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sabato 28 febbraio 2015

Cinquanta sfumature di noiose baggianate

Cinquanta sfumature di grigio (2015, di Sam Taylor-Johnson)
Saranno anche 50 le perversioni di Mr. Grey ma in quanto a trama stiamo allo zero assoluto. Cinquanta sfumature di grigio è un film anemico e diseducativo.

di Luca Ferrari

È davvero questo il vostro ideale segreto di uomo? Un bel tenebroso che vi compra per soddisfare i propri “viziucci”? Contente voi. Se il tanto strombazzato Cinquanta sfumature di grigio (2015) è il sogno nascosto delle donne del terzo millennio, auguri mie care, non vorrei essere nel vostri panni. Sedutomi davanti al grande schermo senza alcun pregiudizio, già dopo venti minuti avrei voluto essere altrove. Unica consolazione, l'aver avuto la possibilità di godermi sul grande schermo una delle città che più amo al mondo, la "città smeraldo" Seattle.

Successo o meno, recensioni pessime o gloriose che siano, nulla eccetto i trailer sono in grado di influenzare il mio primo interesse per un film, salvo poi eventualmente ricredermi. Quella cosa che si chiama cervello sono ancora in grado di usarlo. Casi opposti nella mia storia personale. Se non fosse stata per quella manciata di minuti non sarei mai andato a vedere The Avengers, che mi ha sorpreso in positivo. Del tutto diversa l'opinione su Elizabeth – The Golden Age, passato dall'estasi del trailer a una delusione colossale del lungometraggio.

Eccomi dunque al “cospetto” di Cinquanta sfumature di grigio (2015, di Sam Taylor-Johnson). Un momento, ci deve essere un errore. Che abbia sbagliato sala e sia finito alla proiezione de Il diavolo veste Prada? No, perché le similitudini tra la neo-assunta giornalista Andy Sachs (Anne Hathaway) di quest'ultimo e la sostituta-giornalista Anastasia Steele (Dakota Johnson) sono a dir poco imbarazzanti.

E se questo è il modo di cominciare, un già visto goffo-imbarazzato scontro di look tra abiti da (quasi) mercato delle pulci contrapposti all'eleganza fatta donna (Miranda Priestly – Meryl Streep) e uomo (Christian Grey – Jamie Dornan), allora potrei anche uscire subito. Ma vabbeh, diamogli un po' di tempo. Inizio la vicenda. Il bello e impossibile abituato ad avere tutto (non si sa come) sente, in modo molto originale, una folle attrazione per la vergine arrivata davanti al suo cospetto, e lei fin da subito coi bollori già alle stelle.

L'attrazione è da entrambe le parti. Giusto un bacio, poi di fare normalissimo sesso manco a parlarne a meno che... A meno che non si presti a qualche giochetto un po' spinto. Da vero macho imperscrutabile qual è, Christian non ne vuole proprio sapere di sentimenti. Quelli sono per i comuni mortali che a fine mese devono pagare le bollette. Lui scopa poi, non fa l'amore. La ragazza, sessualmente inesperta, vorrebbe e non vorrebbe. Cosa fa allora Christian? La vizia. La compra fino a farla cedere.

Chi è allora che saprebbe "SanFrancescamente" resistere a giri in elicottero, macchine e computer regalati (e basta con la pubblicità “gratuita” alla Apple, sta diventando nauseante ormai)? È questo che piace a voi donne? Ve lo chiedo perché le copie vendute del libro parlano chiaro, comprate soprattutto dal gentil sesso. È dunque questo che volete? Cedere alle lusinghe di un capriccioso miliardario? Ammettiamo anche il fascino, ma comportarsi da oggetto non so quanto sia educativo. E questa critica non la muovo solo al film ma anche al libro (scritto da una donna per la cronaca, la londinese E. L. James).

Cinquanta sfumature di grigio non dice nulla. È sterile. Gioca su di un erotismo che è più egocentrico-egoismo. Cede a delle banalità a dir poco sconfortanti, come le finto malinconiche performance al piano di Mr Grey in stile – nessuno mi può capire, nessuno mi potrà mai amare – dopo aver soddisfatto la propria libido nella “stanza dei giochi”. A metterci ulteriore originalità, la pioggia di fuori. 

Un'ultima considerazione, o meglio un quesito: ma le riviste specializzate ci prendono per il culo? Faccio queste considerazioni da giornalista con oltre 12 anni di esperienza e iscritto all'albo, conscio tuttavia (forse) di una certa ingenuità nello scrivere queste parole. Posso capire ci sia curiosità per la trasposizione di un volume che ha venduto milioni di copie ma prima di versare esaltanti litri d'inchiostro, sarebbe il caso di vedere quanto meno il prodotto e dunque poter dare un giudizio basato sui fatti e non su altro (…).

Il trailer di Cinquanta sfumature di grigio

Cinquanta sfumature di grigio - Anastasia Steele (Dakota Johnson)
Cinquanta sfumature di grigio - Christian Grey (Jamie Dornan)
Cinquanta sfumature di grigio - si entra nella camera dei "giochi"
Cinquanta sfumature di grigio - Anastasia legata nella camera dei "giochi"

giovedì 26 febbraio 2015

Elio Germano a Salvini, Roma non ti vuole

Elio Germano racconta a dei giovani rom una storia molto istruttiva su NOI, emigranti italiani. Lega e Matteo Salvini avvisati: Roma non vi vuole!

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer

Non sono tanti gli attori che scendono in campo per questioni politico-sociali. Elio Germano è uno di quei pochi. Ma trattandosi di dire due paroline a Matteo Salvini, la questione è più che altro “umana”. E il bravissimo attore, ingiustamente non premiato con la Coppa Volpi alla 71° Mostra del Cinema, racconta una storia. Che fiaba poi non è, ma le specifiche parole con cui l'Ispettorato dell'Immigrazione del Congresso degli Stati Uniti descriveva gli Italiani nel 1919, “quando tutti gli italiani emigravano come me e come Salvini” spiega l'attore.

Nella sua variegata carriera Elio Germano è stato "fratello unico" per Daniele Luchetti. Pur avendo Tutta la vita davanti alla fine è svenuto in Virzìane lacrime. Da bravo figlio Folco, ha raccolto gli ultimi ricordi del padre Tiziano Terzani alla fine dei suoi giorni. È stato pestato in modo brutale dalla polizia senza che nessuno pulisse quel sangue mentre cercava di fare il proprio lavoro di giornalista nella scuola Diaz.

E se Michele Placido lo ha reso "l'assaggiatore ufficiale di eroina" della banda della Magliana trale pagine cinematografiche di Romanzo criminale, il collega regista Ferzan Ozpetek gli ha fatto vivere un'esperienza paranormale per far emergere una magnifica presenza. Si è ingobbito infine a tal punto da scrivere poesie malinconiche rendendo il suo Leopardi de Il giovane favoloso un Kurt Cobain dell'Ottocento.

Elio Germano, romano classe '80, ha fatto doppiette di David di Donatello, Nastro d'Argento, Globo d'Oro e Ciak d'Oro. Non ama apparire ma quando lo fa, al di fuori del proprio lavoro, lascia il segno. Come oggi. Alla notizia che la sua Roma sarà invasa dalle orde intolleranti e razziste della Lega Nord, lui non ci sta. È andato in un campo rom della capitale a leggere qualcosa di molto istruttivo. E alla fine, ha pure un messaggio per il leader del Carroccio, Matteo Salvini: tornatene a casa che non te ce volemo!

Elio Germano, il racconto integrale - #MaiConSalvini, Roma non ti vuole!

mercoledì 25 febbraio 2015

Elle Woods, il cuore biondo della sincerità

La rivincita delle bionde - Elle Woods (Reese Whiterspoon)
Sbeffeggiata per la "giulivesca" apparenza, l’onesta e tosta Elle Woods (Reese Whiterspoon) li metterà “legalmente” tutti in riga e sarà La rivincita delle bionde.

di Luca Ferrari

Occhioni da cerbiatta. Logorroica e iperattiva. Reginetta della scuola. Chihuahua da borsetta di nome Tyson. Ricca e soprattutto, bionda. Biondissima. Il suo nome è Elle Woods (Reese Whiterspoon). La high school sta per finire ma qualcosa tra lei e la sua futura vita da sogno si sta per intromettere. Saprà reagire o si nasconderà in un qualche centro massaggi sborsando fior di dollari? Robert Luketic dirige La rivincita delle bionde (Legally Blonde, 2001).

A chi non è capitato di vedersi il mondo capovolto da un momento all'altro? Una bocciatura. Un lavoro perso e ovviamente anche un amore finito all'improvviso. Lo scoprireà anche Elle, piantata di brutto (e di punto in bianco) dall'amato Warner Huntington III (Matthew Davis), quest'ultimo sul punto di trasferirsi ad Harvard e dunque deciso a chiudere con "oche poco intelligenti e troppo bionde". Lui d'altronde vuole far carriera in politica e ha bisogno di una vera First Lady.

Dopo l'inevitabile bagno di lacrime, la fanciulla fa il test di ammissione per Legge nella medesima università del suo ex e vi entra di diritto (lei), decisa a riconquistarlo, oggi fidanzato ufficialmente con la seria Vivian (Selma Blair). Elle è un autentico tornado (profumato) di rosa, derisa da chiunque la incontri a eccezione del buon Emmett Richmond (Luke Wilson) e la nuova amica, l'estetista Paulette Bonafonté (Jennifer Coolidge). Anche i docenti in principio la vedono come una ridicola creatura fuori posto, ma si ricrederanno.

Elle è gentile ma non stupida. E se c'è da tirare fuori i denti e le unghie, non c'è problema. L'importante è poi trovare il tempo di rilassarsi in un bel centro benessere. La piccola Woods è sempre più lanciata ma non è un'opportunista. Non cede alle avance del Professor Callahan (Victor Garber) né vende l'alibi della sua prima assistita, Brooke Taylor Windham (Ali Larter), per fare bella figura e facile carriera. 

Elle sceglie se stessa, senza compromessi. E a laurea ottenuta, l'inizialmente ostile Professoressa Stromwell (Holland Taylor) la introduce per fare il discorso di fine anno. Lei, la pin up bionda Elle Woods, oggi si è appena laureata in legge ad Harvard, e quello che sta per dire rimarrà per sempre nei cuori di tutti:

“Il primo giorno di scuola qui ad Harvard, un professore molto saggio citò Aristotele: la legge è la ragione libera dalla passione. Beh, senza offesa per Aristotele ma nei miei tre anni qui ho scoperto che la passione è uno degli ingredienti principali per lo studio, la pratica della legge e della vita. È con la passione, con il coraggio delle proprie dichiarazioni e con una profonda fiducia in se stessi che si affronta il mondo del lavoro, consapevoli del fatto che le prime impressioni non sempre sono corrette. Occorre avere fiducia nelle persone, e cosa ancor più importante, bisogna credere fortemente in se stessi. Congratulazioni classe 2004. Ce l’abbiamo fatta”.

Il primo giorno ad Harvard di Elle Woods

La rivincita delle bionde - Elle Woods (Reese Whiterspoon) e Vivian (Selma Blair)
La rivincita delle bionde - Elle Woods (Reese Whiterspoon)

martedì 24 febbraio 2015

Oscar 2015, stay different stay Venezia71

la notte degli Oscar 2015
Il film di “apertura veneziana” Birdman trionfa agli Oscar 2015. Dal palco dei vincitori, parole forti e decise di Patricia Arquette e Graham Moore.

di Luca Ferrari

La troppo spesso criticata Mostra del Cinema di Venezia li ha messi tutti in riga, incluso l'arrembante festival di Toronto. Non solo il suo film di apertura Birdman (di Alejandro G. Iñárritu) si è portato a casa quattro premi Oscar (che si vanno a sommare ai due Golden Globes), ma anche il suo presidente di giuria della sezione “concorso”, il compositore francese Alexandre Desplat, ha scritto il proprio nome nell'elenco dei vincitori per la Miglior colonna sonora nel film Grand Budapest Hotel.

“Nelle ultime due edizioni della Mostra del Cinema di Venezia i film di apertura hanno fatto messe di Oscar” ha dichiarato soddisfatto il Presidente della Biennale, Paolo Baratta, “quest’anno Birdman, l'anno scorso Gravity (2013) di Alfonso Cuarón ne aveva ottenute sette (tra cui quella per la miglior regia). Se la più qualificata e dinamica industria cinematografica del mondo affida a Venezia il lancio in prima mondiale di film proiettati verso gli Oscar, a me pare un segno importante del prestigio internazionale di cui gode attualmente la Mostra”.

E così anche l'87° edizione degli Oscar è stata archiviata. La copertina non può che essere per lui, Birdman, e non perché condivide ex equo il maggior numero di statuette vinte per quest'anno, ma perché si è accaparrato alcune delle più importanti: Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura originale e Miglior fotografia. Il collega Grand Budapest Hotel (di Wes Anderson) invece si è “accontentato” degli Academy per i Migliori costumi (all'italiana Milena Canoneri), Migliore scenografia, Miglior trucco e il già citato Desplat.

Si è rotta (finalmente) la maledizione dei premi per The Imitation Game (di Morten Tyldum), adattamento cinematografico della biografia Alan Turing: The Enigma. Dopo la strapazzata subita ai BAFTA (9 nomination, 0 vittorie) e ai Golden Globes (5 nomination, 0 vittorie), agli Oscar è arrivata la statuetta per la Miglior sceneggiatura non originale consegnata a Graham Moore. Sul palco il giovane sceneggiatore di Chicago (classe '81) ha lasciato il segno con parole concise ma toccanti (Stay weird, stay different).

Forti del successo ai Globes, posso presumere che Boyhood (di Richard Linklater)  e La teoria del tutto (di James Marsh) sperassero di uscire dal Dolby Theatre con la pancia più piena. A ogni modo l'Oscar conquistato rispettivamente da Patrica Arquette (applauditissima da Meryl Streel e Jennifer Lopez dopo il suo discorso sulla parità dei diritti delle donne) come Miglior attrice non protagonista ed Eddie Redmayne come Miglior attore protagonista, non sono certo di seconda categoria, anzi. Quasi scontato l'altro premio femminile, andato a Julianne Moore (Still Alice), meno previsto quello consegnato a J. K. Simmons (Whiplash).

Birdman dunque ha vinto come Miglior film. C'erano pellicole che avrebbero meritato di più. A dispetto di un ottimo cast, il film non si discosta troppo dalla versione “attoriale” di The Wrestler (2008, di Darren Aronofski). E guarda a caso entrambi i protagonisti principali (di sicuro più Mickey Rourke di Michael Keaton) erano assenti da un pezzo dalle luci della ribalta e ancor più curioso, entrambi i lungometraggi “hanno scaldato i motori” in laguna.

Così, invece di esaltare un film fine a se stesso sui malesseri di una “povera star” che fa i conti con la superficialità del proprio passato e gli ingranaggi ingolfati del presente, sarebbe stato (forse) più utile "brindare" e riflettere sulla straordinaria figura del fisico Stephen Hawking e ancor di più sul dramma umano di Alan Turing, ghost-saver degli Alleati nella II Guerra Mondiale e “per questo” ricompensato nel modo più barbaro. Un'occasione persa visto e considerato che la discriminazione degli omosessuali è ancora all'ordine del giorno, a Hollywood come ovunque nel mondo.

Oscar 2015, il discorso di Graham Moore

Oscar 2015 - il regista Alejandro G. Iñárritu e Michael Keaton
Oscar 2015 - Meryl Streep, Jennifer Lopez e di spalle Jennifer Aniston

Oscar 2015 (da sx) J.K. Simmons (Miglior attore non protagonista), Patricia Arquette (Miglior attrice
non protagonista), Julianne Moore (Miglior attrice protagonista) ed Eddie Redmayne (Miglior
attore protagonista) © Ciak Magazine
Oscar 2015 - le toccanti parole dello sceneggiatore statunitense, Graham Moore
Arrivederci all'anno prossimo caro sig. Oscar... cheers!

domenica 22 febbraio 2015

La notte degli Oscar 2015

...è arrivata l'ora degli Academy Awards
Questa notte al Dolby Theatre di Los Angeles è di scena l’87° edizione dei premi Oscar, presentati per la prima volta da Neil Patrick Harris.

di Luca Ferrari

Quante statuette si porteranno a casa (se lo faranno) i due film da nove nomination ciascuno, Birdman, open movie alla 71° Mostra del Cinema di Venezia e il fin troppo sopravvalutato Grand Budapest Hotel? Faranno doppietta Globe-Oscar Eddie Redmayne e Julianne Moore? Parleremo dell’ennesimo trionfo di Meryl Streep, candidata come Miglior attrice non protagonista? Per sapere con esattezza i nomi dei vincitori e vinti dell'87° edizione dei premi Oscar, non resta che pazientare ancora qualche ora.

Non si può non cominciare dal Miglior film, unica categoria dove al posto del quintetto di palpabili vincitori c'è un ottetto. A dispetto del suo indubbio valore, le possibilità di vedere trionfare The Imitation Game (di Morten Tyldum) credo siano pari allo zero; il flop ai Globes è un segnale non indifferente, purtroppo. Analoghe chance di non-trionfo per Selma - La strada per la libertà (di Ava DuVernay), in questo caso però sarei il primo a non votarlo.

Sullo stesso piano invece American Sniper (di Clint Eastwood), Birdman (di Alejandro González Iñárritu), Boyhood (di Richard Linklater), Grand Budapest Hotel (di Wes Anderson) e La teoria del tutto (di James Marsh). Se i signori degli Academy però, fossero in vena volerci stupire senza chissà quali effetti speciali, allora potremo assistere al trionfo di Whiplash (di Damien Chazelle).

Molto aperta la partita per il Miglior film straniero con il polacco Ida (di Paweł Pawlikowski), l’estone Mandariinid (di Zaza Urushadze), il russo Leviathan (di Andrej Petrovič Zvjagincev), il mauritano Timbuktu (di Abderrahmane Sissako) e infine l’argentino Storie pazzesche (di Damián Szifrón).

Non mi sento di esaltarmi troppo per la cinquina del Miglior film d’animazione. Tra i titoli in gara auspico la non vittoria del “modaiolo” Dragon Trainer 2 (di Dean DeBlois), sperando al contrario nel successo di Boxtrolls – Le scatole magiche (di Graham Annable e Anthony Stacchi). Completano la griglia dei candidati: Big Hero 6 (di Don Hall e Chris Williams), Song of the Sea (di Tomm Moore) e La storia della principessa splendente (di Isao Takahata).

E visto che siamo in tema “animato” va ricordato che in questa edizione dei premi, verrà assegnato l’Oscar onorario a un personaggio che ha scritto la Storia di questo genere, ossia il regista giapponese Hayao Miyazaki (Il mio vicino Totoro, Principessa Mononoke, Il castello errante di Howl). Lo stesso riconoscimento verrà conferito anche allo sceneggiatore francese Jean-Claude Carrière e l'attrice statunitense Maureen O'Hara. Il Premio umanitario Jean Hersholt invece è stato attribuito al musicista newyorkese-attivista per i diritti civili Harry Belafonte.

Senza nulla voler togliere a Citizenfour (di Laura Poitras), Alla ricerca di Vivian Maier (di John Maloof e Charlie Siskel), Last Days in Vietnam (di Rory Kennedy) e Virunga (di Orlando von Einsiedel), l’Oscar per il Miglior documentario per quanto mi riguarda dovrebbe finire spedito fra le mani di Wilm Wenders e Juliano Ribeiro Salgado per il commovente Il sale della terra, sul fotografo brasiliano Sebastião Salgado.

Su il sipario ora sul “reparto direzione-scrittura”. Per l’impegno e la scelta non certo facile di girare una simile pellicola (Boyhood), sarebbe grandioso che a vincere la statuetta per la Miglior regia fosse Richard Linklater. Altre scelte che troverebbero il mio apprezzamento sono Bennett Miller per Foxcatcher e Morten Tyldum con The Imitation Game. Molto più hollywoodiani invece Alejandro González Iñárritu (Birdman) e Wes Anderson (Grand Budapest Hotel).

In pole position per la Miglior sceneggiatura originale i più che meritevoli Boyhood (Richard Linklater) e Foxcatcher (Dan Futterman e E. Max Frye). Standard il Birdman dei vari Alejandro González Iñárritu, Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris e Armando Bo. Senza troppe chance Dan Gilroy per Nightcrawler. A dir poco inspiegabile Grand Budapest Hotel con un Wes Anderson capace solo ed esclusivamente di clonare se stesso.

Sul fronte della Migliore sceneggiatura non originale poi, spero vivamente che non sia Jason Hall (American Sniper) a trionfare. Se la giocano gli altri quattro candidati: Graham Moore (The Imitation Game), Paul Thomas Anderson (Vizio di forma), Anthony McCarten (La teoria del tutto) e Damien Chazelle (Whiplash).

Veniamo infine agli attori e attrici, dando la precedenza al gentil sesso. Per la dolorosa tematica della pellicola interpretata, sarebbe grandioso se a prendersi la (seconda) statuetta fosse la francese Marion Cotillard (Due giorni, una notte). In lotta per il bis in carriera anche Reese Witherspoon (Wild). A trionfare però, a dispetto della concorrenza di Felicity Jones (La teoria del tutto) e Rosamund Pike (L'amore bugiardo – Gone Girl), credo che sarà la Julianne Moore "malata di Alzheimer" in Still Alice.

Per la cinquina di Migliore attrice non protagonista, attenti alla “depressa” Emma Stone di Birdman e Laura Dern in Wild. A contendersi il prezioso riconoscimento anche Patricia Arquette (Boyhood), Keira Knightley (The Imitation Game) e l’eterna Meryl Streep (Into the Woods). Delle suddette, la più debole appare l’attrice inglese. Una performance quella di Keira che difficilmente passerà alla storia.

Un autentico scontro fra titani l’Oscar per il Miglior attore protagonista. Con la sola eccezione di Bradley Cooper (American Sniper), sarà davvero un lavoro ostico scegliere un vincitore tra Benedict Cumberbatch (The Imitation Game), Eddie Redmayne (La teoria del tutto), Michael Keaton (Birdman) e Steve Carell (Foxcatcher). Per nulla ostile all’ex-Batman Burtoniano, per quanto visto preferirei che la statuetta andasse a uno tra Benedict, Eddie o Steve.

Resta però un mistero (e una vergogna) l'assenza tra i pretendenti allo scettro di Miglior attore del britannico Timothy Spall, grandioso interprete del pittore William Turner nell'omonimo Turner (2014, di Mike Leigh). Analogo discorso per la Pamela Travers di Emma Thompson, fantastica nel dare rigidità e inflessibile malinconia alla scrittrice di Mary Poppins nel commovente Saving Mr. Banks (di John Lee Hancock).

Nella lista del Miglior attore non protagonista figurano invece Edward Norton (Birdman), Ethan Hawke (Boyhood), Mark Ruffalo (Foxcatcher), J. K. Simmons (Whiplash) e Robert Duvall (The Judge). Simmons potrebbe essere la novità, Norton è solo da ammirare così come questo inedito Raffalo. Meno affilata la performance del comunque bravo Hawke.

Tra gli altri premi principali non può non saltare agli occhi la presenza dell'incredibile vicenda umano-spaziale di Interstellar (di Christopher Nolan), candidato a 5 premi Oscar: Miglior scenografia (Nathan Crowley), Miglior colonna sonora (realizzata dal mago Hans Zimmer), Migliori effetti speciali, Miglior sonoro e Miglior montaggio sonoro

Ci vediamo questa notte sulla pagina Facebook cineluk per gli aggiornamenti in tempo reale degli Academy Awards 2015.

il simpatico attore Neil Patrick Harris presenta gli 87° premi Oscar
A fianco di Reese Whiterspoon in Wild c'è Laura Dern
l'ingiustamente assente Timothy Spall, protagonista di Turner
Marion Cotillard, drammatica protagonista in Due giorni una notte
And the Oscar goes to...

giovedì 19 febbraio 2015

Selma, la marcia non graffia

Selma - la marcia sull'Edmund Pettus Bridge
E venne il giorno in cui la minoranza sfidò la dispotica autorità segregazionista. Nella cittadina di Selma, alla guida del corteo c'era Martin Luther King.

di Luca Ferrari

Stati Uniti, anni Sessanta. Gli afroamericani sono cittadini di serie B. Senza diritti. Senza rappresentanza politica. E se osano protestare, i manganelli (e non solo quelli) colpiscono senza pietà. Nel sud della cosiddetta “patria della libertà” svillaneggia pure il Ku Klux Klan, violenta falange di stampo razzista che uccide e impicca i negri senza alcuna conseguenza penale. A cercare di cambiare lo status quo è arrivato un uomo “novo”. Un pastore che predica la nonviolenza. Il suo nome è Martin Luther King.

Selma (2014, di Ava DuVernay). La misura è colma. Martin Luther King (David Oyelowo) è pronto a compiere il grande passo. Una marcia nello stato segregazionista dell'Alabama, da Selma a Montgomery per chiedere, anzi pretendere dal presidente Lyndon Johnson (Tom Wilkinson) una legge federale sui diritti degli afroamericani. Ma lì, ad aspettarli dall'altra parte dell'Edmund Pettus Bridge di Selma c'è la ferocia legalizzata della polizia, ben aizzata dal governatore Wallace (Tim Roth).

King è un uomo con le debolezze di chiunque. Ha molti nemici capaci di far male, Edgar Hoover (Dylan Baker), capo dell'FBI, incluso. Le studiano tutte per sfiancarlo, senza lesinare nemmeno minacce di morte alla sua famiglia. Lui però avanti. Una ariete Gandhiano alla testa di un popolo, degno di morire insieme ai bianchi nel Vietnam ma non meritevole di vivere in pace in patria.

Come tutti i colleghi, anche l'Edmund Pettus Bridge è un elemento di unione o separazione. Struttura architettonica o mentale. Nella storia recente tutti ricordiamo il ponte di Mostar (Stari Most), abbattuto dalla Forze Secessioniste Croate il 9 novembre 1993 nel corso della Guerra dei Balcani. Una dichiarazione mortale di insuperabile divisione con il mondo musulmano. Oggi quel ponte l'UNESCO l'ha ricostruito ma la Bosnia rimane una terra divisa.

E così anche a Selma, dove nel 2015 la gente di colore lo può attraversare senza paura di ritrovarsi legata e appesa a un albero, ma com'è palese dai recenti fatti di cronaca, il nero viene ancora discriminato negli Stati Uniti. Lì, come in Italia, dove al posto del Ku Klux Klan c'è il razzismo opportunista del partito politico della Lega Nord o peggio quello ancor più viscerale e violento di CasaPound.

La storia della segregazione razziale negli Stati Uniti non viene mai affrontata come e soprattutto quanto si dovrebbe. Si passa sopra e per più ragioni. Le più evidenti, il fatto che sia un nervo ancora (parecchio) scoperto e una realtà attuale (sebbene non certo ai livelli di cinquanta anni fa). Non va dimenticata poi la candida facciata che il governo a stelle e strisce vuole sempre ostentare, e guai se qualcuno prova a metterla in discussione.

"Non è con il cinema che si cancellano 400 anni di schiavitù e segregazione" analizza un anonimo e attento cittadino del mondo, "Si possono fare tutti i film del mondo sulla nonviolenza e sui vari leader afroamericani (Malcolm X e ora King) ma finché si continuerà a fare tiro a segno con i - negri – per le strade d'America, ben poco cambierà. Sembra che Hollywood si presti a dare una dignità agli Stati Uniti e quindi a proteggere un paese che di fatto è segregazionista e colonialista, mostrandoli al contrario sempre come i buoni, anche a costo di travisare la realtà.

Se Hollywood vuole porsi come modello educativo, allora farebbe bene a dire la verità una volta per tutte e non pensare solo ai soldi. Ma si sa che da sempre spettacolo e politica vanno a braccetto. Non a caso i regimi autoritari hanno sempre puntato sul cinema (vedi il fascismo, stalinismo e il ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels e la sua passione per il grande schermo). Gli USA partono da una posizione privilegiata perché sanno che il loro cinema è globale. E ne approfittano".

Sono tanti gli spunti che Selma (2014, di Ava DuVernay) offre allo spettatore ma il risultato non è così forte come sarebbe stato lecito aspettarsi. Un altro pianeta rispetto al collega di filone 12 anni schiavo (2013, di Steve McQueen). A mancare a Selma infatti è proprio la bruta crudeltà di un sistema che uccideva senza pietà. E se per le coronarie degli spettatori più sensibili ciò è stata un'inaspettata sorpresa, resta la delusione di una mancata opportunità di osare nel nome dei diritti, di Martin Luther King e delle troppe vittime di colore.

Il trailer di Selma

Selma - Martin Luther King (David Oyelowo)
Selma - Lyndon Johnson (Tom Wilkinson) e Martin Luther King (David Oyelowo)
Selma - la marcia dalla cittadina di Selma a Montgomery

sabato 14 febbraio 2015

Gli esseri umani sono il sale della terra

Il sale della terra - foto di Sebastiao Salgado
L'uomo sente il mondo. Si batte per esso. Lo racconta. Wim Wenders documenta il fotografo brasiliano Sebastião Salgado, Il sale della terra (2014).

di Luca Ferrari

“Sono stato lontano/, ho visto il mondo soccombere ma questa è solo una mia personale opinione/... ho raccolto uno zaino con le loro promesse rinunciando a intervallare quelle menzogne/... quando la corrente mi chiese se avessi voluto un passaggio, la guardai disinvolto imparando a farmi rispettare anche dal silenzio” l.f. Docufilm di una vita dentro il viaggio. Il fotografo brasiliano Sebastião Salgado si racconta al regista Wim Wenders, è Il sale della terra (2014).

Un ragazzino come tanti diventa uomo. Si ritrova solo in una grande città. Incontra una donna e si sposa. Sono entrambi attivisti politici di sinistra. In epoca di brutale dittatura abbandonano il Brasile riparando a Parigi. Sebastiao Salgado è un giovane economista lanciato verso una sicura e pacifica carriera. Tutto cambia quando la moglie Lélia torna un giorno a casa con una macchina fotografica. Quell'oggetto cambierà la vita di entrambi per sempre.

Ha inizio il viaggio. Un lungo viaggio. Da quel momento Sebastiao è sempre stato in movimento. Non solo fisicamente. Superati i primi esordi, l'uomo va incontro all'uomo. Calpesta la sua terra. Ne condivide il fango. Quando realtà come “Medici senza frontiere” sono note a una esigua minoranza del mondo, lui è già lì, insieme a loro. Per raccontare il dramma della siccità etiope.

Come tutti i veri fotografi Salgado rischia anche sulla sua pelle. Giorno dopo giorno, scatto dopo scatto, la sua anima imbeve tutto il dolore che riesce a testimoniare su pellicola. Il tanto decantato Dopoguerra non è affatto un'epoca di pace e prosperità. È ancora una latrina piena di crudeltà e abusi dove i singoli perdono ogni giorno sempre più diritti e speranza. Le lamiere dell'orrore accecano l'essere vivente, rendendolo schiavo della droga passeggera.

“siamo tutti soli, e su questo vorrei poter essere smentito/... mi sono nascosto dentro un igloo a contare le farfalle di cui non ho mai provato a imparare nemmeno il nome/... mi fermo e gli alberi mi assecondano, questo non succede mai al di qua della tastiera... ho visto il mondo inghiottire mani senza lasciare al suo sguardo il diritto di tramandare almeno un gesto di pace...” l.f

Dalla fame di ricchezza nelle miniere brasiliane, passando per i campi profughi africani fino alle nascoste tribù amazzoniche, Sebastiao Salgado è sempre lì. Spostandosi nel panorama glaciale della Siberia e inseguendo le teorie Darwiniane in Oceania. L'opera di Wenders mostra anche il Salgado familiare, talmente legato al natio Brasile da investire tempo e danaro per ridare vita a una terra ormai prossima alla morte. Quella in cui è cresciuto. E poi donarla all'umanità.

Non capita tutti i giorni di poter vedere sul grande schermo le fotografie di Sebastiao Salgado. Wim Wenders ha voluto farci questo regalo. Sebbene più a suo agio dall'altra parte dell'obiettivo, il protagonista non parla alla telecamera. Comunica in modo naturale. Senza tanti artifici social-SEO arriva diretto al cuore dello spettatore, rimanendo in costante top list “SERPiana” dell'anima di ciascuno.

Dalle sofferenze dell'uomo alla bellezza del mondo naturale. Due facce della stessa medaglia. “il gigante qua non sono io, e non è neanche assolutamente come lo avevo immaginato/... non vedo liane con cui accorciare il mio cammino/, sento un richiamo che non tutti i miei sbagli sarebbero in grado di confondere/... voi non lo sapete, ma io mi sono appena allontanato... adesso però, vorreste proseguire il cammino insieme?” l.f

Ecco, vedi Il sale della terra e non puoi non cominciare a riflettere. Pensare a quello che dovrebbe essere la tua vita. Pensare a quello che conta davvero. Facendo sempre più pulizia di meschinità e sfruttamenti. Ecco, vedi Il sale della terra e ti senti chiamato in tutti i punti cardinali e puoi solo rispondere con speranza e azione. Ecco, vedi Il sale della terra e tutto il mondo ti sembra familiare nella sua diversità. Ecco, vedi Il sale della terra (2014, di Wim Wenders) e pensi che quando esalerai il tuo ultimo respiro, un nuovo arcobaleno darà un bacio al mondo per te.

Il trailer de Il sale della terra

Il sale della terra - foto di Sebastiao Salgado
Il sale della terra - il fotografo Sebastiao Salgado
Il sale della terra - foto di Sebastiao Salgado
Il sale della terra - foto di Sebastiao Salgado
Il sale della terra - il fotografo Sebastiao Salgado

mercoledì 11 febbraio 2015

Birdman, un supereroe di troppo

Birdman - Riggan Thompson (Michael Keaton)
Un attore da block-buster sulla via del tramonto cerca un difficile rilancio nel mondo teatrale. Un cast eccellente per il film di apertura di Venezia 71, Birdman.

di Luca Ferrari

Il bel tempo che fu ormai non c’è più. Ma più che bello si dovrebbe dire “della celebrità”. È quanto accade a Riggan Thompson (Michael Keaton), protagonista negli anni Novanta del supereroe alato Birdman, e ora a un passo dalla fine. Senza più un soldo e lanciatosi in una difficile carriera teatrale. La sua ultima chance di gloria è ormai relegata a uno spettacolo di Broadway.

Ad aggiungere complicazioni alla già pesante situazione, ci si mette l’arrivo del co-protagonista Mike Shiner (Edward Norton), la figlia uscita dalla disintossicazione Sam (Emma Stone) e Laura (Andrea Riseborough), anch’essa nello show, sua compagna da due anni e con buone probabilità di essere incinta.

Riggan convive da tempo con una voce, quella di Birdman, che senza peli sulla lingua lo stimola di continuo a riprendere la strada della fama superficiale, tralasciando la recitazione per un pubblico ricercato. Come se la vita non fosse già abbastanza dura, sulla sua strada c’è l’implacabile giornalista del Times,Tabitha Dickinson (Lindsay Duncan), decisa a stroncare lo spettacolo ancor prima di vederlo per il semplice fatto che “lei non è un attore, è una celebrità”. Dalla parte del protagonista, solo l’amico e produttore, Jake (Zack Gallinakis).

È il terzo millennio dove un filmato su Youtube virale vale più di mille pubblicità. A dispetto del suo odio per blogger e social network, lo scoprirà anche Riggan quando, causa banalissimo incidente, sarà costretto a correre in mezzo alla folla in mutande per ritornare in scena durante la prima dello spettacolo,

Scena ovviamente che sarà ripresa dagli smartphone dei vari passanti e puntualmente postata. Cambia la tecnologia ma non il motto in quel di Hollywood: “Non importa se si parla bene o male, l’importante è che se ne parli”. Lo diceva anche il morente Bela Lugosi al peggior regista del mondo Ed Wood (1994), in quella che fu la prima collaborazione Burton/Depp.

Ma non c’è solo lo show da portare avanti. Prima di andare in scena ci sono le vicende umane. Un padre (Riggan) che cerca di (ri)costruire il rapporto con la figlia. Un uomo (Mike) capace di essere sincero (e non stronzo) solo sul palcoscenico, erezioni sessuali incluse dalle quali nella vita normale è ormai avulso. Due donne (Laura e Lesley) che si confidano le proprie delusioni sentimentali arrivando a baciarsi, deluse e amareggiate dalla superficialità dei rispettivi partner.

Film di apertura della 71° Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia, la pellicola ha ricevuto subito un convinto applauso alla proiezione inaugurale della stampa. A svettare su tutti, i siparietti tra il redivivo Keaton e Norton, quest’ultimo (quasi) sempre garanzia di qualità. Un cast corale abilmente orchestrato e dove New York non è che uno scorcio di case e grattacieli da una terrazza.

Un film, Birdman (2014, di Alejandro González Iñárritu) che non è solo uno spunto per tutti quei folli inseguitori delle luci della ribalta. Vale anche per i comuni esseri umani. Che dobbiamo fare? Cedere alla nostra foga interiore di volare sopra la massa sentendoci come divinità dai superpoteri oppure confrontarci con le difficoltà delle relazione umane e comprendere che la migliore delle recensioni possibili che potremo ottenere sarà l’affetto e l’onestà delle persone a noi vicine?

Un finale per nulla scontato. Birdman, un viaggio tra realtà, fantastico e metafora. Arriva un giorno in cui tutti avremo le luci puntate addosso. Puntate da noi stessi e dovremo allora capire se rifugiarci in surreali scorciatoie in attesa che il mondo intero si accorga di noi, oppure se decideremo di volare verso un nuovo capitolo della realtà. Comportandoci così come un vero supereroe.

Il trailer di Birdman

Birdman - Mike (Edward Norton) e Sam (Emma Stone)

mercoledì 4 febbraio 2015

Il nome del figlio, odissea nell'oblio

Il nome del figlio - Claudio (Rocco Papaleo) e Simona (Micaela Ramazzotti)
Il massacro relazionale italiano è servito a cena tra frustrazioni, segreti e rabbiose verità. Il nome del figlio (2015), gran burattinaia cerimoniale Francesca Archibugi.

di Luca Ferrari

Una serata come tante tra quattro vecchi amici e l'ultima arrivata si trasforma in un afoso nugolo di rancori e segreti rivelati, lasciando libero e rabbioso campo a inevitabili pensieri-preconcetti che da prassi non vengono mai sbattuti volgarmente in faccia al diretto/a interessato/a. Soffiano Idee(ologie) differenti, ma non abbastanza separatiste per cedere all'oblio collettivo o quanto meno alla propria onestà umana. Uno scherzo a oltranza ed ecco che l'apparente quiete borghese si fa più utopica di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Tratto dalla piece teatrale Le Prénom di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, Francesca Archibugi dirige Il nome del figlio (2015).

Fragile e incurante delle più tragiche conseguenze del proprio operato, l'uomo è ciò che dice e costruisce. Il silenzio rimbomba come l'eco mortale di quelle tangenti intascate per risparmiare sulla solidità degli argini fino all'esondazione dei fiumi, e con tutto ciò che ne consegue. Per l'essere umano non c'è via di mezzo tra l'ipocrisia e la rabbia urlata. Non esiste confronto senza scontro emorragico. Nella quotidianità intellettual-borghese de Il nome del figlio va in scena il più tipico massacro italiano

Paolo Pontecorvo (Alessandro Gassmann) lavora nel campo immobiliare. È sposato con Simona (Micaela Ramazzotti) e stanno per avere un figlio. Quest'ultima, molto sempliciotta e provinciale, ha appena pubblicato un libro dal notevole successo commerciale. La coppia è attesa a cena da Betta (Valeria Golino), sorella di Paolo, e il marito Sandro (Luigi Lo Cascio), professore universitario sinistrorso e implacabile twittatore. A chiudere il quintetto dei commensali, il musicista Claudio (Rocco Papaleo), amico storico dei Pontecorvo & family.

Dai sorrisi politicamente corretti si passa ai diti puntati ed ecco gl'infeltriti maglioni da buon salotto  ergersi su piedistalli da cui s(e)parare ciò che è buono e ciò che è sbagliato.  Dentro di sé ognuno ha il proprio dirimpettaio verso cui sfogare le proprie frustrazioni. E pazienza se l'altro sarà ferito, l'importante è dimostrare di avere ragione (Sandro), continuare a ridere sotto i baffi (Paolo), mantenere una posizione di arbitro (Claudio) o peggio, accettare passivamente tutto questo con un'area di mancata beatitudine (Betta), per far si che nessuno accenda qualche riflettore lì dove non si dovrebbe.

Betta e Simona sono agli antipodi. Donna piangente la prima, capace solo di lanciare frecciate all'ormai frigido marito ma allo stesso tempo pronta a colpire senza pietà chiunque metta in discussione il suo inesistente (e sofferente) rapporto con la madre. Simona, invece a dispetto delle sigarette aspirate senza sosta in gravidanza, è molto più materna di quanto la sua apparenza non possa far pensare. Perfetto anello di congiunzione tra le zone d'ombra e la verità di un futuro che potrebbe essere migliore se solo i protagonisti ci provassero davvero. 

Nello scorrere de Il nome del figlio non c'è tempo per le riflessioni né per capire. Nel cinema come nella vita si punta al lieto fine sommando palafitte su fondamenta su palafitte senza badare ai troppi cimiteri. Fiero della propria ideologia, Sandro passa in un attimo sul piano personale, sminuendo e aggredendo Simona per poi riavvicinarsi con un minimo abbraccio e un tiepido chiedere scusa senza riflettere sulle proprie azioni. Troppo poco. Oggi è stato Il nome del figlio (2015, di Francesca Archibugi), domani sarà di certo qualcosa d'altro. È anche così che nel mondo non cambia mai nulla. 

Il trailer de Il nome del figlio

Il nome del figlio - Paolo (Alessandro Gassman) e Sandro (Luigi Lo Cascio)
Il nome del figlio - Simona (Micaela Ramazzotti) e Betta (Valeria Golino)
Il nome del figlio - Betta (Valeria Golino) e Sandro (Luigi Lo Cascio)
Il nome del figlio - Paolo (Alessandro Gassman)