso finale di mani piccine racconta la storia di un’emozione collettiva cui anche i tanti critici dei festival dovrebbero ogni tanto ripensare.

Il trailer de Il drago invisibile

Il drago invisibile - Grace Meacham  (Bryce Dallas Howard) insieme al padre (Robert Redford)

mercoledì 10 agosto 2016

Edoardo Leo, a lezione di freelance

Loro chi? - David (Edoardo Leo) risponde così alla poco vantaggiosa offerta...
Il lavoro va sempre pagato e la retribuzione deve essere adeguata. In caso contrario, tiè!, come rispose il neo-freelance David (Edoardo Leo) nella brillante commedia Loro chi?

Cinema e realtà. L’uno ispira l’altro e viceversa. Il lavoro freelance è una realtà consolidata del terzo millennio, così come lo sfruttamento dei suoi numerosi alfieri. In questo mercato dalle poche regole e ancor meno certezze, ci vuole polso e fermezza. Il lavoro deve essere retribuito in modo equo. Se mal pagati, è meglio perdere alcune collaborazioni. Non si ricaverà nulla di buono. E se il concetto non fosse troppo chiaro, è meglio essere più espliciti chiedendo direttamente consiglio all'attore Edoardo Leo, in particolare nel suo ruolo della commedia Loro chi?

La vita può essere molto dura e spietata. L’incontro col truffatore Marcello (Marco Giallini) porta David a perdere ogni cosa. Rimessosi in sella, l’obiettivo numero uno è farla pagare a chi lo licenziò. La vita si sa, può facilmente cambiare le carte in tavola, magari con l’aiuto e l’inganno di qualche insospettabile. Ecco dunque il Presidente (Ivano Marescotti) insieme al servile Melli (Vincenzo Paci) implorare David di tornare a lavorare per loro, oggi ridotto a vivere come un barbone con cartone di vino in mano.

E quale potrà mai essere la sua risposta? Tiè! (facendo il gesto dell'ombrello ). Andate gentilmente affanculo!, dice. E una volta supplicatolo, il buon David ha le idee chiare sulla tariffa da chiedere: “Io ora sono un freelance. Prendo 300 euro al giorno e una cassa di champagne che questo me fa un po’ di acidità”. Forse 300 euro al giorno è un po’ esagerato, ma d’altronde più che una trattativa questo è un ricatto (vendetta) da parte di chi è stato messo alla porta senza tanti complimenti.

Loro chi (2016, di Francesco Miccichè e Fabio Bonifacci) è una brillante commedia con quel giusto mix di risate, bravura attoriale e spunti su cui riflettere, a tratti anche politically scorrect. I siparietti tra il trasformista Marcello nei panni dell’agente speciale Nocis e il bistrattato maresciallo Gallinella (Maurizio Casagrande), storpiato in "Gallinazza", sono da risate assicurate.

Ma aldilà della divertente vicenda messa su dai registi, nel film emerge un elemento che solo chi è del mestiere potrà veramente comprendere. David ha l’ambizione di fare il giornalista, lavoro sempre più svilito oggigiorno e puntuale messo nel cassetto, passando poi a occupazioni che sempre ruotano attorno al mondo della scrittura, fino ad arrivare a un buon impiego come creativo per un’azienda altoatesina.

Il Presidente è l’emblema dei troppi datori di lavoro moderni, pronti a sfruttare il più possibile il prossimo, con paghe mai all’altezza dell’impegno e della fatica. Se David comunque mantiene un minimo di autostima, Melli è il classico zerbino che come gli rinfaccia il collega stesso, se il Presidente scorreggia, si prende la colpa. In tempi recenti, nel marasma degli annunci di lavoro passatimi sotto gli occhi, uno mi ha davvero colpito, in particolare per una richiesta, sulla quale mi sono anche lanciato in un lungo post polemico su Linkedin.

Sulle richieste, al primo posto della lista c’era scritto: “dimenticarsi l’orologio”. Tiè! Esattamente come David rispose alla richiesta dei suoi ex-datori di lavoro, bisogna avere il coraggio di avere rispetto di se stessi e mettere la vita davanti al lavoro, e non il contrario. Nessuno sta dicendo che bisogna essere fiscali, ma l’elasticità dovrebbe esserci da entrambe le parti. Come sullo stesso social network di lavoro ho specificato, a me è capitato e capita ancora di fare anche 10 ore filate senza batter ciglio ma sentirmi chiedere che devo dimenticarmi di avere una vita privata come base, allora non ci sto.

Se ormai i sindacati sono un corpo avulso dalla realtà  lavorativa, devono essere le persone a fare la differenza mostrando carattere e forza di volontà. Prostrarsi alla schiavitù di offerte di questa natura spesso nemmeno supportate da adeguati compensi, sono situazioni che non si possono più tollerare. Leonida e i suoi 300 spartani hanno cambiato la Storia del mondo con un gesto di ribellione. Per dire, senza di loro la civiltà della Roma antica non sarebbe mai sorta.

Loro chi? non ha lo spessore drammatico del film francese Due giorni, una notte con la premio Oscar Marion Cotillard, ma anche la pellicola italiana fa emergere a suo modo il trend distorto del lavoro sfrutta-assorbi vita. Permettetemi dunque una riflessione finale: anche se non andremo “Jobsianamente” a fare il lavoro dei nostri sogni, meglio qualcosa di meno nobile e avere più tempo da dedicare alla propria vita, facendo di ogni sequenza un primo piano della nostra felicità. E se non vi sta bene, tiè! Andate gentilmente affanculo pure voi!
Loro chi? – il Presidente (Ivano Marescotti) e il “tappetino” Melli (Vincenzo Paci)
Loro chi? – David (Edoardo Leo) ha le idee chiare sullo stipendio che merita

martedì 2 agosto 2016

Cell, il cannibalismo è mobile

Cell - Alice (Isabelle Fuhrman) e Clay (John Cusack) si aggirano per le strade
Siamo sempre più connessi e assorbiti dalla droga degli smartphone. E se d’improvviso ne venissimo risucchiati in modo letale? Da Stephen King al grande schermo, Cell (2016, di Todd Williams).

di Luca Ferrari

Due ragazzi vicini digitano sul proprio telefono cellulare senza spiccicare una parola. L’ennesima famiglia in pizzeria ha sbattuto un grande smartphone davanti alla loro bambina così che rimanga tranquilla lasciando loro in pace. Un “altro futuro premio Nobel” spende tutto il proprio tempo di viaggio giocando con qualche futile applicazione. Il vicino osserva con attenzione le vite altrui. L’orrore del quotidiano possiede ancora margini di peggioramento? Si, decisamente. Basato sull’omonimo romanzo di Stephen King, Cell (2016, di Todd Williams).

Clay Riddell (John Cusack) è un disegnatore di fumetti. Dopo un difficile anno lontano dalla famiglia, adesso vorrebbe tornare a casa, esausto ma felice per aver finalmente venduto il proprio lavoro. È all’aeroporto di Boston come tante volte ha fatto nella sua vita. Lui e migliaia di altre persone. Moltissimi, come sempre, sono al telefono. Parlano. Giocano. Chattano. Qualcosa però d’improvviso si verifica. Prima le convulsioni, poi una feroce aggressività cannibale.

Clay ha da poco messo giù la cornetta ed evita per caso il contagio. Non senza difficoltà, fugge via angosciato, riuscendo a trovare un rifugio temporaneo dentro un vagone della metropolitana insieme ad altre persone ancora "normali", tra cui il macchinista Tom McCourt (Samuel L. Jackson). I protagonisti ci mettono poco a capire che non trattasi di chissà quale sofisticato attacco terroristico ma è qualcosa ancor più atroce: chiunque fosse al telefono, è stato colpito da un segnale che ne ha mutato del tutto la volontà, trasformandolo in un automa assetato di sangue. Clay ora vuole una sola cosa, ritrovare moglie e figlio prima che sia troppo tardi.

“Lui toglierà loro la libertà, e loro l’ameranno per questo” sentenziava serafico-preoccupato il senatore Gracco (Derek Jacobi). Sono passati più di 16 anni da Il gladiatore (di Ridley Scott) e di libertà ce n’è sempre meno, travestita magnificamente da intrattenimento alla portata di ciascuno. Il dittatore del terzo millennio però, non è uno e unico. Non ha volto. Sono molti. Invisibili e non hanno le sembianze di truci carcerieri ma di simpatici mattacchioni.

L’era del mobile è in piena evoluzione. L’era del mobile scandisce il tempo. Il mondo si sveglia e la prima azione da compiere è quella di accendere il telefono in attesa di scoprire subito se qualcuno ci ha scritto o magari ci ha dato qualche “mi piace” sull’ennesimo commento o post che sia. I neo-genitori così come i nonni più digitali regalano entusiasti al web e ai tanti pedofili in agguato le foto dei loro figli/ nipotini.

Parafrasando il già citato Scott (rif. Robin Hood), "L’era del mobile fagocita e fagocita ancora finché tutti gli esseri dotati di pensiero non diventeranno automi". Ogni giorno aumentano le connessioni nel mondo. Ogni giorno le persone spendono sempre più tempo sui social network il cui supporto mobile ha ormai distanziato il normale computer da tavolo. Ormai in quel mondo senza guerrela gran parte della popolazione non sa più vivere senza il proprio telefono portatile.

Distribuito da Notorious Pictures, Cell (di Todd Williams) è sbarcato sul grande schermo in un’estate alquanto povera di film originali, riscuotendo però poco successo e venendo per di più criticato a discapito di pacchianate come Tarzan dove Christoph Waltz fa "addirittura" la parte del cattivo, l’ennesimo Star Trek, e il recordman di non-apprezzamenti (dislike) su Youtbe, Ghostbusters di Paul Feig.

Il rischio non ha mai fermato l’essere umano, neanche di fronte all'evidenza. Sono anni ormai che si parla della presunta pericolosità dei telefoni cellulari, eppure il popolo continua a tenerselo ben stretto alla testa e organi genitali vari, senza prendere alcuna precauzione al riguardo. Se ben ricordate c’è voluto parecchio tempo prima che venisse sancito il danno causato dalle sigarette, e la reazione qual è stata? Lucrarci sopra in modo ufficiale con ipocrite immagini di morte.

A dispetto di un finale forse un po’ troppo semplicistico, la coppia dei protagonisti di Cell funziona bene. Non sono degli eroi esagerati in stile La guerra dei mondi. Un po’ per tenacia, un po’ per fortuna sono ancora vivi. A loro si unirà anche la vicina di casa di Clay, Alice (Isabelle Fuhrman), scossa non poco per aver visto la propria madre uccisa. Cell lascia un’eredità (scomoda) dentro ciascuno di noi. La svendita umana è in pieno svolgimento ma in pochi sembrano davvero intenzionati a tenersi in disparte. Quanti di noi saranno davvero disposti a fuggire dalla massa e cercare il proprio cammino?

Inquietante il segnale che via via passa dal mero telefono all’uomo-donna facendoli diventare loro stessi esportatori di questo insolito virus. Il virus della violenza e del sangue, quello stesso imbracciato dalle masse incapaci di comprendere chi li stia utilizzando per il proprio bieco interesse. Masse pilotate con un suono, un clic, una parola. Il mondo non è mai davvero cambiato nel suo marciume, è solo l’apparenza a essere mutata.

Ma è davvero così fantascientifico il film Cell? La società impone regole. Una struttura che la distanza abbatte. Se nel quotidiano solo chi esercita il potere si lava la bocca col sangue di chi non può reagire, da un telefono è possibile azzannare chiunque, il più delle volte, perché non si condivide il medesimo pensiero.

Stephen King è uno scrittore horror che non ha certo bisogno di presentazioni ma nulla è più spaventoso di una realtà che giorno dopo giorno sta sempre più togliendo spazio alle relazioni umane, alimentando il mito della visibilità e condivisione (che poi tale non è, ndr), relegando come appestati chi crede ancora nella privacy. Cell, una visione estremizzata di qualcosa che si sta verificando anche in questo momento a fianco di ciascuno di voi.

Guarda l'angosciante trailer di Cell

Cell (2016, di Todd Williams)