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mercoledì 28 ottobre 2015

Lo stagista inaspettato, l'unione fa il lavoro

Lo stagista inaspettato – Jules Ostin (Anne Hathaway) e Ben Whittaker (Robert De Niro)
Se il lavoro è troppo stressante, la sola speranza per Jules (Anne Hathaway) è un novello impiegato settantenne. Lo stagista inaspettato (2015, di Nancy Meyers).

di Luca Ferrari

Una carriera soddisfacente alle vendite di elenchi del telefono e una moglie amata fino all’ultimo giorno. Ben Whittaker (Robert De Niro) ha vissuto un’ottima vita. Da tre anni però è vedovo. Nella sua esistenza da pensionato si sa tenere occupato però si annoia. Tutto cambia quando viene a sapere di un programma di internship per la terza età realizzato da un e-commerce di abiti. Eccolo dunque tornare al lavoro come Lo stagista inaspettato (2015, di Nancy Meyers).

Da quando Ben iniziò a lavorare il mondo è cambiato in modo radicale. Lui però non si è mai perso d’animo. Accetta di girare un video dove si presenta ai propri futuri datori di lavoro, e dunque mettersi in gioco alla veneranda di 70 anni. Per un mondo che fatica a rimescolare le carte, una lezione di vita non da poco.

Stagista come Ben, anche il giovane nerd Davis (Zack Pearlman), che insieme ai più navigati Jason (Andrew DeVine) e Lewis (Jason Orley) formerà un terzetto di lavoratori talmente devoto al proprio impiego da accettare di “salvare il culo al proprio capo”. Il tutto ovviamente con la direzione del navigato Whittaker, un uomo di un’altra epoca. Un uomo con la camicia dentro i pantaloni e il fazzoletto.

Il loro capo, nonché diretto responsabile delle attività di Ben, è Jules Ostin (Anne Hathaway, premio Oscar 2013 come Miglior attrice non protagonista in Les Miserables ). Iperattiva e super-indaffarata. Talmente presa e con poco tempo da girare per l’ampio ufficio in bicicletta. Talmente e troppo presa da concedere le briciole all’amorevole figlioletta Paige (JoJo Kushner) e il marito Matt (Anders Holm), un mammo perfetto. Forse troppo, ma comunque capace di rinunciare alla propria carriera pur di sostenere la compagna nella sua ascesa nel business online.

Ben è amorevole ma Jules sembra non fidarsi. In realtà dovrebbe guardare meglio in altre direzioni. Ben è oltre modo paterno con Jules. La vede stanca e preoccupata e lui è sempre al suo fianco. Troverà comunque il tempo di riattizzare la passione con la massaggiatrice aziendale Fiona (Rene Russo), capace di fargli moderatamente perdere la testa e regalandole a sua volta un primo appuntamento alquanto originale, facendo così imbufalire la più esuberante Patty (Linda Lavin) che gli faceva il filo.

Ma più che i protagonisti ben amalgamati (prevedo un sequel per la coppia De Niro/Hathaway), a divertire è soprattutto lo scontro (dolce) tra generazioni. Da una parte un uomo che si deve confrontare con termini quali uploadare ed entrare nel mondo imperante di Facebook, dall’altra la generazione dei casual young adult. Tanto veloci e immediati a far sapere ogni cosa al mondo, quanto immaturi e timorosi nel comunicare con le persone più care.

Regista de Lo stagista inaspettato (The Intern), la brillante Nancy Meyers. È stata la sceneggiatrice di una delle commedia cult anni ’90, Il padre della sposa (di Charles Shyer). Passando dietro la macchina da presa, ha lasciato il segno girando alcune delle più brillanti opere del terzo millennio a cominciare da What Women Want con Helen Hunt e un Mel Gibson col potere di sentire i pensieri delle donne.

Il suo viaggio nei sentimenti di coppia è proseguito con due cavalli di razza quali Diane Keaton e Jack Nicholson in Tutto può succedere, per poi commuovere oltre modo con il quartetto de L’amore non va in vacanza (2007) dove l’anglo- piagnucolone Jude Law conquista il cuore della fredda yankee Cameron Diaz mentre le due anime candide Kate Winslet e Jack Black scelgono finalmente di voler bene a se stessi innamorandosi l’uno dell’altra.
   
E per chiudere, la regista originaria di Philadelphia si è presa anche la soddisfazione di dirigere la più grande attrice vivente, Meryl Streep, in veste di pasticcera alle prese con l’ex-marito Alec Baldwin. Oggi tocca Lo stagista inaspettato con un altro monumento della settima arte, Robert De Niro (Taxi driver, Risvegli, Cose nostre - Malavita). Una commedia piacevole capace di regalare un po’ di sereno ottimismo per chi sta affrontando gli tsunami del mondo lavorativo. Una realtà sempre più spietata che necessita di persone caparbie e autentiche come Jules. Ancor più produttiva se circondata dai giusti collaboratori.

Sebbene condivisibile con molte altre pellicole, una sola grossa nota negativa. Non se ne può più del logo della Apple ovunque. Ormai qualsiasi computer si veda sul grande schermo ha sempre il marchio della mela morsicata. Alla faccia che dovevano essere Bill Gates e Windows i dittatori. Che si tratti del portatile di Jules o della schiera di fissi in ufficio, gli “aggeggi” del fu Steve Jobs sono sempre a fuoco della telecamera.

Il trailer de Lo stagista inaspettato

Lo stagista inaspettato – Jules Ostin (Anne Hathaway) dirige la sua azienda
Lo stagista inaspettato – la piccola Paige (JoJo Kushner) con mamma Jules (Anne Hathaway)
Lo stagista inaspettato – Ben (Robert De Niro) insieme ai giovani colleghi Jason (Andrew DeVine),  al suo fianco; Davis (Zack Pearlman), dietro quest’ultimo e Lewis (Jason Orley)

martedì 27 ottobre 2015

A qualcuno piace classico

L'orribile verità (1937 di Leo McCarey)
Alla scoperta dei vecchi capolavori della settima arte. Dal 27 ottobre 2015 al 31 maggio 2016 è di scena la V edizione della rassegna A qualcuno piace classico.

di Luca Ferrari

CSC - Cineteca Nazionale, Azienda Speciale Palaexpo e Associazione Culturale La Farfalla sul Mirino insieme per il cinema. Con la proiezione de L'orribile verità (1937 di Leo McCarey) con protagonisti Cary Grant e Irene Dunn, è stata inaugurata martedì 27 ottobre a Roma la quinta edizione di A qualcuno piace classico, la rassegna di capolavori della storia del cinema che in questi anni ha fatto la gioia dei cinefili romani.

Come ogni anno dunque, sarà possibile riscoprire sul grande schermo alcune pietre miliari della settima arte, presentate esclusivamente in pellicola 35mm, formato tuttora insostituibile per vivere al meglio l'esperienza del cinema del passato. Ampio spazio alla Hollywood dei tempi d'oro con i film dei maestri John Ford (Il prigioniero dell'isola degli squali), Joseph L. Mankiewicz (Lettera a tre mogli), Rouben Mamoulian (Il segno di Zorro), Charlie Chaplin (Luci della ribalta), senza dimenticare un giovane Orson Welles protagonista con Joan Fontaine de La porta proibita, tratto da Jane Eyre.

Il mappamondo del grande cinema include quest'anno la Spagna del leggendario Lo spirito dell'alveare di Victor Erice, la Russia di Solaris, tra i massimi capolavori di Tarkovskij (presentato nella versione originale integrale), e l'Ungheria di Silenzio e grido, tra le vette dell'arte di Miklós Jancsó.

Arrivano invece dall'Inghilterra Figli e amanti di Jack Cardiff e I misteri del giardino di Compton House, clamoroso esordio di Peter Greenaway, nonché Cul de sac, firmato dal genio apolide di Roman Polanski. Un Melville inusuale (Leon Morin prete) e un Resnais d'annata (Mon oncle d'Amerique, Grand Prix a Cannes) portano la bandiera francese, mentre per l'Italia è in programma Umberto D., capolavoro della maturità di Vittorio De Sica che completa questo viaggio entusiasmante, impossibile da mancare per ogni amante del grande cinema.

La rassegna A qualcuno piace classico si svolge presso il Palazzo delle Esposizioni - Sala Cinema scalinata di via Milano 9 a, Roma. Ingresso libero fino a esaurimento posti. I posti verranno assegnati a partire da un'ora prima dell'inizio di ogni proiezione- Possibilità di prenotare riservata ai soli possessori della membership card. L'ingresso non sarà consentito a evento iniziato. Per info: www.palazzoesposizioni.it e www.fondazionecsc.it.

Luci della ribalta (1952, di Charlie Chaplin)

venerdì 23 ottobre 2015

Woman in Gold, non starò in silenzio

Woman in Gold - Maria Altman (Helen Mirren) e l'avvocato Schoenberg (Ryan Reynolds)
Umiliata dai nazisti, Maria Altmann è pronta a riprendersi ciò che è suo. Sfidando tutto e tutti. Da una storia vera, Woman in Gold (2015, di Simon Curtis).

di Luca Ferrari

“Devo tenere duro, non permetterò che mi umilino di nuovo” sussurra Maria Altmann (Helen Mirren). Scampata al Nazismo da giovane, oggi è una felice cittadina degli Stati Uniti. I demoni del proprio passato però vanno affrontati prima o poi e il suo ha le fattezze dell'amata zia Adele, ritratta da Gustav Klimt nel celeberrimo dipinto Ritratto di Adele Bloch-Bauer, detenuto a Vienna. Per Maria è tempo di riprendersi quella Woman in Gold (2015, di Simon Curtis).

Maria nasce a Vienna nel 1916. Vive insieme alla sua famiglia e i due zii. La sua placida vita però  viene ferocemente interrotta dalla brutalità antisemita del nazismo. Un'onda disumana di orrore che travolge anche l'Austria, annessa alla Germania Hitleriana il 13 marzo 1938 durante il cosiddetto Anschluss. Una triste parata della svastica salutata dagli austriaci con lancio di fiori.

Per tutti gli ebrei d'Austria ha inizio un incubo. La giovane Maria (Tatiana Maslany) e il marito  Fritz (Max Irons) scelgono la via della fuga destinazione finale Stati Uniti. Sono passati 60 anni da allora e in seguito alla morte della sorella, la donna scopre che l'Austria (in teoria) sta cominciando un'opera di restituzione delle opere sottratte dai nazisti alle famiglie ebree.

Senza chissà quali mezzi economici la sig.ra Altman decide di chiedere un consulto al giovane e non troppo esperto avvocato Randy Schoenberg (Ryan Reynolds), un amico di famiglia, nonché austriaco anch'esso di stirpe; il nonno infatti è il celeberrimo compositore. I due compiono un primo viaggio a Vienna dove capiranno che la presunta restituzione è in realtà solo un gesto per riabilitarsi agli occhi del mondo. Ad appoggiarli nella loro battaglia, il navigato giornalista Hubertus Czernin (Daniel Brühl).

Dal giorno della fuga in epoca nazista, Maria non è più tornata in Austria. Certo, il mondo è cambiato ma dentro di lei è ancora vivido il ricordo di quell'epoca di sofferenza quando fu costretta ad abbandonare tutto e tutti, a cominciare dai suoi cari e la sua casa. Maria non è più una giovinetta però sceglie di affrontare i propri demoni, quelli della peggiore specie. Quelli che sarebbe meglio lasciare nel passato. Non per lei.

Nell'anno in cui la follia dell'Isis ha cominciato a guadagnare i titoli dei giornali per le brutali azioni di morte e di cancellazione dell'arte umana, è sbarcato sul grande schermo un primo grande film sui furti artistici da parte di un esercito invasore: Monuments Men (2014, di George Clooney), con un gruppo di yankee decisi a ridare al mondo ciò che Hitler voleva tutto per sé.

Simon Curtis invece si concentrato su di un unico dipinto da cui il nome del film, la Woman in Gold di Klimt. Una storia avvincente con un Reynolds perfettamente a suo agio nel sentiero della risoluta "impacciatezza" e un Daniel Brühl (Bastardi senza gloria, Il quinto potere, Rush) sempre più sinonimo di composta qualità. Ottimi anche i comprimari Jonathan Pryce nei panni del giudice della Corte Suprema Rehnquist, e Charles Dance, il capo di Randy.

E poi ovviamente c'è lei, Helen The Queen Mirren. Come ha scritto anche la collega giornalista Alessandra De Luca sul mensile Ciak, “le battute pungenti e gli affilati dialoghi affidati alla Mirren valgono la spesa del biglietto”. Aggiungerei che in più di un'occasione, in particolar modo quando l'arroganza negazionista viennese le si mette d'intralcio, si scorge nei suoi occhi tratti d'una furia di REDiana memoria.

Maria Altmann barcolla. È decisa. Cade. S'impunta. Lei come molti altri ha subito una gravissima ingiustizia e adesso vuole giustizia. La pretende. E lo dovrà accettare anche l'ostile Dreimann (Justus von Dohnányi), deciso a tutto pur di non far volare i Klimt oltreoceano. Tutti nella vita arriviamo a un momento in cui non si può più stare in silenzio. Bisogna guardare il nemico diritto negli occhi e avanzare. Avanzare, e avanzare ancora finché il lupo non diventerà un innocuo agnellino e il mondo potrà trarre nuova ispirazione da queste gesta.

Il trailer di Woman in Gold
Woman in Gold - i giovani Fritz (Max Irons) e Maria Altman (Tatiana Maslany)
Woman in Gold - Hubertus Czernin (Daniel Brühl) e Maria Altman (Helen Mirren)
Woman in Gold - L'avvocato Schoenberg (Ryan Reynolds) e Maria Altman (Helen Mirren)
alla ricerca della verità

mercoledì 21 ottobre 2015

Fantozzi, sadismo all’italiana

La famiglia Fantozzi: la Pina (Liù Bosisio), Ugo (Paolo Villaggio) e Mariangela (Plinio Fernando)
Umiliazioni e tanta tristezza, però i sadici italiani ci ridono sopra. E tanto. Dal 26 ottobre al 4 novembre torna al cinema la vittima per eccellenza: Fantozzi.

di Luca Ferrari

È la vigilia di natale e i figli dei dipendenti di una ditta sfilano davanti ai capi recitando una poesia. Arrivato il turno della piccola Mariangela Fantozzi (Plinio Fernando), la ragazzina viene umiliata senza pietà, paragonata alla scimmia Cita e privata perfino del panettone e spumante in regalo. Il padre a quel punto interviene. La prende per mano e la riporta a casa, raccontandole un’innocente bugia per consolarla e non farla piangere. È una delle tante e miserevoli scene di Fantozzi. Cosa c'è da ridere in tutto questo? Non l'ho mai capito.

Ridere del più debole, l’abbiamo fatto tutti almeno una volta. Poi col tempo si cresce ma per molti le dinamiche non cambiano. Dai banchi di scuola al posto di lavoro, i bulli ci sono sempre così come le vittime designate che soffrono in silenzio, senza mai ribellarsi. Emblema di tutto ciò nella cultura italiana, il ragioniere Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio) i cui primi due capitoli della saga cinematografica stanno per tornare sul grande schermo.

I sadici mega-direttori. Gli epici 90 minuti di applausi dopo l’altrettanto leggendario commento sulla visione della Corazzata Kotiomkin (una cagata pazzesca), sbattuta in faccia al prof. Guidobaldo Maria Riccardelli (Mauro Vestri, scomparso di recente). La partita a biliardo con tanto di insulti reiterati (coglionazzo), salvo poi mettere tutti in riga. Le attività sportive (calcio, tennis, caccia, etc.) in compagnia del collega di ufficio, il ragionier Filini (Gigi Reder). Arcinoti scampoli dell’epica Fantozziana, a tratti anche divertente. A tratti.

Le disavventure del vessato ragioniere sono pronte a flirtare col terzo millennio e presentarsi alle generazioni degli smartphone e dei social network. Da lunedì 26 a mercoledì 28 ottobre infatti, sarà proiettato nei cinema italiani Fantozzi (1975, di Luciano Salce). Una settimana dopo, da lunedì 2 a mercoledì 4 novembre sarà la volta de Il secondo tragico Fantozzi (1976), sempre diretto dal regista romano.

La commedia Fantozziana ha sempre divertito oltremodo il pubblico italiano. Un piacere al linite del sadismo. Chi è Ugo Fantozzi? È il tipico impiegato vessato sul posto di lavoro, incapace di cambiare e uscire dalla propria mediocrità salvo qualche rarissimo episodio, comunque mai definitivo. È sposato con la Pina (Liù Bosisio), una donna per cui prova ribrezzo e ha una figlia che più brutta non si potrebbe. È innamorato della collega, sig.ra Silvani (Anna Mazzamauro), che al contrario lo illude ripetutamente salvo poi umiliarlo senza pietà.

Perché piace così tanto veder subire Fantozzi? Forse la maggioranza degli italiani si identifica nei megadirettori ansiosi di ridicolizzare il prossimo senza il minimo rimorso perché tanto nessuno verrà ad aiutarli. Questo è il mondo. Questo è ancora il mondo, ma a me non fa proprio divertire. È triste. In altre culture cinematografiche i reietti trovano la loro dimensione e s’impongono. Qui no, nell’Italia dei furbetti e voltagabbana, c’è solo la statica derisione.

Fantozzi è solo. Non ha nessuno da cui rifugiarsi per trovare un po’ di forza e reagire. Fantozzi è abbandonato a se stesso e il mondo, consapevole, si accanisce contro di lui. Non c’è un Marty McFly sbarcato dal Futuro che oltre a insegnargli ad avere fiducia nelle proprie capacità, gli spiega come menar le mani. Non c’è una Mary Poppins che lo istruisce sul prendere la vita con più leggerezza concentrandosi sull’amore per la propria famiglia. Fantozzi convive con le atroci sghignazzate quotidiane. Derelitto in un mondo di sadiche pecore che si nascondono dietro il fetore di volgari sciacalli.

Fantozzi - la piccola Mariangela umiliata senza pietà

Il ragionier Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio)
Il prof. Guidobaldo Maria Riccardelli (Mauro Vestri) e il ragionier Fantozzi (Paolo Villaggio
Il ragionie Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio) e la sig.na Silvani (Anna Mazzamauro)

lunedì 19 ottobre 2015

Suburra, attacco del Potere

Suburra – Numero 8 (Alessandro Borghi) al cospetto di Samurai (Claudio Amendola)
Nè finzione né realtà, che cos'è Suburra (2015, di Stefano Sollima)? Viaggio nell'oscuro e arcinoto putridume della connivenza politico-mafiosa italiana.

di Luca Ferrari

Onnipotenze. Degrado. Minacce. Violenze. Benefits. Cravatte e cocaina. Moderna Gotham City senza eroi alati, Roma bivacca abbandonata in mano a geldi Unni calcolatori. Piove. Dall’alto della propria suite d’albergo, sulla terrazza, un uomo nudo urina. Il mondo sta bruciando ma a lui non interessa. Pensa solo ai propri interessi. Cartolina dell’Italia-spazzatura. Fotogramma monolitico e aggiornato di un’agonia senza fine. Suburra (2015, di Stefano Sollima), tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo.

Dopo la violenza macha di ACAB - All Cops Are Bastards (2012), le serie televisive Romanzo Criminale (208-10) e Gomorra (2104,), il regista romano classe ’66 si concentra sui recenti fatti di cronaca (poi sfociati in Mafia Capitale), inserendo il tutto in una fatidica e apocalittica settimana iniziata con il pontefice Ratzinger in procinto di rassegnare le dimissioni dal sacro incarico, e chiusasi con il presidente Giorgio Napolitano che lascia il Quirinale. Lì nel mezzo, intrecci e ipocrisia. Lotte ed eliminazioni di chi non vuol giocare secondo le regole del vero Potere.

Nella Roma di Suburra non splende il sole. Ogni passo sbagliato può cambiare il proprio destino. Ogni atto di violenza scatena un turbine di aggressività ancora maggiore. La politica ordina e la mafia esegue. La mafia minaccia, la politica si prostra. Le mafie creano e incassano. Le politiche concedono e si arricchiscono. Avanti così, fino a quando uno non avrà più bisogno dell’altro e se qualcuno non fosse d’accordo, c’è sempre la pistola per chiudere i conti.  

Chi è l’emblema di Suburra? L’onorevole Malgradi (Pierfrancesco Favino) che dopo essere stato con due giovani prostitute torna a casa dalla moglie e carezza dolcemente il figlio? L’ignaro Sebastiano (Elio Germano), erede dell’incubo paterno e ora schiavo delle mafie più violente e ignoranti? Il navigato Samurai (Claudio Amendola), talmente potente da girare senza scorta e perfetto anello di congiunzione tra i tanti poteri criminali della città? L’aitante e spavaldo Numero 8 (Alessandro Borghi), stufo di sentir parlare del passato e desideroso di imporre la propria nuova legge?

La politica italiana ha miseramente fallito il suo compito. Destra, Sinistra, Centro, correnti estreme. Tutte presto o tardi hanno dimostrato come il loro unico e solo fine sia comandare, e non governare. Arraffare, e non far prosperare. Lasciate ai Berlinguer del secolo passato le ideologie, nell’Italia del presente e contemporanea è tutto fisiologicamente statico. È tutto inesorabilmente falso. È tutto colpevolmente già scritto dentro le nostre paure. Dentro la nostra patetica divisione di regioni, città, razze e credo.

È davvero questa l’Italia in cui siamo condannati a vivere? Come si fa? Meglio ritagliarsi un posto in disparte e sperare che tutto questo marciume non ci travolga. Nel frattempo ci auguriamo che nessuno dei nostri cari debba soffrire ma prima o poi scoverà anche noi. Che si tratti di un arrogante membro della famiglia degli Anacleti o il tirapiedi di qualche intoccabile, fa poca differenza. Noi continueremo a non essere ascoltati. Noi continueremo a combattere (chi ci riesce) da soli.

Suburra (2015, di Stefano Sollima) non è cronaca. Suburra non è finzione. Suburra non indaga né mette sotto accusa. Mostra solo quello che già si sa, e lo fa in modo cinematograficamente ineccepibile grazie anche a ottimi interpreti. Mostra ciò che rimbalza da un sito web a un giornale facendo dell’inimmaginabile una quotidianità a tratti peggiore di una guerra civile. Suburra disegna alla perfezione una lugubre atmosfera dove la legalità è inesistente. Un mondo dove la giustizia non è nemmeno contemplata. Sognata. Invocata.

Che cos’è Suburra? Non è nulla. Suburra non esiste. Non può esistere. Se esistesse per davvero, qualcuno si sarebbe già ribellato. Tutti si sarebbero già ribellati. Suburra non racconta di un esercito di guerriglieri rifugiatisi tra le Alpi francesi e addestratisi per fare  un colpo di stato e così ridare al popolo il pieno possesso della propria casa.

Suburra è quel mondo a cui tutti ci siamo rassegnati di appartenere. Suburra è il mondo che non cambia ma che piace comunque raccontare. Suburra è un pitbull violento che dobbiamo affrontare a mani legate dentro una gabbia. Suburra è riflessione, ma io non ho nulla su cui meditare. Io so già quello che devo fare ma da solo non ci potrei mai riuscire e di morire da martire non ho alcun interesse perché nulla cambierebbe. Io non sono Suburra. Voi, non lo so.

Il trailer di Suburra

Suburra – il corrotto Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino) a consiglio da un collega parlamentare
Suburra – Sebastiano (Elio Germano) è sempre più solo e ricattato dalla mafia
Suburra – lo spregevole Manfredi (Adamo Dionisi) minaccia la giovane Viola (Greta Scarano)

venerdì 16 ottobre 2015

Hotel Transylvania 2, la nuova normalità

Hotel Transylvania 2 - Drac, Frank, Wayne, Griffin (l'uomo invisibile) e al centro il piccolo Dennis
L’animazione più mostruosamente normale è tornata sul grande schermo e alloggia sempre lì, nel caldo e amichevole Hotel Transylvania (2).

di Luca Ferrari

C’è aria di festa in casa Dracula. Scoppiata la "scintilla zing", Jonathan e Mavis si sono sposati. Le nozze si sono ovviamente celebrate nell’Hotel Transylvania, per la prima volta aperto anche agli esseri umani (la famiglia dello sposo). Tempo meno di un anno ed ecco venire al mondo il piccolo Dennis. Ma cosa sarà: umano o vampiro? Ha davvero importanza? Prendete la vostra stanza all’Hotel Transylvania 2 (2005, di Genndy Tartakovsky), lo spettacolo sta per cominciare.

Mostro o non mostro? Umano o non umano? Comunista o democristiano? Fin dai primissimi passi, i genitori riversano sui figli le proprie esagerate convinzioni, e se poi non fossero ciò che desideravano e vogliono, ecco la delusione o magari l’esilio. Dracula (voce originale del comico Adam Sandler) non sente ragioni. È convinto che il nipotino sia un vampiro. Pur senza canini, è certo sia solo questione di tempo.

Piccoli magheggi maschili e Dennis si ritrova tra le buone grinfie del nonno che le studierà tutte pur di far emergere il vampiro che è in lui, anche a costo di lanciarlo da un’alta torre diroccata. I tempi però sono cambiati. Anche il campo scout per succhia-sangue non è più quello di una volta. Così va il mondo. Ovunque si vada, le vecchie generazioni sono ancora arroccate nel passato ben difese dai propri stereotipi.

Così, se al di qua del grande schermo ci sono retrogradi che insistono a voler fare distinzioni tra etero ed omosessuali vietando addirittura testi scolastici dove vi si fa cenno, nel mondo animato c'è ancora qualcuno che insiste a voler creare distinzioni tra i cosiddetti “mostri” e gli altrettanto cosiddetti “esseri umani”. Ma distinzione di chi? E chi sarebbe il normale? Ma cosa vuol dire normale?

Per fortuna che almeno al cinema qualcuno di saggio perde davvero la pazienza e rimetterà le cose a posto con la forza più grande, quella dell’amore. Una lezione con cui lo stesso conte Vlad, il padre di Dracula, si dovrà confrontare. Nel caso del suo storico aiutante invece, il pipistrello Bela (qualunque riferimento al “conte” Lugosi è puramente casuale, ndr) invece, sarà tutta un’altra questione.

I sequel di un film ben riuscito (Hotel Transylvania, 2012, lo è stato senza dubbio) sono sempre un grosso azzardo. Le aspettative sono alte e raramente si riesce a sorprendere il pubblico con sceneggiature degne di questo nome. Non mi sento di collocare il suddetto in nessuna delle categorie bello o brutto, semmai in una nobile via di mezzo. Hotel Transylvania 2 non passerà alla storia ma ha spunti divertenti. Non è lungo né eccessivamente ruffiano col pubblico più grandicello.

Indiscussi mattatori della pellicola, i “grandi”. Murray la mummia maledetta, Wayne il lupo mannaro, il gigante Frankenstein, Griffin l’uomo invisibile e lui, il signore delle tenebre. Paura? Risate semmai. Questi signori mostri ormai non spaventano più. Sono miti per l’universo giovanile. Il colossale Frank (voce originale di Kevin James) si fa perfino fare un selfie insieme a delle sue graziose ammiratrici.

Ancor più simpatico e divertente il lupo Wayne (la cui somiglianza con il proprio doppiatore Steve Buscemi è "inquietante"). Questi, oltre a mettere al mondo decine e decine di pargoli (tutti maschi con una sola eccezione), non è più in grado di spaventare nemmeno un cerbiatto e dovendo provare e riprovare un minaccioso graaaaaaar dai risultati alquanto discutibili. Al contrario gli basta vedere un oggetto volare (pallina da tennis o frisbee che sia) per inseguirlo come il più fedele dei cani.

Hotel Transylvania 2 ha la sua morale, all’altezza dei tempi moderni ma è anche e soprattutto la grande storia di una famiglia allargata con le sue incomprensioni, i suoi principi e quelle carezze tipiche di chi conosce la risposta. Ultima nota. Se mai un giorno dovessi avere un figlio, voglio solo che la prima parola che impari a dire sia… bla bla bla!

Guarda il trailer di Hotel Transylvania 2
Hotel Transylvania 2 - Frank si fa un selfie con due sue giovani ammiratrici
Hotel Transylvania 2 - Drac, Wayne, Frank, Griffin (l'uomo invisibile) e Murray la mummia
Hotel Transylvania 2 - Mavis, Drac e Jonathan

venerdì 9 ottobre 2015

Nausicaä della Valle di Miyazaki

Nausicaä della valle del vento - la coraggiosa protagonista insieme a un ohmu ferito
La fame di potere avanza più minacciosa dell'incombente estinzione, sempre che sul cammino non s'incontri Nauiscaä della valle del vento (1984, di Hayao Miyazaki).

di Luca Ferrari

Era il 1984. Il futuro degli anni Duemila si proponeva come un'inarrestabile corsa all'ultima tecnologia. Internet non era immaginabile. Gli ambientalisti erano un punticino nell'universo capace ogni tanto di far sentire la loro vocina. Con alle spalle solo Le avventure di Lupin e Conan il ragazzo del futuro, direttamente dall'omonimo manga il regista giapponese Hayao Miyazaki trasportò sul grande schermo Nausicaä della Valle del vento.

Il mondo narrato nel lungometraggio animato vede una realtà brutalmente mutilata dalla guerra termonucleare. Come se ciò non bastasse, giorno dopo giorno il mare marcio avanza lasciando dietro di sé l'inutilizzo della terra e dunque senza risorse per gli esseri umani, quei pochi rimasti. A fargli compagnia, giganteschi insetti (ohmu) e pericolose piante in grado di rilasciare spore velenose.

Come se la follia umana non avesse già fatto abbastanza, l'idea dei nuovi poteri è quelli di bruciare l'ecosistema velenoso e per farlo arrivano con armi e carri armati uccidendo senza pietà il buon sovrano Jihl, del regno della Valle del Vento. Sarà solo grazie all'intervento del saggio e coraggioso Yupa che la situazione non precipiterà del tutto facendo mietere nuove vittime.

E poi c'è lei, Nausicaä. La figlia di Jihl. Tanto determinata quanto speranzosa che il mondo possa cambiare in meglio. Esponente di una vita dove l'amicizia, l'amore e il rispetto reciproco possano e debbano diventare la sola lingua universale del pianeta. Nausicaä però non si limita ai sogni. È decisa a non lasciare l'umanità sprofondare e a bordo del suo piccolo mezzo aereo, sfreccia nei cieli senza la minima paura. Una perseveranza quella della giovane che la porterà a spingersi oltre i propri limiti, dimostrando ai suoi simili che dal rispetto reciproco nasce sempre la pace.

Sono passati più di trent'anni dalla realizzazione di quella pellicola e sebbene la coscienza sociale-ambientalista sia notevolmente cresciuta, non si può dire che chi abbia i redini del comando abbia dimostrato di voler conciliare progresso (guadagno) con futuro. No, l'umanità si trova ancora a vivere giorno per giorno, ignorando le conseguenze delle proprie azioni perché tanto non sarà lei a pagare, ma le generazioni a venire.

Nausicaä della Valle del vento non è certo il primo film di Miyazaki a esser tornato sul grande schermo. Se nella primavera 2013 il pubblico del terzo millennio potè volare insieme a Kiki consegne a domicilio, poco più di un anno dopo fu la volta dell'intenso Principessa Mononoke. Da lunedì 5 a mercoledì 7 ottobre 2015 invece, è stata la volta del suddetto.

Anche il Circuito Cinema di Venezia Mestre non ha “saputo resistere” alla tentazione di offrire ai propri cinefili uno dei primissimi film del regista Leone d'oro alla carriera alla 62° edizione della Mostra del Cinema. E infatti è stato possibile godersi la pellicola presso il cinema Rossini. Cineluk era lì, insieme alle “formazioni umane” più svariate. Singoli appassionati, famiglie con prole, adolescenti, coppiette. Tutti insieme a farsi ispirare. Per sognare e soprattutto creare un mondo migliore.

Il trailer di Nausicaä della Valle del vento
Al cinema Rossini di Venezia a vedere Nausicaä della valle del vento
Nausicaä della valle del vento - Nausicaa e delle sue giovani amiche
Nausicaä della valle del vento - il saggio Yupa
Nausicaä della valle del vento (1994, di Hayao Miyazaki)

martedì 6 ottobre 2015

Inside Out, ma che ti passa per la testa?

Inside out - Tristezza e Gioia nella testa della piccola Riley
Inside Out? Talmente originale da averlo già visto (in parte) nella sitcom anni '90 Ma che ti passa per la testa? Eh no cara Pixar, da te mi aspettavo molto di più.

Cosa succede nella testa di una ragazzina costretta dai genitori a passare dai freddi e incantati scenari del Minnesota alla più caotica e metropolitana San Francisco? È quello che devono essersi chiesti quei geniacci della Pixar Animation Studios la cui risposta non è tardata ad arrivare, dando volto e forma alle emozioni dell'adolescente e così portando sul grande schermo le creaturine Rabbia, Disgusto, Gioia, Paura e Tristezza. Voilà, Inside Out (di
Pete Docter) è servito.

La Pixar ci ha abituato molto bene (troppo) e per quanto non sia un fan di Ribelle – The Brave, a mio giudizio più Disneyano nel senso di smielato e per di più troppo simile al collega Koda – fratello orso, il resto dei lungometraggi animati è di primissima qualità: i 7 premi Oscar conquistati su 14 edizioni del Miglior film d'animazione ne sono un'ulteriore dimostrazione.

Veniamo a Inside Out. La giovane Riley viene catapultata in una nuova realtà. Nemmeno l'amato hockey riesce a tirarle su il morale. In questa delicata fase della propria esistenza è facile cedere ai sentimenti più negativi, stati d'animo questi però che in famiglia non vengono manifestati con inevitabile peggioramento dei rapporti. E questo non va bene. È inevitabile un cortocircuito. È inevitabile perdersi. La grande sfida ora è ritrovare la propria rotta.

Inside Out, standing ovation all'ultima edizione del festival di Cannes e accalamato in ogni parte del mondo, sebbene qualche critica ci sia stata come la cinefila Twitteriana @gleegis. Tra le cinque emozioni, Gioia, un esserino logorroico con capelli blu (corti) da fata turchina è troppo preponderante rispetto ai colleghi. Rabbia sembra quasi un giullare mentre Paura e Disgusto appaiono decisamente comprimari. Unica a tenerle testa, Tristezza, sebbene valorizzata fino a una certo punto e con una veste un po' troppo lacrimosa.

È davvero la gioia il grande motore umano? La Pixar prova a darci una lezione sull’importanza di tutti i sentimenti, perdendosi però nei cunicoli del fantastico e finendo per creare una storia a se stante dentro lo stesso film. Morale: l’idea è ottima, la resa molto meno. Con Inside Out la Pixar si è guardata un po’ troppo allo specchio lasciando in disparte quella fluidità narrativa che al contrario è stata uno dei capisaldi negli indiscussi capolavori di altre loro pellicole come Alla ricerca di Nemo, Ratatouille o Up (di cui è regista Docter stesso).

C’è di più. Fin dalle prime news sulla trama del film qualcosa non mi tornava. In qualche angolo della mia mente sentivo esserci qualcosa di analogo. E infatti era proprio così. Da buon cultore delle sitcom d'oltreoceano, la risposta è arrivata. Ma che ti passa per la testa?, con protagonista l'impiegato Herman Brooks (William Ragsdale). Insieme a lui i suoi colleghi, Jay (
Hank Azaria), Louise (Yeardley Smith), la snob Heddy (Jane Sibbett) e il suo capo il sig. Bracken (Jason Bernard ), ma soprattutto ciò che si agitava dentro la sua testa.

Io credo che Louise sia tanto dolce, diceva la sensibilità (Molly Hagan). Io credo che la tipa qui vicino indossi biancheria sexy, replicava la lussuria (Ken Hudson Campbell). Io credo che ci sia troppa gente qui dentro, rumoreggiava preoccupata l'Ansia (Rick Lawless). Io invece credo che siate tutti e tre degli idioti. Su, al lavoro! sentenziava infine l'intelletto (Peter Mackenzie). Iniziava così una delle tante puntate della suddetta mentre Herman era in ascensore.

La curiosità mi ha indotto a verificare se altri avessero scritto di questo parallelismo e infatti così è stato (La Repubblica). La domanda allora che vi potreste porre è: come appurare se questo paragone sia nato dalla mia diretta esperienza o dall’aver scopiazzato? Semplice. Guardatevi la serie e quando troverete la puntata in cui il protagonista viene chiamato Sherman da un pezzo grosso che gli vuol far carriera ma sbaglia sempre il suo nome (e glielo scrive così pure sulla targa), ne riparleremo.

Quanto alla Pixar, le differenze con la serie di vent’anni fa ci sono e tante, è indubbio. Nel lungometraggio animato poi le emozioni non riguardano solo la protagonista, e toccano tematiche più problematiche. Ma il tanto clamore per questo film onestamente ho difficoltà a trovarlo. La fabbrica Pixariana intanto prosegue il suo viaggio. Il 25 novembre è pronto a sbarcare sul grande schermo Il viaggio di Arlo (The Good Dinosaur, di Peter Sohn), un cui footage sarà presentato in anteprima alla 10° edizione della Festa del Cinema di Roma (16-24 ottobre),


Il trailer di Inside Out

Inside Out - la giovane Railey nella sua nuova realtà scolastica
Inside Out - la Rabbia prende i comandi di Riley
Inside Out - (da sx) Tristezza, Paura, Rabbia, Disgusto e Gioia

venerdì 2 ottobre 2015

L'amore di Padri e figlie

Padri e figlie - Jake Davis (Russell Crowe) e la piccola Katie (Kylie Rogers)
Quanto è difficile amare dopo essere stati abbandonati? Ce lo spiega Padri e figlie, il nuovo film di Gabriele Muccino con Amanda Seyfried e Russell Crowe.

di Luca Ferrari

Un padre rimane vedovo troppo presto. Una figlia rimane orfana di madre quando ancora è una bambina. La vita di Jake Davis (Russell Crowe), scrittore premio Pulitzer malamente stroncato nel suo ultimo libro, e la piccola Katie (Kylie Rogers) non procede troppo bene. Problemi finanziari. Problemi di salute per l’uomo ed ecco che la più tipica delle potenziali infanzie spensierate si trasforma in un duro scontro con la vita. Padri e figlie, quarta pellicola “americana” diretta dal regista romano Gabriele Muccino.   

Tratto dalla prima sceneggiatura per il cinema del drammaturgo Brad Desch, Padri e figlie non è il classico viaggio che segue l’avanzare dell’età. Corre su due binari a distanza di vent'anni e nel mezzo c’è sempre lei. Katie  bambina, alle prese con lo sconfinato amore paterno e i due prepotenti zii Elisabeth (Diane Kruger) e William (Bruce Greenwood) che la vorrebbero portare nella propria casa, e Katie (Amanda Seyfried) studentessa di psicologia, decisa a curare il dolore degli altri (forse) per lenire il proprio.

Katie sguazza nei propri demoni. Di giorno è una professionista capace di abbattere anche i muri più insidiosi della psiche altrui, di sera si lascia andare a incontri occasionali evitando accuratamente qualsiasi coinvolgimento sentimentale. La sua vita prosegue così fino a quando non incontra Cameron (Aaron Paul), coetaneo e  giornalista freelance il cui ultimo libro scritto dall'amato padre, “Padri e figlie” appunto, gli ha cambiato la vita.

Muccino salta da un tempo all'altro, destreggiandosi abilmente tra le due età. Tenendole unite con garbata gentilezza. E quella bicicletta su cui prima Katie si fa spingere da Jack, e poi è lei a muoverla regalando un sorriso alla sua problematica (e abbandonata) paziente (Quvenzhané Wallis), ha tutte le sembianza di una macchina del tempo.

Padre e figlia vivono entrambi un dolore. Persa la propria metà, Jack è solo. A stargli vicino c'è la sua agente Theodora (Jane Fonda). Al contrario si deve guardare dai costanti assalti dei cognati, capaci perfino di sfidarlo in tribunale per ottenere la custodia di Katie facendogli capire chiaramente la potenza delle loro risorse economiche: “Noi abbiamo più soldi di Dio”.

Prima la madre, poi il temporaneo allontanamento e successiva morte del padre. Katie ha sofferto troppo. È terrorizzata di perdere chi ama. Volontariamente adultera, si fa lasciare dal fidanzato. Va quindi in scena il crollo più totale. Si trucca nel peggiore dei modi facendo il pieno d’alcol. Si regge a piedi a stento. È sul punto di accettare una serata promiscua salvo poi “venir richiamata” da una canzone nel juke-box che ascoltava da piccina. Ecco allora la rabbia uscire dall’anima vocale e cacciare via i neo-compagni di bevute. Ce l’ha con se stessa. Le sue lacrime sono acide fiamme su guance esauste.

Amanda Seyfried si è fatta conoscere al grande pubblico duettando al fianco di Meryl Streep in Mamma Mia! (2008). Nell’opera Hooperiana Les Misérables (2012) commuoveva oltre modo. Nel recente e più che modesto Ted 2 (di Seth MacFarlane) era l’unica a lasciare davvero il segno. Non è da meno in Padri e figlie dove regala un’altra notevole prova attoriale.

Impossibile poi non rivedere nella performance del premio Oscar Russell Crowe scampoli del John Nash che magistralmente interpretò in A Beautiful Mind (2001, di Ron Howard). I suoi attacchi sono al limite dell'epilessia. Il movimento convulsivo del braccio destro (a dir poco drammatico quando non riesce neanche a firmare un autografo) ci rimandano a una stessa persona: un uomo malato che non ha smesso di lottare e amare.

Con Padri e figlie Gabriele Muccino sembra davvero aver dato l'addio all’Italia. Un film lontano anni luce dalle miserie generazionali de L’ultimo bacio (2001). Un film dove chi sbaglia ha il coraggio di ammetterlo, rialzandosi. Guardando negli occhi la vita senza bugie. Scegliendo la strada dell’amore con il proprio carico di ombre e l’onestà del proprio passato che per quanto doloroso, non potrà comunque più tornare.

Ultima nota. Finiamola con il luogo comune che "l'uomo può vivere una vita senza amore" e la donna no, come dice zia Elisabeth alla nipote. La sola differenza semmai è che gli uomini tendono a nascondere di più certi sentimenti ma provano e vivono con la stessa intensità del gentil sesso.E siamo in tanti a pensarla così. Più di quello ceh voi fanciulle possiate immaginare.

Il trailer di Padri e figlie

Padri e figlie - Katie (Amanda Seyfried) e la sua piccola paziente (Quvenzhané Wallis)
Padri e figlie - Katie (Amanda Seyfried)
Padri e figlie - Jake Davis (Russell Crowe)

giovedì 1 ottobre 2015

Ho visto cose a Venezia72

Lido di Venezia, bye bye Mostra del Cinema - saluti da Johnny Depp © Federico Roiter
Viaggio nei momenti cult della 72° edizione della Mostra del Cinema, e poi spazio ai miei due servizi pubblicati sul settimanale internazionale L'Italo-Americano.

di Luca Ferrari

È da quando ho iniziato a seguire il mondo del cinema che i miei anni lavorativi li calibro rispetto alla Mostra del Cinema, così, quando il festival lagunare batte l'ultimo ciak, ahimè, la malinconia mi assale. Come se tutto dovesse ricominciare. E in effetti così è. Parto per le ferie e quando torno mi ritrovo in una realtà assurda il cui ultimo ricordo riguarda una sala cinematografica.

Dando per scontato che i vincitori del festival già li conosciate e non volendo essere troppo pesante, vi racconto in 10 momenti quello che ho vissuto:
  1. La delusione più grande: l'indifferenza ostentata al film d'apertura, Everest
  2. L'attore più bravo: l'inglese Eddie Redmayne (The Danish Girl), “a rischio” bis di premio Oscar dopo La teoria del tutto (2014)
  3. L'attrice da tenere d'occhio: la yankee Amber Heard (The Danish Girl), non è solo la moglie di Johnny Depp. Ma proprio no
  4. Il film che ho perso e ancora mi rode: l'nchiesta giornalistica sui preti pedofili di Spotlight di Tom McCharty con Rachel McAdams Mark Ruffalo, Michael Keaton e Stanley Tucci
  5. La canzone più bella: la versione corale da chiesa di Nothing Else Matters (Metallica) ascoltata in più di una occasione nel film Sangue del mio sangue (di Marco Bellocchio)
  6. Il film pompato più noioso: l'italiano A Bigger Splash (di Luca Guadagnino). La macchietta carabiniere poi che non capisce nulla, ha anche stufato
  7. La scena più commovente: la telefonata in Everest tra Keira Knightley (incinta) e Jason Clarke, quest'ultimo prossimo alla morte sotto la neve
  8. Il film più emblematico: Go with Me (di Daniel Alfredson). Uno scontro dove la vittima può solo spazzare via il proprio aggressore. Un mondo dove il dialogo non potrà mai essere la soluzione risolutiva. Una tragica lezione contemporanea di vita
  9. Il momento più intenso: l'evento collaterale in memoria di Claudio Maleti, realizzato da Angelo Bacci. Uno squarcio di vita che ha visto la partecipazione della cittadinanza e non
  10. Il ricordo più bello: una serata tra amici italiani e russi "insieme” al Blasco Vasco Rossi
1 ottobre '15. Ancora una volta la Mostra del Cinema si è dimostrata un corpo estraneo rispetto alla città e questo per chi abita a Venezia e ama il cinema è la più grande delusioei. È evidente il disinteresse di coinvolgere l'intero apparato insulare (Venezia, Lido e Pellestrina) con eventi e manifestazioni fin dall'inizio della stagione estiva. La mostra del Cinema arriva, stazione e poi sparisce senza lasciare traccia.

E adesso, prima che diventi troppo melodrammatico, godetevi qualche altro scatto del mio valente collega fotografo Federico Roiter, che dal 2008 segue insieme al sottoscritto il festival con la forza della passione. E per concludere alla grande, godetevi la latettura i miei due articoli pubblicati sul settimanale internazionale L'Italo-Americano.

Questa sera si ritorna davanti al grande schermo. È tempo di scrivere nuove recensioni.


Mostra del Cinema, il rocker Vasco Rossi © Federico Roiter
Mostra del Cinema, il vincitore del Leone d'oro, il regista Lorenzo Vigas © Federico Roiter
Mostra del Cinema, la vincitrice della Coppa Volpi, Valeria Golino © Federico Roiter
L'Italo-Americano, il servizio sui film italiani di Luca Ferrari - foto di Federico Roiter
L'Italo-Americano, il servizio sulla Mostra del Cinema di Luca Ferrari - foto di Federico Roiter