La pazza gioia - Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti) |
di Luca Ferrari
Tumulto. Silenzio. Dolore. Egoismo. Ricerca. Carezze. Abbandono. Finzione. Calore. Beatrice e Donatella sono compagne di stanza nella comunità terapeutica di Villa Biondi. Non c’è nulla che le accomuni a parte un’anima ferita. C’è chi la nasconde e chi ne è vittima. Le troppe albe sospese del mondo attendono di proseguire il cammino. La vita, quella lì, oggi non è ancora una voluminosa dichiarazione d’indipendenza. Bisogna uscire dagli schemi. Per alcune creature il ricominciare a vivere è qualcosa che non tutti potranno davvero capire. Candidato a 10 Nastri d'argento, Paolo Virzì dirige La pazza gioia (2016).
Nel verde della campagna toscana donne affette da variegati disturbi mentali e/o socialmente pericolose cercano il proprio equilibrio. Voce fuori dal coro, l’invadente e logorroica Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), condannata a più riprese per truffe. Parla sempre lei. È instabile e ancora convinta di essere chissà quale nobildonna. È spocchiosa e saccente. All’arrivo della nuova paziente, Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), subito l’avvicina travolgendola di aneddoti personali.
Beatrice è un fiume in piena. È ossessiva. Spara-giudizi. Si crede meglio degli altri, o comunque di tutti i presenti. Non prende nemmeno in considerazione la lontanissima possibilità di aver sbagliato qualcosa. Donatella al contrario parla quasi a monosillabi. È stranita. Ha cicatrici sulle braccia. Quando c’è da lavorare nell’orto, lo fa in modo egregio a differenza della sua neo-compagna di stanza che da sotto l’ombrellino da gran dama dispensa l’ennesima lezione su cosa e come si fa.
Ed è proprio di ritorno da una queste incursioni agresti che causa il ritardo del pulmino della Villa, Beatrice con sottobraccio Donatella abbandona il gruppo e s’invola verso il primo autobus in arrivo, destinazione capolinea, libertà, pazza gioia o chissà cos’altro ancora. Le due donne iniziano così davvero a conoscersi ma sarebbe riduttivo parlare di mera conoscenza. Se Beatrice è alla ricerca del benessere perduto, Donatella ha un solo e unico grande desiderio: rivedere il proprio figliolo dato in adozione e chissà, magari ricominciare anche a stare bene.
La pazza gioia non è ciò che ci si potrebbe aspettare. Thelma & Louise (1991, di Ridley Scott)? Ragazze interrotte (1999, di James Mangold)? Lasciate perdere, la sola cosa in comune tra La pazza gioia (2016, di Paolo Virzì) e le due celeberrime pellicole americane è il sesso delle due principali protagoniste. Più similitudini semmai con il “maschile” 4 pazzi in libertà (1989, di Howard Zieff con Michael Keaton e Christopher Lloyd), dove gli instabili fuggiaschi sono decisi “in un modo o nell’altro” a rimettere qualche casella a posto, a cominciare (magari) dalle rispettive feli-identità.
Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2016 nella sezione "Quinzaine des Réalisateur", La pazza gioia è molto più complesso e semplice di quanto possa far apparire il trailer. Paolo Virzì (Ovosodo, Tutta la vita davanti, Il capitale umano) non si limita a dirigere due bravissime attrici e a cospargerle di comprimari. Ogni elemento ha il proprio posto. Caotico ed armonioso. È un'orchestra. La vita nella casa di cura. I riti cattolici come parte del lento scandire temporale. Il personale diviso tra gli accoglienti Fiamma Zappa (Valentina Carnelutti), psicologa, e il direttore della struttura Giorgio Lorenzini (Tommaso Ragno), opposti al più rigido Torregiani (Sergio Albelli). La folla della movida toscana. Le dinamiche familiari delle due protagoniste. I dialoghi. I sassi lenitivi scagliati(si) contro-addosso.
Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2016 nella sezione "Quinzaine des Réalisateur", La pazza gioia è molto più complesso e semplice di quanto possa far apparire il trailer. Paolo Virzì (Ovosodo, Tutta la vita davanti, Il capitale umano) non si limita a dirigere due bravissime attrici e a cospargerle di comprimari. Ogni elemento ha il proprio posto. Caotico ed armonioso. È un'orchestra. La vita nella casa di cura. I riti cattolici come parte del lento scandire temporale. Il personale diviso tra gli accoglienti Fiamma Zappa (Valentina Carnelutti), psicologa, e il direttore della struttura Giorgio Lorenzini (Tommaso Ragno), opposti al più rigido Torregiani (Sergio Albelli). La folla della movida toscana. Le dinamiche familiari delle due protagoniste. I dialoghi. I sassi lenitivi scagliati(si) contro-addosso.
Mi capita spesso di prestare attenzione se il film che sto vedendo, e soprattutto che recensirò, sia stato riconosciuto “d’interesse culturale nazionale”. La pazza gioia è stato ritenuto tale, scelta che condivido e si spiega facilmente viste le numerose tematiche umane affrontate. L'esatto contrario del tanto decantato Lo chiamavano Jeeg Robot, follemente pluri-premiato ai David di Donatello 2016, e il cui unico contributo è quello di aver dimostrato quanto l'Italia sia ancora succube dei trend d'oltreoceano spacciandoli poi per chissà quale originalità del Bel paese.
Valeria Bruni Tedeschi (Baciami ancora, Viva la libertà, Il condominio dei cuori infranti) è “meravigliosamente” odiosa nel suo essere sopra le righe. Il ritratto del suo personaggio che ne offre la madre (Marisa Borini) è una folata d’aria fresca nella dirompente e cafonesca afa che impone. Il mondo dice qualcosa ma lei accetta solo ciò che vuol sentire. I suoi lunghi capelli secchi soffocano lo spettatore facendogli desiderare (implorare) che stia un po' zitta.
Micaela Ramazzotti (La prima cosa bella, Il nome del figlio, Ho ucciso Napoleone) al contrario è un cucciolo smarrito. Smagrita. Sfregiata. Ha un cuore che va protetto. Ha un amore che il mondo gli deve riconoscere. Ha un cuore che devono aiutare a far continuare a battere, ma allo stesso tempo "si deve aiutare da sé", come gli dice babbo Floriano (Marco Messeri), un tempo pianista di Gino Paoli e ora oberato dai debiti e costretto a serate revival per sbarcare debolmente il lunario.
Ogni film visto è sempre un’esperienza a se stante. La pazza gioia (2016, di Paolo Virzì) rappresenta una di quelle rare esperienze capaci di andare oltre il facile entusiasmo recensivo, toccando tasti interiori le cui coperte bruciacchiate talvolta si fa fatica a rimuovere per paura di non sentire più un certo tipo di contatto comunque protettivo. Non c’è corsa liberatoria. Non c’è rivincita degli ultimi in La pazza gioia. C’è un'intensa storia umana.
Ogni film vis(su)to ha la propria finestra nel mondo reale, la propria identificazione. La pazza gioia (2016, di Paolo Virzì) per me resterà sempre le lacrime sincere di una giovane donna nella sala veneziana del cinema Giorgione in una stramba giornata primaverile contesa tra nubi, raggi di sole e improvvisi scrosci di pioggia. Un essere umano carico e allo stesso tempo espressione di ogni sfaccettatura della vita alla cui immortalità delle sue commosse emozioni auguro di vivere oggi e per sempre un po’ di sana (la) pazza gioia.
Una clip de La pazza gioia
La pazza gioia - Donatella (Micaela Ramazzotti) e Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) |
La pazza gioia - Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti) |
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