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venerdì 17 marzo 2017

Il diritto di contare contro ogni discriminazione

Il diritto di contare - (da sx) Dorothy (Octavia Spencer), Katherine (Taraji P. Henson) e Mary (Janelle Monáe)
Nel mezzo della corsa per la conquista dello spazio, la segregazione razziale negli Stati Uniti era ancora una tragica e quotidiana realtà. Il diritto di contare (2016, di Theodore Melfi).

di Luca Ferrari

I bagni separati per colore della pelle. Una seconda e più piccola caffettiera collocata (di nascosto) appositamente affinché certa gente non sporcasse le tazze dei bianchi. Scuole accessibili solo a una razza. La legge che giustificava la segregazione razziale. No, non siamo nel Medioevo o in uno di quei paesi tanto invisi all'attuale inquilino della Casa Bianca, questa era “banalmente” l'America degli anni '60. Ed è in quel mondo che tre coraggiose donne fecero la storia, lasciando il segno fin sullo spazio. Il diritto di contare (2016, di Theodore Melfi).

Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe) sono tre brillanti matematiche nella Virginia segregazionista, operanti nell'area della NASA. A dispetto delle indubbie capacità, in quanto negre, non hanno (ovviamente) accesso alle posizioni che gli spetterebbero. L'ascesa però di Yuri Gagarin nei cieli del Pianeta Terra spinge gli USA a una folle corsa contro il tempo per rispondere a dovere e conquistare la Luna, badando meno alle catene.

Katherine era una bambina prodigio ma non ha potuto accedere a quel mondo che i suoi coetanei più “pallidi” al contrario hanno potuto beneficiare. Adesso però le cose stanno cambiando. A dispetto dell'astiosità razzista di Vivian Mitchell (Kirsten Dunst), la donna viene mandata a lavorare nella centrale operativa di Al Harrison (Kevin Costner), dove si studia come mandare il primo astronauta americano a fare un'orbita completa attorno alla Terra e così pareggiare il conto con l'Impero del Male.

Lì dentro, in quel grandissimo ufficio ci sono uomini e una donna, tutti bianchi. Katherine è stata chiamata perché sa fare i conti come nessuno ma se la strada per le stelle è tortuosa e complicata, nulla a che vedere con i preconcetti e il becero razzismo di cui è vittima anche solo negli sguardi dei suoi colleghi, primo fra tutti il giovane Paul Stafford (Jim BigBang Parsons), braccio destro di Harrison.

Katherine sopporta e resiste, ma alla fine esplode. Accusata di assenteismo dal capo in persona, grida esausta tutta la fatica di ogni giorno anche solo per andare alla toilette poiché quella dei negri è parecchio lontana. Il tappo salta. Katherine alza la voce. Non vuole nessun trattamento speciale, semplicemente vuole gli stessi diritti. Com'è possibile che in quella che viene spacciata la più grande democrazia del mondo la gente di colore subisca una simile discriminazione?

Anni '60. Il mondo degli Stati Uniti era in fermento. Alla Casa Bianca si era insediato il democratico John Kennedy. I diritti civili sono nell'agenda presidenziale ma la strada sarà ancora lunga e imbrattata di sangue. Martin Luther King così come molti attivisti dei diritti civili saranno eliminati, vedi anche il violento episodio nella contea di Neshoba poi raccontato da Alan Parker nel drammatico e grandioso Mississippi Burning – Le radici dell'odio (1987).

Il razzismo di allora così come quello moderno viene ridimensionato. Lo si confina nelle ideologie di una minoranza inoffensiva ma non è così. Ancora oggi, in alcuni stati dell'America del Nord, la drammatica piaga culturale del razzismo è tragicamente in forma smagliante. Film come 12 anni schiavo (2013, di Steve McQueen), The Butler (2013 di Lee Daniels), Selma (2014, di Ava DuVernay) fino al più recente Loving (2016, di Jeff Nichols), parlano tutti la stessa lingua. Quella della segregazione.

Il mondo cinema potrà anche ispirare e guadagnare le prime pagine per qualche giorno con le dichiarazioni dei suoi interpreti ma è il pensiero di una minoranza, non priva di contraddizioni. Agli Oscar 2016 fu polemica per l'assenza di candidati di colore, quest'anno, quasi sembrasse una sorta di ricompensa, c'è stato boom di nomination e premi vinti tra cui Miglior film e miglior sceneggiatura non originale (Moonlight), Miglior attore non protagonista (Mahershala Ali Moonlight, questi presente anche nel film in recensione) e Miglior attrice non protagonista (Viola DavisBarriere).

Lo stesso Il diritto di contare ha ricevuto tre nomination per il Miglior film, la Miglior attrice non protagonista (Octavia Spencer) e la Migliore sceneggiatura non originale (Theodore Melfi e Allison Schroeder). Ma più che la Spencer, sempre troppo confinata in certi ruoli, è stato assurdo non vedere nella cinquina della Miglior attrice protagonista Taraji P. Henson, personaggio ben più fuori dalle righe e priva di quella venatura di vittima-rabbiosa che al contrario contraddistingue troppo la sua collega.

Uscito nel giorno della festa della donna, mercoledì 8 marzo, il Circuito Cinema di Venezia ha prolungato la permanenza Il diritto di contare (2016, di Theodore Melfi) nella sala più grande (A) del Giorgione fino a mercoledì 22 marzo (escluso martedì 21) con la chicca della versione in lingua originale sottotitolata in italiana (orario spettacoli 16,30/19/ 21,30). Una ragione in più per entrare in sala e scoprire come tre donne ebbero la caparbietà e le capacità per sovvertire un ordine prestabilito.

Basato su una storia vera, Il diritto di contare spinge un po' sull'acceleratore della finzione sul fronte della discriminazione. Non che non ci fosse in quegli anni, anzi (era molto peggio), semplicemente all'interno della NASA non era così rigida come il regista faccia vedere sul grande schermo. La scena però di Al-Kevin Costner con accetta di mano (non svelo per cosa se non spoilero) fa bene al morale. Si davvero bene. Distribuito in Italia dalla 20th Century Fox, il titolo originale è Hidden Figures, molto più azzeccato della versione italiana.

Saranno in molti (spero) ad andare a vedere Il diritto di contare (2016, di Theodore Melfi) e di sicuro in mezzo al pubblico ci saranno anche persone che applaudiranno queste coraggiose donne salvo poi schifare "i loro negri personali" che oggi in Italia e in Europa sono gli immigrati, i cosiddetti clandestini, etc. Il cinema fa il suo dovere, le politiche e i movimenti civili molto meno, nascondendosi dietro proclami e manifestazioni i cui risultati sono lo zero assoluto.

Dalla Francia all'Olanda (al momento respinto), passando per Serbia, Ungheria e la nobile Italia, si sta cercando in tutti i modi di alzare i muri perché alla fine il solo razzismo da biasimare è quello degli altri. Oggi i negri emarginati affollano le periferie e le scuole. Forse qualcuno riuscirà a emergere ma dovendo sopportare quanto e soprattutto, perché? È la domanda che più mi angoscia: perché? Perché?

È sufficiente un credo religioso, un'ideologia politica, il colore della pelle o ancor più tristemente, un'appartenenza culturale-nazionale per discriminare e umiliare un essere umano? Si, è sempre stato così e lo è tutt'ora, tanto nell'Europa illuminista così come nel resto del mondo, Medio Oriente e Stati Uniti inclusi  Oggi chi accusa di essere nazista ha in seno leggi che proibiscono di parlare di genocidio pena il carcere, e questo come lo vogliamo chiamare?

La storia non cambia perché il sistema di sfruttamento è lo stesso. Troppo facile sorridere per l'happy end delle tre matematiche afroamericane quando nel terzo millennio sono solo cambiati i volti degli ultimi e degli emarginati. Il diritto di contare (2016, di Theodore Melfi) è una pietra che dovrebbe colpire al cuore, la mente e le mani. Potremmo poi lasciare sanguinare il nostro corpo oppure sanarlo e schierarci al fianco di chi adesso non è in grado di difendersi. Possiamo unirci alla massa o reagire e cambiare il mondo per sempre.

Il trailer de Il diritto di contare

Il diritto di contare - Paul (Jim Parsons), Katherine (Taraji P. Henson) e Harrison (Kevin Costner)
Il diritto di contare - Katherine Johnson (Taraji P. Henson) in azione

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