12 anni schiavo - l'atroce fustigazione di Patsey (Lupita Nyong’o) |
di Luca Ferrari
Crudele. Intenso. Spietato. Reale. Educatore. A ragione, pluri-premiato. Vincitore di tre premi Oscar come Miglior film, Miglior sceneggiatura non originale (a John Ridley) e Migliore attrice non protagonista (Lupita Nyong’o). Tratto dall’omonima biografia di Solomon Northup, 12 anni schiavo (2013). A dispetto di un certo ridimensionamento del libro (ancor più feroce), il regista inglese Steve McQueen (Hunger, Shame) racconta lo schiavismo negli Stati Uniti di metà ‘800 prima della Guerra di Secessione.
È stata la mia prima volta, lo ammetto. È stata la prima volta che mi sono dovuto imporre di andare al cinema perché ne avrei fatto volentieri a meno, ma non perché ritenessi 12 anni schiavo un film poco interessante, anzi. Ma per la violenza che sapevo esserci dentro. Per quella violenza reale e per niente cinematografica. La peggiore. Quella accaduta e ancor oggi troppo ignorata. E a dispetto delle 37 candeline già archiviate, temevo non di riuscire a sopportarne la visione. Alla fine sono andato, ho guardato e sono uscito ammutolito dalla sala 3 del cinema Rossini di Venezia come una sola volta in precedenza mi era accaduto, per Hotel Rwanda (2004, di Terry George).
Salomone Northup (Chiwetel Ejiofor) è un uomo libero. È un rispettato musicista. Ha una moglie e due figli. Vive a Saratoga (NY). Allettato da una proposta di lavoro, cade nell’inganno di due mercanti di schiavi. Da vestiti di sartoria si ritrova in una cella incatenato e trattato peggio di una bestia. Emblematiche le prime orribili bastonate. Danno proprio l’idea della meschinità e dell’odio. Della sottomissione imposta con la forza più vigliaccamente bruta, un uomo armato di pagaia e gatto a nove code contro un uomo legato.
Il negriero colpisce e infierisce finché Solomon non ammetterà di non essere un uomo libero ma uno schiavo fuggitivo di nome Plat. Da angoscia pura l’urlo disperato di Solomon, più che ancora per la sofferenza delle percosse, quando la ripresa sale dalla sua prigionia e lo si vede sepolto nella periferia abbandonata. Nessuno lo può sentire. Nessuno lo può aiutare.
Inizia il viaggio nell’orrore della schiavitù. Dalla compravendita del mercante di schiavi Theophilus Freeman (Paul Giamatti), al primo padrone, il buono William Ford (Benedict Cumberbatch). Ma se con questi s’instaura un rapporto di fiducia e senza frusta, non si può dire lo stesso con il giovane e spietato John Tibeats (Paul Dano), a guardia degli schiavi, che dopo uno scontro con Solomon, arriva quasi a impiccarlo impunemente.
Nonostante quest’ultimo venga salvato in extremis dal custode della piantagione, viene comunque lasciato per punizione al limite della sopravvivenza con la corda strette al collo fino a quando, dopo una giornata intera, non rientra il sig. Ford che si, lo libera ma non se lo vuole nemmeno più tenere. E così “ponzianamente pilato”, lo vende a Edwin Epps (Michael Fassbender), un feroce proprietario terriero “spezza-negri”.
Epps è spietato. Se i suoi schiavi non raccolgono abbastanza cotone o comunque meno del giorno precedente, vengono sistematicamente frustati. Beve. Ogni volta che può abusa sessualmente della schiava Patsey (Lupita Nyong’o). Quando vuole, li fa ballare come scimmie ammaestrate. È però succube della moglie Mary (Sarah Paulson) che ovviamente odia la giovane nera su cui il marito riversa le proprie attenzioni.
E così si arriva alla scena più atroce del film. Se fino a quel punto il mio livello di sensibilità ancora reggeva, tant’è che dentro di me mi ripetevo nella mente (mi aspettavo peggio), tutto ciò svanisce dinnanzi alla spietata fustigazione di Patsey, “colpevole” di essersi recata nella piantagione vicina per avere un misero pezzo di sapone per lavarsi visto che Mary Epps non le dava nemmeno quello.
La signora Epps è crudele oltre ogni limite. Incita il marito con le parole “uccidila di frustate” e lui è talmente vigliacco da ordinare a Solomon di colpirla al suo posto per dargli ancor più soddisfazione. Inizia la tortura. Legata al palo, Patsey urla disperata ma non può scappare. La frusta la ferisce. Le spacca la pelle. Le apre squarci nella schiena. Il sangue raggrumato le gonfia il corpo maciullato. E quando finalmente la foga di Epps si placa e la schiava cade distrutta per terra, una volta medicata con dei tamponi, le sue urla si fanno ancora più lancinanti. Urla di dolore. Urla di rabbia. Urla contro la sua vita così dolorosa. Urla di rassegnazione.
Petsy, frustata a sangue senza pietà. Dovremmo rivederla ogni giorno questa scena. Non per narcotizzarci al dolore, ma perché la prossima volta che ci troveremo dinnanzi a un abuso, quale che sia la sua natura, ci destiamo subito come se avessimo ricevuto noi una frustata su quel palo. La differenza però è che noi possiamo alzarci, ribellarci e combattere. Patsey e migliaia di migliaia di schiavi neri non hanno potuto. Sono stati massacrati senza pietà.
12 anni schiavo prosegue così, fino a quando Solomon non si troverà a lavorare nella piantagione anche con un bianco, Samuel Bass (Brad Pitt). Canadese e contrario alla schiavitù. Sarà lui che, pur timoroso, scriverà per conto di Solomon una lettera che farà si che la verità venga a galla e venga al fine liberato.
“Un film bellissimo, ma ti lascia addosso un senso di angoscia e ansia che è difficile far andare via” racconta Virginia Danese, danzatrice tribal nonché mediatrice culturale con gli immigrati e rifugiati politici “l’interpretazione di Chiwetel Ejiofor è stata davvero notevole. Per la sua emotività e interpretazione era difficile non entrare in empatia con lui. Le musiche e i canti gospel poi, hanno giocato un ruolo importante nel film, creando la giusta atmosfera.
Del tema in sé, che dire? Si capisce come la dignità, la libertà di una persona e il suo poter essere considerato un – essere umano – fossero legati esclusivamente al possesso o meno di un documento. Io sono tuttora paralizzata e senza parole per quanto inconcepibile sia pensare a una razza superiore a un’altra (e al concetto di razza in sé). Nessuno può e deve potersi arrogare il diritto di limitare la libertà di qualcun altro”.
Finisce 12 anni schiavo. Esci dal cinema e provi a riprenderti cercando nel mondo risposte sui progressi dei diritti umani. Ce ne sono stati, si, eppure lo schiavismo è ancora una tragica realtà del mondo. Forse non ci sono più i padroni ai livelli di Epps, eppure la tortura è praticata ovunque. E che cos’è poi un datore di lavoro che può metterti sulla strada in qualsiasi momento? E come si può chiamare vita un’esistenza in cui si ha a stento il tempo di baciare i propri figli la mattina per poi essere inghiottiti dai ritmi lavorativi con sempre meno tutela giuridica?
Steve McQueen ha realizzato un’opera importante. Niente momenti di quiete, risate o ironia alla Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino, anch’esso ambientato nella dimensione dello schiavismo. Due ore abbondanti di angoscia dove speri solamente che Solomon riconquisti la libertà. Già ma gli altri? Salito in carrozza verso la probabile salvezza, guarda Patsey e gli altri. Felice dentro di sé ma morente per lasciare gli altri compagni di prigionia fra gli artigli acuminati di Epps.
Lo schiavismo? C’è e c’è ancora. Non solo. Viene ancora taciuto, nel presente così come nel passato. Lo schiavismo brucia ancora perché non se ne parla abbastanza. Negli Stati Uniti s’intende. E il resto del mondo? Chi la racconta realmente la storia dei neri africani (da cui gli americani discendono) e di come l’illuminista Occidente seppe trattarli, gettando le basi per discriminazione e genocidi tramandati come “colonialismo”?
L’Europa di fine Ottocento ha fatto di più e di peggio. Oltre ad aver massacrato popoli, disegnò l’Africa con squadra e righello, ignorando totalmente tradizioni e culture. E ancora oggi il continente africano paga la ferocia europea mai portata sul banco di un tribunale, ma al contrario versandogli ingenti tributi attraverso volgari e dittatoriali intermediari quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale.
Schiavitù. Ci si vergogna a tal punto della schiavitù che nemmeno la si vorrebbe raccontare. Ma com’è allora che esiste ancora nel terzo millennio? E com’è che il becero razzismo, amalgamato sempre più anche all’odio verso un credo e un orientamento sessuale differente, trova posto persino nei palazzi del potere?
Il dicembre scorso, alcuni richiedenti asilo chiamati “clandestini” sono stati portati nel centro di accoglienza di Lampedusa, e lì messi nudi al gelo per essere sottoposti al trattamento contro la scabbia, e dunque lavati con una pompa. Immagini che sembravano maledettamente degne dello schiavismo. Perché oggi, nel 2014, c’è ancora troppa cultura che parla di “negri”.
Nel film 12 anni schiavo di Steve McQueen la schiava Petsy viene frustata a sangue senza pietà. Riguardiamocela quella scena. Riguardiamocela fino a quando non sopporteremo di vederne neanche un micro-frammento. Allora si, saremo tutti pronti per alzarci, reagire e combattere contro ogni discriminazione e prepotenza. Allora si che saremo pronti per cambiare un mondo che nel 2014 è ancora dolorosamente troppo schiavo.
12 anni schiavo - Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) eTheophilus Freeman (Paul Giamatti) |
12 anni schiavo - Solomon (Chiwetel Ejiofor), W. Ford (Benedict Cumberbatch) e J. Tibeats (Paul Dano) |
12 anni schiavo - Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) |
12 anni schiavo - Mary Epps (Sarah Paulson) ferisce Patsey (Lupita Nyong’o) |
12 anni schiavo - Edwin Epps (Michael Fassbender) e Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) |
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