Woman in Gold - Maria Altman (Helen Mirren) e l'avvocato Schoenberg (Ryan Reynolds) |
di Luca Ferrari
“Devo tenere duro, non permetterò che mi umilino di nuovo” sussurra Maria Altmann (Helen Mirren). Scampata al Nazismo da giovane, oggi è una felice cittadina degli Stati Uniti. I demoni del proprio passato però vanno affrontati prima o poi e il suo ha le fattezze dell'amata zia Adele, ritratta da Gustav Klimt nel celeberrimo dipinto Ritratto di Adele Bloch-Bauer, detenuto a Vienna. Per Maria è tempo di riprendersi quella Woman in Gold (2015, di Simon Curtis).
Maria nasce a Vienna nel 1916. Vive insieme alla sua famiglia e i due zii. La sua placida vita però viene ferocemente interrotta dalla brutalità antisemita del nazismo. Un'onda disumana di orrore che travolge anche l'Austria, annessa alla Germania Hitleriana il 13 marzo 1938 durante il cosiddetto Anschluss. Una triste parata della svastica salutata dagli austriaci con lancio di fiori.
Per tutti gli ebrei d'Austria ha inizio un incubo. La giovane Maria (Tatiana Maslany) e il marito Fritz (Max Irons) scelgono la via della fuga destinazione finale Stati Uniti. Sono passati 60 anni da allora e in seguito alla morte della sorella, la donna scopre che l'Austria (in teoria) sta cominciando un'opera di restituzione delle opere sottratte dai nazisti alle famiglie ebree.
Senza chissà quali mezzi economici la sig.ra Altman decide di chiedere un consulto al giovane e non troppo esperto avvocato Randy Schoenberg (Ryan Reynolds), un amico di famiglia, nonché austriaco anch'esso di stirpe; il nonno infatti è il celeberrimo compositore. I due compiono un primo viaggio a Vienna dove capiranno che la presunta restituzione è in realtà solo un gesto per riabilitarsi agli occhi del mondo. Ad appoggiarli nella loro battaglia, il navigato giornalista Hubertus Czernin (Daniel Brühl).
Dal giorno della fuga in epoca nazista, Maria non è più tornata in Austria. Certo, il mondo è cambiato ma dentro di lei è ancora vivido il ricordo di quell'epoca di sofferenza quando fu costretta ad abbandonare tutto e tutti, a cominciare dai suoi cari e la sua casa. Maria non è più una giovinetta però sceglie di affrontare i propri demoni, quelli della peggiore specie. Quelli che sarebbe meglio lasciare nel passato. Non per lei.
Nell'anno in cui la follia dell'Isis ha cominciato a guadagnare i titoli dei giornali per le brutali azioni di morte e di cancellazione dell'arte umana, è sbarcato sul grande schermo un primo grande film sui furti artistici da parte di un esercito invasore: Monuments Men (2014, di George Clooney), con un gruppo di yankee decisi a ridare al mondo ciò che Hitler voleva tutto per sé.
Simon Curtis invece si concentrato su di un unico dipinto da cui il nome del film, la Woman in Gold di Klimt. Una storia avvincente con un Reynolds perfettamente a suo agio nel sentiero della risoluta "impacciatezza" e un Daniel Brühl (Bastardi senza gloria, Il quinto potere, Rush) sempre più sinonimo di composta qualità. Ottimi anche i comprimari Jonathan Pryce nei panni del giudice della Corte Suprema Rehnquist, e Charles Dance, il capo di Randy.
E poi ovviamente c'è lei, Helen The Queen Mirren. Come ha scritto anche la collega giornalista Alessandra De Luca sul mensile Ciak, “le battute pungenti e gli affilati dialoghi affidati alla Mirren valgono la spesa del biglietto”. Aggiungerei che in più di un'occasione, in particolar modo quando l'arroganza negazionista viennese le si mette d'intralcio, si scorge nei suoi occhi tratti d'una furia di REDiana memoria.
Maria Altmann barcolla. È decisa. Cade. S'impunta. Lei come molti altri ha subito una gravissima ingiustizia e adesso vuole giustizia. La pretende. E lo dovrà accettare anche l'ostile Dreimann (Justus von Dohnányi), deciso a tutto pur di non far volare i Klimt oltreoceano. Tutti nella vita arriviamo a un momento in cui non si può più stare in silenzio. Bisogna guardare il nemico diritto negli occhi e avanzare. Avanzare, e avanzare ancora finché il lupo non diventerà un innocuo agnellino e il mondo potrà trarre nuova ispirazione da queste gesta.
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