Frankenweenie (2013, di Tim Burton) |
di Luca Ferrari
La musica rock come il cinema e la scienza. Non c’è differenza quando a farlo si è da soli nella propria camera o soffitta che sia, e al massimo si sorride per un affettuoso amico a quattro zampe. Ma che succederebbe se questi d'improvviso venisse a mancare? Tim Burton porta sul grande schermo la favola realizzata durante la sua giovinezza. Animazione dark della buonanotte, Frankenweenie, all’epoca (1984) bocciata dalla società per cui lavorava, la Disney, e oggi (2012) da lei stessa prodotta e distribuita nel più maturo (?) XXI secolo.
Il regista pone sotto gli occhi degli spettatori l’incubo con cui molti bambini, presto o tardi, si devono confrontare. La perdita del proprio animaletto domestico. Che sia un criceto, un canarino o un micio, il dolore è il medesimo. Rivolevo solo il mio cane, dice candidamente ai genitori il buon Victor, novello dott. Frankenstein, dopo aver riportato in vita l’amato Sparky.
Tim Burton è ancora visceralmente affezionato al suo mondo di teenager inquieto. In questo suo vecchio-nuovo film, le influenze del suo Beetlejuice (1988) schizzano fuori di continuo. Apice di ciò, l’orribile fusione del gatto bianco con un pipistrello morto nel cui ghigno si rivede il suddetto “dio esorcista” in versione rettile.
Dalla celebre corsa al mulino per abbattere il mostro sovrumano ai nomi e cognomi degli stessi protagonisti poi, ci sono continui riferimenti alla più celebre letteratura dark. Ma ancora una volta, a prendere la testa del filo conduttore è il diverso con annesse etichette appioppategli dalla massa.
E se per le giovani generazioni sarà più difficile proseguire per le impervie strade fuori dal gregge, a rivendicare e sostenere la forza delle proprie idee (e logica) è Mr. Rzykruski (Martin Landau), professore di scienze, scacciato per i suoi metodi d'insegnamento, e senza colpo ferire accusare poi la comunità di bigottismo e ignoranza.
Dura la vita dei coniugi Frankenstein, alle prese con un figlio isolato che passa tutto il suo tempo libero dietro esperimenti invece di socializzare con gli altri all'aria aperta. Ma se il papà Ben (voce originale di Martin Short) cerca la strada del compromesso, proponendo all'introverso Viktor di andare a giocare a baseball con i compagni di scuola in cambio del permesso per partecipare al concorso scolastico di scienze, mamma Susan (Catherine O'Hara) sembra più indulgente. Almeno in apparenza.
La preoccupazione emerge sul suo delicato volto della donna ma è insita la capacità di sapere che toccherà all'amato figliolo uscire dal bozzo e cercare la propria strada perché forzarlo a far parte di qualcosa che non gli appartiene, non porterà che infelicità a tutti. E forse, il vero lieto fine di Tim Burton non è il miracolo (scontato) di Frankenweenie, è il sogno di ogni ragazzino non in linea con i dettami del gregge lì fuori.
Il grande sogno di Tim Burton è quello della comprensione di ciò che ciascuno ha di meno appariscente dentro e fuori di sé. Lo tramanda ancora. Perché per ogni Victor Frankenstein (Charlie Tahan) c’è una Elsa Van Helsing (Winona Ryder) da incontrare, che sa come non indietreggiare dinnanzi alle nostre non-parole.
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