La grande bellezza - Ramona (Sabrina Ferilli) |
Vi vedo tutti. Vi vedete così. C’è il catalizzatore di attenzione. Ci sono gli eserciti di falliti che hanno bisogno di vendersi e mostrare. C’è la scelta estrema di chi ha deciso di non aver bisogno di nulla. Ci sono le costanti bandiere bianche. La grande bellezza (2013, di Paolo Sorrentino).
La morte colpisce quieta ma il sole continua a splendere e comunque c’è qualcosa da festeggiare. Si agitano tutti con sfrenato-composto asservimento. Ognuno con lo spazio che gli altri concedono. E solo pochi si possono permettere un riposante piatto di pasta e fagioli in compagnia di un amico, prendendosi il lusso di dormire in un vero letto.
Sorrentino (Le conseguenze dell'amore, Il Divo, This Must Be the Place) scava sopra lo spazio. Le intangibili gallerie dell’esclusività conducono all’ideale di un qualcosa per primo criticabile. Non c’è morale. Non c’è vera esistenza. Anche una corsa dal sapore domenicale si trasforma in un registratore dilatato a cui infondere la propria corroborante insicurezza di volgare rigetto.
Sorrentino (Le conseguenze dell'amore, Il Divo, This Must Be the Place) scava sopra lo spazio. Le intangibili gallerie dell’esclusività conducono all’ideale di un qualcosa per primo criticabile. Non c’è morale. Non c’è vera esistenza. Anche una corsa dal sapore domenicale si trasforma in un registratore dilatato a cui infondere la propria corroborante insicurezza di volgare rigetto.
E se Sabrina Ferilli (per una volta) accetta di essere una forma differente dalla Trastevere popolana, Serena Grandi gioca un po’ troppo con il proprio decadente (…) presente mentre Carlo Verdone è "Buyanamente" incollato all’eterna malinconia, e lì rimane. Emblema di quella Roma, Italia, Europa, Globo che cambia lasciando il campo. Ma non ci sarà nulla che virerà in meglio. E nessuno alza il muro della propria vera opinione. E nessuno scaccia la conveniente neutralità dal proprio aspetto.
L’uomo Jep (Toni Servillo) inizia ogni giorno a scrivere un diario ma arriva al massimo alla seconda pagina. Poi il teatro chiama, e i cliché chiedono spazio. Si fanno bruciare dalla luce riflessa e l’urlo scomposto dell’ennesimo alcolico trenino goliardicamente deragliato diventa il solo testamento che ciascuno si riserva di lasciare in eredità al mondo. Credendo che interessi poi a qualcuno. Non interessa a nessuno.
E mentre l’America cinematografica non smette di viziarci con supereroi improbabili (L’uomo d’acciaio), un po’ troppo pirateschi per essere realistici nativi (The Lone Ranger) o fascinosi salvatori da pandemie mondiali (World War Z), anche quell’Italia con meno confini, pur lanciandosi con alianti, paracaduti e costumi di regia, resta sempre lì. A sbirciare dalla serratura di una vita capace solo di produrre inquietanti rimpianti, buoni al massimo per qualche biografia collegialmente autorizzata.
L’utopia di una grande bellezza indottrina a scogli acuminati dove la lingua sbaciucchia semplicemente quello che non c’è. E non c’è. E non c’è. E la sola bellezza di cui qualcuno trova il tempo di godere è un’eredità che non si merita. Ci osserva giudicando il tutto inopportuno.
Troppo poco. Troppo molto.
La grande bellezza - Jep Gambardella (Toni Servillo) |
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