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martedì 30 dicembre 2014

Walt Disney, "Si fidi di me sig.ra Travers..."

Saving Mr. Banks - Walt Disney (Tom Hanks)
Dove la ragione non arriva, ci pensa il cuore a scavare nell'anima tormentata dell'essere umano. Così accadde tra Walt Disney e Pamela Travers.

di Luca Ferrari

Voce calda, quasi misericordiosa, in stato di sentimentale avanzamento. Lui, Walt Disney. Schiena diritta, incuneata all'indietro in stile chi va là, pronta all'ennesima difesa della propria maschera. Lei, Pamela Travers. Lui si rivolge a lei. Nessuna supplica. Nessuna nuova proposta. Solo un racconto sulla vita. Della propria vita. Un segmento in comune per entrambi, destinazione la realtà di futuro migliore. Più gioioso. Più ispirante per chiunque di qui in avanti.

A cinquant'anni dallo sbarco sul grande schermo di Mary Poppins (1964, di Robert Stevenson con Julie Andrews e Dick Van Dyke), il regista-sceneggiatore John Lee Hancock ha voluto raccontare quel "dietro le quinte" (Saving Mr. Banks, 2014) che vide il magnetico Walt Disney inseguire la scrittrice Pamela L. Travers per ottenere i diritti a girare la sopracitata pellicola, trasposizione dall'omonima opera letteraria.

Ricevuto l'ennesimo e definitivo rifiuto dell'acida scrittrice, Walt capisce che deve scavare di più per comprendere cosa si celi dietro tutta questa rigidità. Non ci pensa due volte e vola fino a Londra, così, quando si trova nell'appartamento della sig.ra Travers, non è più un produttore né un uomo d'affari che sta parlando ma solo un uomo con il suo carico di vita e dolori. Un amico sincero e comprensivo che le parla con il cuore aperto. Un cuore sofferente quanto quello di lei, ma deciso (lui) d andare avanti nella vita senza restare nella melma del passato.

Una scena piena di calore dove le parole di “Walt Hanks” non possono non commuovere, riuscendo a far breccia perfino nell'impenetrabile scorza di “Emma Travers” (datele l'Oscar), con ben più di un rossore attorno e dentro le sue pupille di figlia diventata adulta troppo presto. Quasi un  monologo. Un'arringa d'amore, per Mary Poppins e la vita...

“Non sono i bambini che viene a salvare, ma il padre. Suo padre. Travers Goff. Deve averlo amato e ammirato molto per prendere il suo nome. È per lui che fatto tutto questo, vero?” dice a cuore aperto Walt Disney (Tom Hanks) a Pamela Travers (Emma Thompson), “Il perdono sig.ra Travers, io l’ho imparato dai suoi libri. La dia a me, sig.ra Travers. Mi affidi la sua preziosa Mary Poppins. Non la deluderò. Giuro che ogni persona che entrerà in un cinema vedrà che George Banks verrà salvato. Tutti ameranno lui e i suoi bambini.

Si torceranno le mani quando perderà il lavoro. Piangeranno per i suoi affanni. E quando farà volare quell’aquilone, tutti canteranno. Gioiranno. Per le generazioni a venire George Banks sarà ben voluto. George Banks sarà per sempre riabilitato. George Banks e tutto ciò che rappresenta, salvato. Certo, forse non nella vita ma nell’immaginazione. Perché è questo che facciamo noi narratori. Ristabiliamo l’ordine con l’immaginazione. Infondiamo speranza senza sosta, ancora e ancora. Si fidi di me sig.ra Travers. Mi metta alla prova”.

Saving Mr. Banks - Pamela Travers (Emma Thompson)

venerdì 12 dicembre 2014

La magi(c)a di Woody Allen in the Moonlight

Magic in the Moonlight - Sophie (Emma Stone) e Stanley (Colin Firth)
Una storia pungente. Una sceneggiatura affiatata. Nessuno spot di città. La magia di Woody Allen risplende alla luce di un Firth-Stoniano chiaro di luna.

di Luca Ferrari

Lui è un cinico ateo materialista che crede solo ed esclusivamente nella logica. Lei una medium dai poteri a prova di mago scopri-bufale. Sullo sfondo appena tratteggiato della Costa Azzurra, il pluri-premio Oscar Woody Allen dirige una commedia capace di esaltare in pieno le doti dei due protagonisti, Colin Firth ed Emma Stone. Magic in the Moonlight (2014).

Francia, anni '20. Stanley Crawford (Colin Firth) è un illusionista di fama mondiale. Quando è sul palco però, è truccato in modo irriconoscibile da cinese con il nome d'arte di Wei Ling Soo. Sega le persone in due. Fa sparire gli elefanti sotto gli occhi estasiati del pubblico. Sa fare di più. Ha un debole per i ciarlatani. Coloro che si spacciano per dialogatori con l'aldilà. Li smaschera sempre. Adesso però c'è qualcuno che nemmeno l'amico-collega Howard (Simon McBurney) è stato in grado di cogliere in castagna. Il suo nome è Sophie Baker (Emma Stone). La sfida è lanciata.

Teatro dello scontro, la lussuosissima tenuta degli Catledge dove scorrazza l'ingenua vedova Grace (Jacki Weaver), in balia di Sophie e la madre manager (Marcia Gay Harden), mentre il figliolo Brice (Hamish Linklater) è del tutto perso per la bella e affascinante sensitiva, disposto a ricoprirla di ricchezza, una proposta di matrimonio e perfino finanziare una fondazione per gli studi sul paranormale. Di certo se c'è qualcosa di losco, è arrivato l'uomo giusto per far cessare il subdolo spettacolo. 

Pochi attori con un viso apparentemente innocuo e imbambolato come Colin Firth sono capaci di grande interpretazioni (l'Oscar nel Il discorso del re è solo uno dei tanti esempi) e allo stesso tempo duettare con attrici del calibro di Cameron Diaz, Renèe Zellweger, Emily Blunt fino all'attuale partner di grande schermo Emma Stone. Sono lontani i tempi in cui l'arrogante calzamaglia di Lord Wessex lo faceva disgustare agli occhi (e al cuore) della bella Viola De Lesseps (Gwyneth Paltrow), in love with Shakespeare. Oggi il protagonista, romantico quando serve, è lui.

Nell'ultima fatica Alleniana poi la simbiosi col nevrotico regista newyrokese  è a dir poco totale. Sembra di sentirlo parlare Woody nelle sue altezzose conversazioni. Stanley è sprezzante e invulnerabile nella sua personalità. Ha inamovibili certezze. La sola capace in qualche modo di intenerirlo è l'amata zia Vanessa (Eileen Atkins), la donna che lo ha cresciuto. Adesso però c'è una “femmina” che sta suscitando la sua curiosità ben oltre il solido e scientifico sentimento provato e contraccambiato per l'attuale fidanzata.

Sophie va oltre l'umana comprensione di Stanley. Sono troppe le informazioni che la giovane è in grado di far emergere senza alcuna apparente informazione, ma basandosi solo ed esclusivamente su vibrazioni dell'inconscio sempre azzeccate. E il mago alla fine capitola. Chiama perfino la stampa per farla conoscere, facendo mea culpa sulle sue sballate convinzioni. Almeno così sembra.

Woody non sbaglia più. Dopo il non troppo convincente Midnight in Paris (2011) e l'insignificante To Rome with Love (2012), era tornato a farsi  davvero sentire con Blue Jasmine (2013), fornendo così a Cate Blanchett il personaggio con cui vincere la seconda statuetta agli Academy. Ora è il turno di una sfida emotivo-verbale tra due attori agli antipodi culturalmente e anagraficamente. Colin, inglese classe '60. Emma, statunitense classe '88. La differenza di età però svanisce dinnanzi a ciò cui la vita non ha ancora preparato nessuno. Questa è la magia. Dell'esistenza e del cinema. E se fosse lo stesso? Per Woody Allen lo è.


Magic in the Moonlight -
da sx, Stanley (Colin Firth), zia Vanessa (Eileen Atkins) e Howard (Simon McBurney)
Magic in the Moonlight - mamma Baker (Marcia Gay Harden) e Sophie (Emma Stone)
Magic in the Moonlight - Sophie (Emma Stone)
Magic in the Moonlight - Stanley (Colin Firth) e Sophie (Emma Stone)

giovedì 20 novembre 2014

Interstellar siamo noi

Interstellar - Murph (Jessica Chastain)
Christopher Nolan porta sul grande schermo il realismo della fantascienza teorizzata dal fisico Kip Thorne. Un’odissea Interstellar(e) con grandi protagonisti.

di Luca Ferrari

Devo ancora riprendermi. Faccio fatica a digerirlo. Insolitamente ai miei trend cinematografici che poco hanno a che sbavare con la fantascienza, mi sono infilato in una sala buia per assistere alla visione di Interstellar. Gusto momentaneo a parte, non era una scelta particolarmente entusiasmante per il sottoscritto. Del film se ne parlava troppo. Di Christopher Nolan si scrive a ripetizione, e in più le due 2,45 h. di visione non mi facevano impazzire di gioia. Risultato? Nemmeno un secondo di smarrimento o di occhi cadenti. Un viaggio interstellare tanto realistico quando inimmaginabile.

Dimenticatevi (per un po’) di Stanley Kubrick e la sua celeberrima Odissea. Cancellate dalla vostra memoria Gravity (2013, di Alfonso Cuarón)) e i tanti viaggi spaziali fin troppo improbabili. La Terra è in difficoltà, ma non siamo ai livelli cannibali di The Road (2009, di John Hillcoat). La sola speranza sarebbe abbandonarla trovando un altro mondo abitabile, ma tutti sanno che nella nostra Galassia non vi è un altro pianeta con le condizioni di vita terrestre. Come si fa allora? Qualcosa in effetti si potrebbe fare, ma è molto, molto lontano.

Senza che il resto del pianeta ne sia al corrente vi sono già state missioni verso nuovi mondi. A guidare l'ultima c'è Cooper (Matthew McConaughey), padre vedovo di due figli, oggi agricoltore per ragioni di sopravvivenza ma ex-pilota della NASA. Il caso (almeno così sembra) lo conduce a bussare alla porta dei suoi ex-datori di lavoro, scoprendo qualcosa di inimmaginabile. Dalle parti di Saturno c’è un buco nero attraverso il quale è possibile raggiungere mondi abitabili. Già altri valorosi astronauti si sono spinti fin laggiù. Realizzatore del progetto, il suo mentore, il professor Brand (Michael Caine).

Pur con le lacrime rabbiose della figlia Murph (Mackenzie Foy), vuole e deve partire. Qualcosa o qualcuno sembra averlo scelto per quest’ultima missione, anche se una strana forza di gravità scrive sul quaderno della piccola di restare. Lui però va. Al suo fianco, la figlia di Brand stesso, la biologa Amelia (Anne Hathaway), due scienziati e due robot. Ha inizio un viaggio a più dimensioni, dove un’ora vissuta in uno di quei pianeti equivale a sette anni terrestri.

Cooper non è un eroe. Accetta la missione poiché convinto che senza di lui la Terra non avrebbe nemmeno una possibilità. È preparato a stare solo e affrontare l'ignoto, ma quando si ritrova la figlia ormai cresciuta (Jessica Chastain) che gli lascia un video-messaggio, e praticamente sua coetanea, la tensione del suo viso si scioglie in lacrime più coinvolgenti di qualsiasi esasperato e futile 3D.

“Era da un bel po' di tempo che non andavo al cinema e in principio questo titolo mi era sfuggito. O meglio avevo deciso di non spendere 7,5 euro” commenta sincero il veneziano Andrea Venerando, “Poi però la polemica che si era sollevata sulla lunghezza del film, sulle inesattezze, etc. unita a una sana dose di curiosità (ammetto che adoro i film catastrofici-catastrofisti) mi hanno spinto a entrare in sala. Tre ore dopo di film senza interruzioni e con il collo che me le farà pagare tutte, posso dire di essere rimasto angosciosamente soddisfatto.

È stato impossibile non restare incollati alla poltroncina senza perdere nemmeno un secondo. Insomma, soldi ben spesi. Film ben fatto e finalmente realistico. Per la prima volta (non la seconda dopo Gravity) le esplosioni nello spazio sono state magnificamente silenziose. Le polemiche sulle, chiamiamole “licenze poetiche” del regista, sono del tutto immotivate. Signori, è un film e non un documentario di fisica quantistica. Una volta tanto è l'uomo la causa della sua rovina, non degli strani omini verdi ma allo stesso tempo è l'uomo (speriamo anche nella realtà) l'artefice del proprio destino”. 

Oltre a un grande cast nel quale figurano anche Matt Damon (Dr. Mann), Casey Affleck (Tom cresciuto) e John Lithgow (Donald, il suocero di Cooper), il grande merito di Nolan è aver tenuto una storia così lunga senza facili effetti suspense, mostrando uomini e donne privi di qualsiasi corazza cinico-Marvelliana, ma animati al contrario anche nel cosmo più lontano dagli stessi egoismi e legittimi sentimentalismi.

Interstellar colpisce. Fa riflettere in un modo diverso. Non ha morale. Non usa escamotage per farci credere che se ci sapremo prendere tutti per mano, qualcosa cambierà e non saremo risucchiati nel vortice dell'auto-distruzione. C'è qualcosa di più profondo. Di più possibile.C'è qualcosa di universalmente nostro che ci appartiene oltre ogni confine.

Guarda il trailer di Interstellar

Interstellar - Murph (Mackenzie Foy) e Cooper (Matthew McConaughey)
Interstellar - Cooper (Matthew McConaughey)
Interstellar - Amelia (Anne Hathaway)

venerdì 14 novembre 2014

Jerry Maguire, chi viene con noi?

Jerry Maguire (Tom Cruise)
Lealtà? Rispetto? Cuore? Ma dove! Il mondo del lavoro è sempre più spietato e i romantici alla Jerry Maguire finiscono disoccupati o brutalmente sfruttati.

di Luca Ferrari

Il mondo del lavoro italiano è allo sfascio. Le aziende o qualsiasi altro ipotetico erogatore d'impiego pretendono sempre di più, dando in cambio meno del meno. Ferie, sanità, maternità. Tutte noie cui si deve per forza abdicare, altrimenti quella è la porta. E se qualcuno poi provasse a metterci un po' di calore umano, neanche a parlarne. È il debole del branco e si fa fuori. A metà anni Novanta accadeva tutto ciò anche al procuratore sportivo Jerry Maguire. La sua però era una storia (1996) by Cameron Crowe, con un trionfante lieto fine.

Jerry Maguire (Tom Cruise) è un uomo di successo. Vive per il lavoro. È sprezzante, lanciato e cosa peggiore, tratta i propri rappresentati come introiti a due gambe. Non gli bastano mai. Ne vuole sempre di più. All'ennesimo trauma cranico di un suo giocatore di football però, il figlio di questi lo prende a mal parole e qualcosa nella sua coscienza ha la meglio. Si mette al computer unicamente dettato dai propri sentimenti.

“Ho cominciato a scrivere quella che chiamano una relazione programmatica” dice Jerry nella sua svolta interiore che lo segnerà per sempre, “A un tratto ero di nuovo Maguire. Ho scritto e scritto e scritto e scritto. E non sono mai stato nemmeno uno scrittore. Ricordai perfino le parole del più grande procuratore sportivo, il mio mentore, il grande e compianto Dicky Fox che diceva – il segreto di questo mestiere sono i rapporti, i rapporti personali –.

È la sua fine professionale. Un suicidio stampato e consegnato a tutti i colleghi. Licenziato dal suo delfino, il viscido Bob Sugar (Jay Mohr) che gli da il benservito nel modo più vigliacco possibile, invitandolo a pranzo in un ristorante. Maguire rimane solo. Torna in ufficio chiedendo ai colleghi di seguirlo, per iniziare un nuovo corso. Ispirata dalle sue parole, solo la giovane vedova Dorothy (Renée Zellweger) accetta, pur mettendo a repentaglio il proprio futuro e quello del giovane figlioletto Ray (Jonathan Lipnicki).

Tutti i giocatori lo scaricano, anche i fedelissimi. Preferendogli la sicurezza della sua ormai ex-agenzia. Tutti meno uno, il sottovalutato Rod Tidwell (Cuba Gooding Jr.), giocatore di football dal carattere un po' difficile ma di gran cuore. Jerry deve risalire su di un treno che lo ha scaraventato fuori in malo modo, e per cosa? Perché si è dimostrato umano. Perché ha provato a rivedere le sue posizioni pensando al rispetto oltre che al proprio conto in banca.

Per quanti ne ho letti e ne sto leggendo, potrei scrivere un libro sugli annunci di lavoro. La quasi totalità di essi si propongono sempre allo stesso modo: chiedono una quantità infinita di competenze e mansioni da svolgere senza specificare mai la retribuzione che con tutta probabilità, se ci sarà, non sarà all'altezza dell'impegno preso. E se per caso si avesse l'ardore di non gettarsi subito tra le loro fauci chiedendo qualche legittima spiegazione, la risposta è inesistente.

Si va avanti così allora, in un'Italia seviziata brutalmente da una crescita che non c'è (per il 2015 Moody's ha previsto un margine tra –0,5 e +0,5 per cento), inflazione ben lontana dalla soglia di sicurezza, disoccupazione in costante aumento e pure il settore degli inoccupati sguazza con numeri allarmanti. Lo sfruttamento non produce benessere, sa solo alimentare il bacino della povertà. Ormai la legge imperante è quella del prelevare goccia dopo goccia tutta l'energia dei dipendenti. Ormai la legge imperante è sfruttare e sfruttare ancora, fino a che ciascuno di noi “non sarà visto esangue, cadere in terra a coprire il suo sangue”.

Oggi ancora una volta il Governo non ascolta i Sindacati, e questi sanno solo scendere in piazza. Nessun dialogo. Ognuno prosegue senza costruire nulla. Lì nel mezzo, a non sapere più cosa fare, ci sono milioni e milioni di cittadini. Pedine  sacrificabili di un mondo senza più eroi né autentiche folle rivoluzionarie. Jerry Maguire va per la sua strada. Il suo isolamento diventerà la sua forza. Lui ce la farà. Allo stremo, ma ce la farà. La maggior parte degli emarginati al di qua dello schermo, proprio no.

Disgusto. Frustrazione. Speranza? No, ormai è morta anche quella.

Ritorno al mero cinema per un'ultima chicca d’autore.  Da gran cultore della scena rock anni ‘90 di Seattle qual è Cameron Crowe, vedi i film Singles – l'amore è un gioco (1992), Pearl Jam Twenty (2011) fino all’ultimo La mia vita è uno zoo (2011) dove irrompe l'immortale “Hunger Strike” dei Temple of the Dog, anche in Jerry Maguire (1996) il regista ha voluto omaggiare quel mondo con un piccolo frammento in versione recitativa. A consegnare al protagonista infatti la sua rivoluzionaria relazione programmatica appena stampata, c’è Jerry Cantrell, chitarrista-seconda voce degli Alice in Chains, in versione profetica come ha specificato IMDB nel cast completo, Jesus of CopyMat, che gli dice “È così che si diventa grandi amico, con le palle appese a un filo”. 

Chi verrebbe con noi oggi, Jerry Maguire?

Jerry Maguire - il musicista Jerry Cantrell in versione "profetica"

Jerry Maguire - Dorothy (Renée Zellweger
Jerry Maguire - Rod Tidwell (Cuba Gooding Jr.)
Jerry Maguire - Jesus of CopyMat (Jerry Cantrell)
Jerry Maguire (Tom Cruise)

venerdì 7 novembre 2014

Trainspotting, io cambierò

Trainspotting - Mark Renton (Ewan McGregor)
Demoni, riscossa e memoria. Non capita tutti i giorni di rivedersi un film rimasto nel passato da diciott'anni. A me è appena accaduto, con Trainspotting (1996).

di Luca Ferrari

Una nebbia spietata ad attendermi fuori dalla sala cinematografica. Lì dentro era stata appena consumata la visione di una delle pellicole più chiacchierate del momento, Trainspotting (1996 di Danny Boyle), basato sull'omonima novella di Irvine Welsh, con protagonista quel Ewan McGregor che negli anni successivi si sarebbe sempre più imposto come attore versatile e capace. Il film fu un pugno nello stomaco. Scene crude. Siringhe in vena. Tragedie. Astinenza. Qualcosa che non può non colpirti se hai 19 anni e il mondo lì fuori non è che un gigantesco essere carnivoro travestito da punto di domanda incancrenito.

Ci sono film che guardi e riguardi fino a ricordarti ogni singola battuta. Ci sono film di cui vuoi sempre più assaporare i dialoghi, arrivando a saperli realmente a memoria. Ci sono poi film che come si suol dire - una volta basta e avanza -. Vuoi per i ricordi, vuoi per il tema, vuoi per ragioni personali. Trainspotting è stato uno di questi fino a mercoledì 5 novembre 2014, quando ne ho semplicemente riassaporato l'intera visione.

Per rivedere un film come Trainspotting devi accettare che si accenderà una lotta dentro di te. Rivedere Trainspotting per la prima volta dopo quell'unica visione nell'autunno del '96 significa piazzarsi volontariamente davanti ai cocci di uno specchio, rischiando di cadere dopo qualsiasi espressione. Eppure lo fai, accendi il computer come se fosse l’azione più naturale del mondo.

Scozia, anni Novanta. Un gruppetto di amici portano avanti un’esistenza scandita (a seconda) da eccessi di droghe e alcol. Mark (Ewan McGregor), Spud (Ewen Bremner), Sick Boy (Jonny Lee Miller), il violento Begbie (Robert Carlyle) e l'inizialmente pulito Tommy (Kevin McKidd). Nessuno lavora o quasi. Furtarelli, assegno di disoccupazione e ogni volta che hanno qualche sterlina in tasca (Begbie e Tommy a parte), finiscono tutti nelle tasche del loro spacciatore di fiducia, Swanney (Peter Mullan), detto anche Madre Superiore.

Droga, droga e ancora droga. La morte di un neonato figlio di un’amica tossicomane è la quasi goccia che fa traboccare il vaso e dopo l’ennesima pera con annessa dolorosa riabilitazione, Mark decide di rompere col passato. Abbandona la natia Scozia e ricomincia una nuova vita a Londra. Lavorando. Pagando le tasse. Conducendo una vita sana. I colori vivaci della City pre-Blairiana sono una ventata d’aria fresca rispetto al grigiore scozzese appesantito da colazioni inenarrabili, e dove la sola e unica via d’uscita per l’uomo sembra sia quella di non cercare alcuna via d’uscita. La nuova frontiera inglese tiene il passo fino all’arrivo di Begbie, a cui segue Sick Boy. E coi vecchi amici tornano anche i vizi di un tempo. C’è allora bisogna di qualcosa di definitivo per svoltare sul serio, e cambiare.

Sono passati quasi vent'anni da allora, dalla storia di Trainspotting. Sarà davvero cambiato Mark? Avrà messo la testa a posto come diceva nello speranzoso finale, sottolineando di non vedere l’ora di cominciare questa nuova esistenza? Avrà davvero scelto la famiglia, il lavoro, “il maxi televisore del cazzo”, la lavatrice, la buona salute, il colesterolo basso, la polizza vita, il mutuo, la prima casa, la moda casual, le valigie, i figli, l’orario d’ufficio, i tanti maglioni, la pensione privata e l’esenzione fiscale?

Trainspotting, storia di sbandati dove uno solo alla fine riesce a uscire dal gregge marcio scegliendo il sole. Trainspotting, storia di spietata tossicodipendenza dove l’unica vittima adulta soccombe per amore, sprofondando nella dipendenza più letale dopo essere stato mollato dalla propria ragazza.

Qualche scena esilarante in Trainspotting, ma c’era e c’è ben poco da ridere. Il film uscì in un’epoca in cui molto stava cambiando. La musica erede degli anni Sessanta per coscienza sociale e impegno politico era ormai stata soppiantata da una superficialità disarmante (proseguita imperterrita nel terzo millennio), il tutto condito dai rave party dello sballo più chimico.

Il mondo però va avanti. Tutto cambia. Lo ripete a Mark anche la giovane Diane (Kelly Macdonald). Quella affermazione andrebbe rivista. Quasi tutto non cambia. Forse quel poco di buono che c’è nel mondo ci riesce, il resto soccombe ai propri limiti. Affogando nella gommosità del proprio stridente rossore. Lasciando incautamente solitario un mondo dove il dolore chiede solo una pausa dai pregiudizi.

Trainspotting - Marc sceglie la vita

Trainspotting - Mark (Ewan McGregor) e Madre Superiore (Peter Mullan)
Trainspotting - Mark (Ewan McGregor) si fa di eroina
Trainspotting - la giovane Diane (Kelly Macdonald)
Trainspotting - Begbie (Robert Carlyle), Sick Boy (Jonny Lee Miller) e Mark  (Ewan McGregor)

lunedì 27 ottobre 2014

E alla fine arriva Karate Kid

How I Met Your Mother - Lily (Alyson Hannigan), Ralph Macchio e Barney (Neil Patrick Harris)
Al suo catastrofico addio al celibato Barney incontra il suo idolo di sempre, il protagonista del cult anni ’80, Karate Kid. Almeno così sembra...

di Luca Ferrari

Cosa ci si può inventare per sorprendere qualcuno abituato a vivere al massimo e fare di ogni serata qualcosa di leggendario? È quello che si chiedono preoccupati Ted (Josh Radnor) e Marshall (Jason Siegel), decisi a far vivere un addio al celibato senza precedenti all’amico Barney (Neil Patrick Harris). In loro soccorso però scende in campo la futura sposa Robin (Cobie Smulders), capace di mettere su una messinscena a dir poco... LEGGENDARIA.

È ormai finita la sitcom How I Met Your Mother (in principio tradotta con un letterale E alla fine arriva mamma). Tra guest star sparse in tutta la serie, nel 22° episodio dell’VIII stagione, "L'addio al celibato" (The Bro Mitzvah), fece il suo trionfale ingresso (nel ruolo di se stesso) il protagonista del cult "eighties", Karate Kid (1984, di John C. Avildsen).

Fin dalle prime puntate però, Barney aveva sempre manifestato la sua profonda ammirazione per i cosiddetti “cattivi” della cinematografia. Non faceva  eccezione nemmeno la sopracitata pellicola, anzi. Per lui il solo grande e vero Karate Kid non era il giovane eroe Daniel LaRusso (Ralph Macchio) ma il ricco bullo Johnny Lawrence (William Zabka) del dojo Kobra Kai, reso ancor più violento dopo aver visto la sua ex-ragazza Ali (Elizabeth Shue) cadere tra le braccia del nuovo arrivato.

Ecco l’idea dunque. Regalare a Barney tutto quello che adora, ma al contrario. Ossia il peggio. Nulla di meglio dunque di una scarna stanza d’albergo con vista (lontana) su Atlantic City. Un ambiguo clown. Una spogliarellista che altri non è se non Quinn (Becki Newton), l’ex del promesso sposo, e per finire la perdita di migliaia di dollari al casinò con tanto di abbandono alla mafia coreana di Marshall. Ciliegina sulla torta, la presenza del "karate kid" sbagliato, Ralph Macchio per l'appunto, a cui il festeggiato riversa subito il proprio disgusto.

Lo scherzo (apprezzato) sarà rilevato ma la vera sorpresa deve ancora presentarsi. Sotto quell’enorme vestitone rosso a pois, parrucca e cerone bianco infatti, si nasconde…

Barney: Io odio Ralph macchio!

How I Met Your Mother - R. Macchio, Lily (A. Hannigan), Barney (N. P. Harris) e Marshall (Jason Siegel)
How I Met Your Mother - Ralph Macchio, Barney (Neil Patrick Harris) e Ted (Josh Radnor)
How I Met Your Mother - Ralph Macchio, Barney (Neil Patrick Harris), Ted (Josh Radnor) e il clown
How I Met Your Mother - il clown si rivela a Barney ed è...
How I Met Your Mother - ... l'attore William Zabka, l'idolo "karatekiddiano" di Barney
How I Met Your Mother - l'abbraccio tra Barney (Neil Patrick Harris) e William Zabka

venerdì 10 ottobre 2014

Twin Peaks non camminare più con me

...inizia il viaggio nei segreti di Twin Peaks
David Lynch torna con la terza stagione della serie I segreti di Twin Peaks. Tanto clamore ma forse avrebbe potuto farne anche a meno.

di Luca Ferrari

1990-91. Nella piccola cittadina di Twin Peaks la giovane Laura Palmer viene rinvenuta in un telo di plastica a ridosso di una cascata. A indagare sul misterioso omicidio viene mandato l'agente federale Dale Cooper. Inizia così un memorabile viaggio oscuro dove il regista David Lynch (Eraserehead, The Elephant Man, Mulholland Drive) ci mostra ciò che non si vede, ma diabolicamente esiste. Venticinque anni dopo si ricomincia. Perché?

È stata la prima serie adulta con cui mi sono confrontato. Due anni fa ho avuto il piacere di andare proprio lì al Twede's Cafe, sedermi e gustare il caffè nero, mangiare un cheeseburger con patatine e chiudere con l'inimitabile torta di ciliegie. Ho entrambe le serie a disposizione in qualsiasi momento. In tutta franchezza posso dire che conosco alquanto bene I segreti di Twin Peaks, di David Lynch, trasmessa in Italia a inizio anni Novanta.

Da qualche giorno è rimbalzata la clamorosa notizia. A venticinque anni dall'anniversario della messa in onda dell'ultimo episodio della serie, il geniale regista David Lynch tornerà dietro la telecamera per dirigere la terza stagione formata da nove nuovi episodi (come la prima) già programmati per il 2016. A differenza però di moltissimi fan e/o colleghi che hanno plaudito l'iniziativa, io non ne sono per nulla contento.

Ecco nove considerazioni: 

1. Nell'allora panorama dominato da serial positivi, Twin Peaks fu un'autentica sassata in mezzo agli occhi. Un serial oscuro che si sposava alla perfezione con una certa cupezza sonora nella nascente (per l'Europa) scena musicale della vicina Seattle (Twin Peaks è il nome di una montagna dietro il comune di North Bend, dove è ambientata la serie, a mezz'ora di macchina dalla principale città dello stato di Washington, ndr). Oggi difficilmente potrebbe dire qualcosa di nuovo

2. Riprendere in mano un serial più di vent'anni dopo significa o snaturarlo del tutto o fare un'operazione da Geriatrick Park.

3. I revival o remake hanno il più delle volte miseramente fallito e sono stati dettati dal mero interesse economico. In passato si è parlato di riprendere anche Friends, per fortuna al momento un pericolo scongiurato

4. Già la seconda serie di Twin Peaks non fu all'altezza della prima, meno lineare e con un'esagerazione spropositata di legami tra i personaggi fino all'esasperazione conclusiva sebbene addolcita da una scena finale grandiosa. Il film Fuoco cammina con me (1992) poi, fu il peggio realizzato da Lynch. Da un regista del suo calibro è lecito aspettarsi qualcosa di nuovo e non operazioni nostalgia

5. In un'epoca dominata da polizieschi-investigativi di tutte le salse spesso contesi tra realtà e occulto, il sig. Lynch si è imbarcato in un'avventura dove rischia di mettere a repentaglio anche il ricordo dei primi lavori

6. Per chi vide Twin Peaks in diretta sarà difficile immaginarsi i protagonisti immersi in social network e l'attuale mondo contemporaneo. Il cinema è lo specchio di un tempo. Quell'epoca oggi non ci può più essere così come una sua degna continuazione

7. Troppi personaggi morti. Che farà Lynch? Ne aggiungerà di nuovi o si accontenterà di far tornare il probo James per sfidare gli eredi demoniaci di Bob incluso Leo che in qualche modo si sarà salvato dalla stretta mortale di Windom Earle?

8. Twin Peaks segnò il trionfo del male sul bene. Una linea molto poco americana. A cosa andremo incontro? Se trionferà il bene, sarà una banalità. Se sarà il lato oscuro a vincere, l'avremo già visto.

9. Sarei felice di sbagliarmi su tutti i punti appena scritti


Falling (OST Twin Peaks), by Julee Cruise

il regista David Lynch
Laura Palmer
il regista David Lynch e l'attore Michael Ontkean

venerdì 3 ottobre 2014

#LaTrattativa, l'Italia è in guerra

La Trattativa (2014, di Sabina Guzzanti)
Italia sotto costante genocidio della verità. Italia ancora in mano a massoni e mafiosi. Sabina Guzzanti racconta La trattativa tra stato e mafia.

di Luca Ferrari

Una mafioso con coppola e lupara con su scritto sotto Repubblica Italiana. Non si può non cominciare dalla locandina del nuovo lungometraggio di Sabina Guzzanti, La Trattativa, film presentato nella sezione "Fuori Concorso" della 71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un viaggio di oltre un’ora e mezza in quanto più di marcio ci sia sotto la flebile e stantia patina della fasulla democrazia italiana collusa con la mafia. Uno stato ancora incapace di voltare pagina. Uno stato sceso a patti con brutali assassini che hanno falciato senza pietà uomini integerrimi che si sono battuti per la verità e la giustizia.

Al centro del nuovo lavoro dell’ostracizzata Guzzanti, la trattativa Stato-Mafia. Una realtà indiscutibile dove le ipotesi non trovano posto (se non nel finale dove la regista e i suoi collaboratori immaginano cosa ci fosse scritto nella famosa agenda rossa dell’assassinato giudice Paolo Borsellino) ma si uniscono i pezzi di un puzzle che il popolo ancora non conosce o non vuole vedere. Dagli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta l’Italia fu teatro di stragi ed esplosioni. Una realtà anestetizzata da un liberismo che altro non fece se non stringere le tenaglie invisibili di una dittatura fondata sul ricatto, l’estorsione e l’omicidio.

Utilizzando un’originale formula cinematografica basata su filmati d’epoca, rappresentazioni teatrali di ciò che accadde con gli stessi attori a scambiarsi i ruoli, passando da malavitosi a forze dell’ordine, La Trattativa entra nel vivo. Si assiste ammutoliti alla proiezione. Non si può non piangere né non provare una rabbia incontenibile dinnanzi all’omertà che ha segnato la storia della seconda Repubblica. E se a qualcuno fosse sfuggito, l’Italia è in guerra. Non ci sono le barricate nelle strade e non ci si spara apertamente ma sempre scontro è. Uno conflitto deciso dai piani alti della politica e che, cosa assai grave, non intende porvi la parola fine. Non c’è miglior segreto di qualcosa messo alla luce del sole, ed è quello che è avvenuto e sta accadendo in Italia.

Dalle  terribili esecuzioni dei giudici Falcone e Borsellino ai primi grandi arresti dei boss di Cosa Nostra, passando per le successive esplosioni, l’allucinante soppressione del regime di carcere duro del 41bis. Un’azione quest’ultima non contestata nemmeno dalle più alte cariche dello Stato. E poi, c’è lui. L’ex-premier Silvio Berlusconi, il cui partito Forza Italia venne creato (e deciso) per un unico e solo grande scopo: permettere la connivenza più pacifica e manipolatrice della mafia. Una realtà fuori da ogni logica e che solo in Italia può continuare a convivere senza che prenda corpo una vera rivoluzione.

“Non è neanche passata mezz’ora dalla fine dell’anteprima stampa del film La Trattativa (di Sabina Guzzanti) e sono ancora scosso. Ripenso ai volti di tutti quei morti ammazzati. Nella mia mente echeggiano parole come P2, Totò Riina, Massoneria, Silvio Berlusconi, Bernardo Provenzano, Marcello Dell’Utri, strage di Capaci, esplosivo. Non è ancora passata mezz’ora e mi guardo attorno cercando negli occhi di chiunque mi passi attorno una traccia di attonito orrore. E l’Italia, dilaniata da liberatori politici, è ancora nel 2014 incatenata e torturata da forze dolorosamente mimetizzate in qualsiasi strato della società civile. Sottoposta a un costante lavaggio del cervello dove si cancella la memoria dell’orrore".

Per anni Sabina Guzzanti è scomparsa dal piccolo schermo. La sua voce così affilata e fuori dal coro è in grado di ribellarsi. E intanto il neo-premier Matteo Renzi, nel nome del cambiamento, è ancora a trattare con quello stesso Berlusconi. Ma cos'è davvero l’Italia? Un vicolo cieco dove non sono ammesse domande scomode, dove i ribelli sono vittime designate. Una nazione fallimentare dove la parola – giustizia – si può al massimo sussurrare perché Falcone non è morto. L’agenda rossa di Borsellino non è mai esistita. La mafia è un’invenzione. La politica e le forze dell’ordine sono tutti onesti.

Il trailer di La Trattativa

La Trattativa (2014, di Sabina Guzzanti)
La Trattativa (2014, di Sabina Guzzanti)

sabato 6 settembre 2014

Venezia 71, mafia e Milla

Lido (Ve), 71° Mostra del Cinema – l'attrice Milla Jovovich © Federico Roiter
Milla Jovovich, affascinante e in dolce attesa. Bodganovich, maestro di risate e grandi regie. Alla Mostra del Cinema anche il tema mafia ha trovato molto spazio.

di Luca Ferrari

Tra gli indiscussi protagonisti della 71° Mostra del Cinema di Venezia (27 agosto – 6 settembre) si è messo in luce l'attore americano Anton Yelchin, presente al Lido con due pellicole. Oltre alla trasposizione Shakespeariana Cymbeline insieme all'ex-Giovanna d'Arco Milla Jovovich, è stato il protagonista maschile del divertente horror Burying the Ex, di Joe Dante, sez. Fuori Concorso.

Standing ovation per il maestro Peter Bogdanovich. Sbarcato in laguna con una delle commedie più divertenti del festival, She's Funny That Way (con Owen Wilson, Katyrhyn Hahn, Jennifer Aniston, Rhys Ifans), il regista è stato anche omaggiato nella sezione "Venezia Classici" con la proiezione del documentario One Day Since Yesterday: Peter Bogdanovich & The Lost American Film (di Bill Teck), la storia del film …e tutti risero, diretto proprio da Bogdanovich, e presentato in anteprima in laguna nel lontano 1981.

A dispetto dello scatto che la ritrae perplessa, la giovane attrice italiana Alba Rohrwacher ha di che stare più che serena e fiduciosa in un sempre più roseo futuro cinematografico. La sua interpretazione in Hungry Hearts (di Saverio Costanzo), film in concorso Venezia 71, nella parte di Mina, neo-mamma ipernaturalista, le potrebbe far ottenere la sua prima Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.

Tra le un photocall con il documentarista americano Frederick Wiseman, Leone d'oro carriera 2014, e il sempre cordiale Viggo Mortensen, in un festival dove il tema mafia è stato al centro di toccanti pellicole come Belluscone, una storia siciliana (di Franco Maresco, sez. Orizzonti) e La Trattativa (di Sabina Guzzanti, sez. Fuori Concorso), non poteva mancare per un saluto il simpatico Pif, regista dell'originale film La mafia uccide solo d'estate (2013).

Lido (Ve), la Mostra del Cinema vista dal mare e dalla spiaggia  © Federico Roiter
Lido (Ve), 71° Mostra del Cinema – l'attore Anton Yelchin © Federico Roiter
Lido (Ve), 71° Mostra del Cinema – il cast di Cymbeline, (da sx):
John Leguizamo, Milla Jovovich e il regista Michael Almereyda © Federico Roiter
Lido (Ve), 71° Mostra del Cinema – l'attrice Alba Rohrwacher © Federico Roiter
Lido (Ve), 71° Mostra del Cinema – il cast di She's Funny That Way, (da sx):
 Katyrhyn Hahn, il regista Peter Bogdanovich e Owen Wilson © Federico Roiter
Lido (Ve), 71° Mostra del Cinema – l'attore Viggo Mortensen © Federico Roiter
 Lido (Ve), 71° Mostra del Cinema – Frederick Wiseman, Leone d'oro carriera 2014
Lido (Ve), 71° Mostra del Cinema – il regista Pif attorniato dai fan © Federico Roiter

venerdì 5 settembre 2014

Piero Piccioni, la musica del cinema italiano

il musicista Piero Piccioni
Venezia celebra il geniale compositore Piero Piccioni con un Premio assegnato al miglior giovane musicista delle sezioni competitive della 71° Mostra del Cinema.

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer

“Più che un compositore, Piero Piccioni è una galassia di suoni e note che nel corso del tempo si sono sedimentate come una memoria sensoriale di piaceri e di avventure” sottolinea il giornalista e critico cinematografico Giona A. Nazzaro, “Da Camille 2000 a Il Dio sotto la pelle, passando per La decima vittima e Colpo rovente, Piccioni, senza dimenticare esiti maiuscoli come Adua e le compagne, ha intuito forme e suoni del futuro come solo i più grandi creatori hanno saputo fare”.

Non poteva esserci anno e città migliore per celebrare la vita e il lavoro musicale per il cinema del compositore italiano Piero Piccioni. In occasione della 71° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia infatti, la cui giuria della sezione Concorso è presieduta dal compositore francese di musiche da film, Alxandre Desplat, si terrà la prima edizione del Premio Piero Piccioni, un'iniziativa no profit organizzata da Gervasuti Foundation sotto la direzione artistica di Fiona Biggiero.

Un premio questo dedicato al grande artista per ricordare il decimo anniversario della sua scomparsa, la sua vita e il suo lavoro apprezzato in tutto il mondo come massima espressione del genio italiano. Il Premio Piero Piccioni sarà assegnato tra i film partecipanti al Festival veneziani alla migliore colonna sonora di un giovane compositore (under 40) che riprenda e rinnovi lo spirito piccioniano.

In gara i film in concorso nelle sezioni competitive (Concorso Ufficiale, Orizzonti, Settimana della Critica, Giornate degli Autori). La giuria, presieduta dall'illustre regista Francesco Rosi, è composta da figure prestigiose: i critici cinematografici Massimo Benvegnù, Giona A. Nazzaro e Pierpaolo De Sanctis, la regista viennese Alice-Marie Brandner Wolfszahn, il sound artist Roberto Pugliese, il produttore e musicista londinese James Lavelle.

Piero Piccioni, nato a Torino nel 1921 e scomparso nel 2004, è uno dei più amati autori di colonne sonore della storia del cinema italiano ed è considerato dalla critica internazionale uno dei principali esponenti della musica da film in Italia. Nel corso degli anni ha lavorato con Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Francesco Rosi, Lina Wertmuller, Alberto Lattuada, Dino Risi, Roberto Rossellini, Mario Monicelli, Bernardo Bertolucci e molti altri.

Le sue musiche hanno sottolineato scene celebri con artisti del calibro di Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Ursula Andress, Claudia Cardinale, Giancarlo Giannini, Monica Vitti, Gianmaria Volonté, Totò, Nino Manfredi e in particolare Alberto Sordi, rappresentando così uno dei principali contributi all'affermazione dell'arte e della cultura italiana nel mondo.

Il Premio Pieri Piccioni sarà presentato venerdì 5 settembre alle h. 18 a Palazzo Franchetti (San Marco), Venezia. Per l'occasione verrà proiettato in anteprima internazionale il trailer del documentario Mondo Piccioni, dedicato al compositore, scritto e diretto da Nicola Vicidomini e M. Deborah Farina. Il premio sarà consegnato da James Lavelle in qualità di presidente vicario, aiutato dalla showgirl e artista Paola Fiorido e dall'attore Maurizio Lombardi. La serata proseguirà poi nelle eleganti sale dell'Hotel Metropole in Riva degli Schiavoni (Venezia), dove James Lavelle in persona terrà lo speciale dj-set Omaggio a Piero Piccioni.

“Innamorato del jazz, da questa sua passione è riuscito a isolare alcune precise caratteristiche di tale linguaggio musicale, trasformandole (facendole sue) in sostanza stilistica personale, coerente e riconoscibile pur nelle applicazioni variamente contrastanti della pratica cinematografica” ricorda il collega Ennio Morricone, “Dalla esplicita modernità di Le mani sulla città alla poetica vicenda di Fumo di Londra e la bellissima e ricercata canzone Amore, amore, amore, la riconoscibilità della sua cifra stilistica è sempre chiara e comunicativa”.

Piccioni, Morricone, Trovaioli e Bacalov
il musicista Piero Piccioni

giovedì 4 settembre 2014

Un cinecocktail al gusto di Sophia Loren

l'attrice italiana Sophia Loren
Venerdì 5 settembre presso lo Spazio Luce Cinecittà alla 71° Mostra del Cinema, è di scena l'ultimo appuntamento di CineCocktail dedicato a Sophia Loren.

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer

Lei è la storia del cinema italiano. Dopo il primo appuntamento con l'attore Pierfrancesco Favino e il secondo con la giovane regista Anabel Ciliberti, l'ultimo evento all'interno del festival veneziano firmato CineCocktail sarà incentrato sulla figura di Sophia Loren.

All'incontro, realizzato in collaborazione con Diva Universal e condotto (come sempre) dalla giornalista Claudia Catalli, interverranno più personaggi, a cominciare dall'attrice Sara Serraiocco, interprete di Salvo, quindi il giornalista e regista Marco Spagnoli, autore del documentario Donne nel mito: Sophia racconta la Loren, in concorso alla 71ª Mostra di Venezia nella sezione Venezia Classici. Ci sarà anche anche la giornalista e scrittrice Laura Delli Colli, presidente dell'SNGCI, il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani e lo scrittore, regista e sceneggiatore Italo Moscati, autore del libro Sophia Loren. La storia dell'ultima diva edito da Lindau.

CineCocktail dedicato a Sophia Loren, venerdì 5 settembre h. 16 presso Spazio Luce Cinecittà dell'Hotel Excelsior. Ingresso libero fino a esaurimento posti.

Sophia Loren
Sophia Loren e Marcello Mastroianni
Sophia Loren e Vittorio De Sica
il regista Marco Spagnoli