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venerdì 27 maggio 2016

Il tempo di Alice attraverso lo specchio

Alice attraverso lo specchio - Alice Kingsleigh (Mia Wasikowska)
L'amico Cappellaio è malato. Basta avventure marinaresche allora, Alice è pronta per tornare in Wonderland attraverso lo specchio (2016 diretto da James Bobin).

di Luca Ferrari

Amicizia. Destino. Coraggio. Mondi paralleli. Esseri umani o creature fatate, siamo tutti fatti di sentimenti e paure. Tutti desideriamo essere amati e stare insieme ai nostri cari, e quando qualcosa non va come dovrebbe, le reazioni non sempre sono le stesse. Basato sul romanzo Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (di Lewis Carroll), a distanza di sei anni dal primo Burtoniano Alice in Wonderland, James Bobin dirige Alice attraverso lo specchio (2016).

Rientrata dal paese delle Meraviglie, Alice Kingsleigh (Mia Wasikowska) è da anni una coraggiosa donna di mare. Capitano del vascello Wonder, degna erede dell'amato padre passatto a miglior vita. Al suo rientro a Londra però ad attenderla, oltre a mamma Margareth (Jemma Powell) c'è una gran brutta sorpresa per mano e potere del suo ex-spasimante Hamish (Leo Bill), oggi maritato con Lady Ascot (Geraldine James).

Qualcosa però nell'altra dimensione sta accadendo. L'amico Cappellaio Matto (Johnny Depp) è in pericolo, e il Brucaliffo (la cui voce originale fu l'ultima interpretazione di Alan Rickman), è nella City alla ricerca di Alice per indicarle la strada. Al suo arrivo, gli amici di sempre: lo Stregatto, il Bianconiglio, Humpty Dumpty, Mirana la Regina Bianca (Anne Hathaway). Nel vero senso della parola, sarà una corsa contro il tempo per salvare l'amico. Esattamente, il tempo qui è una persona (Sacha Baron Cohen).

Il Cappellaio è triste perché nessuno gli crede. Sostiene che la sua famiglia sia viva quando lui stesso ha sempre detto ad Alice che era morta. Per la ragazza umana dunque si spalancano le porte di una nuova grandiosa avventura che la farà viaggiare indietro nel tempo, scoprendo così anche certe impensabili verità come la ragione del perché la Regina Rossa (Helena Bonham Carter) sia così perfida, perché abbia la testa così grossa e perché ce l'avesse tanto con il Cappellaio.

Quando la Disney fa la Disney senza mettersi a contaminare la Pixar che già possiede una struttura cine-narrativa del tutto differente, i risultati sono all'altezza per entrambe. Dopo i recenti Maleficient (2014, di Robert Stromberg) e Cenerentola (2015, di Kenneth Branagh), eccola rituffarsi nell'universo Carolliano, in attesa (magari) di uno spin off dedicato a lei e solo lei, Helena “Iracebeth” Carter.

Ricevere il testimone da Tim Burton con cui il il proprio lavoro verrà messo a confronto, non è impresa facile. James Bobin (Muppet, Muppets 2 – Ricercati, MIB23) accetta la sfida e il risultato è una storia piacevole, capace di scorrere tanto sui binari delle interpretazioni attoriali e la loro alchimia, quanto su varie sfaccettature dell'umanità (o comunque delle creature), debolezze incluse.

Rigido demiurgo, il Tempo col passare dei minuti si fa sempre più malleabile pasticcione, a tratti “HugoCabretteschi” (il cui ispettore Gustav è sempre interpretato da Coen). Ma come nel primo capitolo, a salire in cattedra è sempre lei Iracebeth, la Regina Rossa. Donna capricciosa? Si. Ma anche giovane ferita e umiliata dal popolo che avrebbe dovuto accoglierla come monarca, non lasciandole altra strada che il risentimento e la vendetta.

Già lupo “Disneyano” in Cenerentola, Johnny Depp riprende un ruolo che ben si sposa con la proria bizzarra natura. Meno mattatore ma più delicato. Tragico e giullare. Doloroso e allegro. Il suo Cappellaio vive, cade e cresce. Al suo fianco Alice è la risorsa che fa la differenza nella propria vita. Un pugno ben assestato allo stomaco della rigida e maschilista società inglese, a cominciare dal coloratissimo abito indossato al party degli Ascot.

Tutti almeno una volta avremmo voluto tornare indietro nel tempo per sistemare le cose ed evitare magari qualcosa che ci ha segnato la vita per sempre. E se invece non si potesse proprio fare? Certo, è così ma allora perché ci facciamo tentare da queste facili paludi che non portano a nulla se non a un crogiolante rimpiangersi addosso? Non sarebbe più semplice imparare da ciò che è già stato e iniziare a scrivere subito una nuova pagina del presente?

Nulla è deciso per sempre. Non esistono libri in cui il nostro futuro sia incatenato in un sentiero ordito da chissà quali poteri oscuri o superiori. Il passato si, quello è immutabile. E il tempo che passa non è per forza un nemico verso cui sfogare le frustrazioni del passato, ma potrebbe diventare un giardino dove far germogliare i sogni del domani. Lo specchio si può attraversare in qualsiasi momento. Basta decidere di voler riconoscere un Brucaliffo e sancire cosa davvero è per ciascuno di noi.

Il trailer di Alice attraverso lo specchio

Alice attraverso lo specchio - il Cappellaio (Johnny Depp)
Alice attraverso lo specchio - la Regina Rossa (Helena Bonham Carter)

venerdì 20 maggio 2016

X-Men, i mutanti lottano per la pace

X-Men Apocalisse - il potente primo mutante En Sabah Nur (Oscar Isaac)
Uniti si può cambiare il mondo nel nome di un’esistenza pacifica. L’alternativa è l’Apocalisse, per gli X-Men (2016, di Bryan Singer) e per gli esseri umani.

di Luca Ferrari

Ancora una volta il potere di uno vuole tutti schiavi. La storia non cambia mai. Le dittature cadono. Anche il potere più becero un giorno si sbriciolerà. Almeno questa è la speranza. Almeno questa è la possibilità finché esisteranno uomini, donne ed esseri mutanti capaci di credere prima, e agire poi, uniti. Mettendo da parte le differenze di facciata. Siamo diversi. Tutti. Ed è questo il bello di tutti noi. Terzo e ultimo capitolo della seconda trilogia del genere, X-Men – Apocalisse (2016, di Bryan Singer).

En Sabah Nur (Oscar Isaac), il primo mutante della Storia è tornato ed è pronto a fare piazza pulita di tutto e tutti. Gli unici che intende risparmiare sono i suoi simili più potenti. Coloro che si alleeranno con lui. E se gli altri non sono d’accordo, peggio per loro. L’umanità ha fatto il suo tempo. Questa razza umana figlia di leader deboli e collezionisti di armi di distruzione di massa deve far posto ha una nuova era.

Inizia così l’ultimo capitolo della seconda trilogia dedicata ai mutanti (prima in ordine temporale). Scampato il pericolo di un futuro letale, Charles Xavier (James McAvoy) è di nuovo a dirigere la scuola speciale, aiutato dal fido Hank McCoy (Nicholas Hoult). Raven (Jennifer Lawrence) intanto, smesse le sembianze di Mystica, si da alla liberazione di altri suoi simili usati come bestie da circo. Anche il fu Magneto, Erik Lehnsherr (Michael Fassbender) ha provvisoriamente messo da parte i propri poteri per condurre un’esistenza normale e soprattutto lontana.

Tutto cambia quando quest’ultimo per salvare un uomo, rivela le proprie doti e il corso degli eventi farà si che torni a essere dominato dall’odio e la vendetta verso gli umani. È allora che si alleerà con l’invulnerabile En Sabah Nur, formando lo squadrone dei quattro cavalieri dell’Apocalisse insieme a Ororo-Tempesta (Alexandra Shipp), Betsy-Psylocke (Olivia Munn) e Warren-Angelo (Ben Hardy).

Nuovi promettenti X-Men buoni intanto stanno studiando per diventare grandi. Tra di essi, Scott Summers (Tye Sheridan), fratello di Alex, e soprattutto Jean Grey (Sophie Turner), dal potere fortissimo ma al momento ancora incapace di reggerne il peso. A questi si aggiunge il fuggitivo (via Raven) Kurt Wagner (Kodi Smit-McPhee), detto Nightcrawler. Al loro fianco c’è anche l’indomita agente dell’FBI Moira MacTaggert (Rose Byrne), del cui passato al fianco di Xavier, non ricorda nulla.

È solo questione di tempo (poco). En Sabah Nur ha in mente lo sterminio di massa. La razza umana non ha i mezzi per reggere una simile onda di distruzione. Tutte le speranze sono affidate al telepate Xavier e i suoi giovani aiutanti. Non c’è spazio per il dialogo. C’è solo la decisione di un essere che si erge a dio sovrano del mondo. Chiunque al suo cospetto è chiamato a prendere una decisione. Tradire il padre originale o rifiutare quel mondo fatto di imperfezioni.

A distanza di un paio di settimane dall’uscita di Captain America: Civil War, la Marvel torna sul grande schermo con un altro prodotto. La differenza c’è e si vede. Se l’aramda dei supereroi appare più un prodotto da mero entertainment salvo qualche rarissima eccezione, la saga dei mutanti è differente. Una cinematografia più ricercata, e diretta da personaggi più all’altezza. Una cinematografia che non cerca il sensazionalismo ma attinge al campionario di emozioni umane per lasciare una traccia.

Anche se non c’è la guerra, non c’è la pace” dice un Eric sempre più amareggiato. Come non vedere similitudini nella nostra vita? Non parlo del facile terrorismo, mostro impazzito su cui tutti dovrebbero prendersi le proprie responsabilità per averlo creato, parlo della vita quotidiana dove flotte di famiglie sono alla canna del gas e l’economia delle banche stritola milioni di persone, senza poi manco pagare le conseguenze come ha ben raccontato l’eccellente La grande scommessa (2015, di Adam McKay). Magari questa non è una guerra, ma di sicuro sta gettando le basi per crearne di future.

Dopo la superlativa prova nel biopic Steve Jobs (2015, di Danny Boyle) e la trasposizione Shakespeariana del Macbeth al fianco della premio Oscar Marion Cotillard, l’irlandese Michael Fassbender (Hunger, A Dangerous Method, 12 anni schiavo) offre un’ulteriore prova delle sue capacità attoriali. Le lacrime che gli colano sul viso irsuto sono l’anticamera di una vendetta. Una strada pericolosa e letale cui sono l’amore della sua famiglia adottiva dei mutanti potrà sedare.

Se Fassbender svetta a livello recitativo, il personaggio cruciale è Raven-Mystica. È cresciuta. È decisa. È pronta a sacrificarsi. Tocca a lei fare la mamma chioccia alle nuove leve. È la sola che in principio riesce ad avvicinarsi a Magneto senza scatenare le sue potenti reazioni. È la sola che ha il coraggio di guardarlo fisso negli occhi e dirgli le sue intenzioni: andrò a combattere per quello che mi resta, e tu?

E poi c’è lei, Jean. Il suo potere era già noto nella trilogia adulta dove era interpretata da Famke Janssen, questa volta tocca alla giovane Sophie Turner. È fragile ma non si sottrae a ciò che è. Ha le stesse capacità mentali di Xavier ma ancora più accentuate. Non cercare di controllare il tuo potere, accettatelo! le viene suggerito. Se En Sabah Nur scatenerà l’Apocalisse sulla Terra, le sue doti avranno l’occasione di dimostrare ciò che è veramente.

I film sugli X-Men sono soprattutto dei mondi sulle diversità. Ai tempi del primo album dei Nirvana, Bleach (1989), ricordo ancora una buffa dichiarazione del cantante-chitarrista Kurt Cobain che parlando di sé e gli altri membri del gruppo si paragonava a dei mutanti per come erano e si sentivano (alienati). Non essendo mai stato (né lo sono ora) un appassionato di fumetti, all’epoca non avevo idea a cosa si stesse riferendo però quella frase mi rimase impressa.

Adesso ne capisco il significato. Gli X-Men sono una minoranza emarginata, e come tale viene vista con sospetto e spesso discriminazione. C’è chi reagisce tendendo comunque la mano e chi sposa la linea o con me o contro di me. In questo i mutanti sono uguali agli esseri umani, e la soluzione, se vogliamo evitare le tante piccole apocalissi del genere umano, è il dialogo. Oggi e per sempre.

Guarda il trailer di X-Men - Apocalisse

X-Men Apocalisse - (da sx) Raven (Jennifer Lawrence), Moira MacTaggert (Rose Byrne),
Charles Xavier (James McAvoy), Alex Summers (Lucas Till) e Hank McCoy (Nicholas Hoult)
X-Men Apocalisse - Tempesta (Alexandra Shipp), En Sabah Nur (Oscar Isaac) e Psylocke (Olivia Munn)
X-Men Apocalisse - Jean (Sophie Turner), Nightcrawler (Kodi Smit-McPhee) e Scott (Tye Sheridan)

martedì 17 maggio 2016

Le bugie di Where to Invade Next

Where to Invade Next - il regista americano Michael More
Lo yankee Michael Moore invade il "paradiso terrestre" dell'Europa, dove le donne italiane lavorano leggiadre e partoriscono spensierate. Where to Invade Next (2016).

di Luca Ferrari

Otto settimane di ferie pagate. Beneplacito delle aziende alle gravidanze. Luna di miele di due settimane retribuita. Pausa pranzo di due ore a casa propria. Ma che è ‘sta roba, l’Italia? Si, l’Italia che Michale Moore mostra nelle prime battute del suo nuovo documentario Where to Invade Next (2016). È il Bel paese infatti la prima tappa dell’invasione del regista premio Oscar per Bowling for Columbine (2002). Un’invasione per imparare ciò che gli americani proprio non comprendono. Un’invasione a dir poco disarmante fatta di luoghi comuni, bugie e analisi superficiali.

Il corpulento regista del Michigan, da sempre spina nel fianco delle potenti lobby a stelle strisce, ci ha abituato a critiche spietate a una certa logica (Destra) americana eppure in questo suo nuovo lavoro, Where to Invade Next (2016), scivola proprio su quel senso di onnipotenza che ancora fa parte dei cittadini d’oltreoceano. Di fatto portando acqua al mulino della propria terra, e dipingendo l’Europa come una candida copiona dotata di quei valori umani ormai invece perduti negli USA.

Where to Invade Next comincia il suo viaggio a bordo di Trenitalia in una nazione da quasi 10 anni in crisi economica, dove i diritti dei lavoratori sono ormai una barzelletta e le associazioni sindacali scendono in piazza solo per dare un senso al proprio stipendio (tanto finché è pieno di allocchi che abboccano, ndr). Una realtà dove negli asili nido c’è sempre più posto per carenza di materia prima. Ma di tutto questo il sig. Moore non fa minimo cenno.

La formula è quella di mostrare un paese europeo e confrontarlo con gli Stati Uniti, novello Impero del Male dove i bambini delle mense americane mangiano schifezze e le persone vengono picchiate in modo brutale. Francia e Norvegia al contrario sono paradisi in Terra dove i giovanissimi scolaretti si cibano con deliziosi manicaretti e i poliziotti scandinavi nei carceri di massima sicurezza lavorano beati a contatto coi detenuti in un clima da Libro cuore più diabetico che mai.

Michael prende l’aereo. Si siede a tavola. Entra nel cuore delle città europee ma si ferma al giardino d’ingresso senza nemmeno prendersi la briga di chiedersi se ci sia un po’ di polvere sotto lo zerbino. È superficiale in modo quasi vergognoso, e ciò che è peggio, si comporta esattamente come quelli che critica, ma lo fa ovviamente con astuzia. Gli Stati Uniti saranno anche allo sbando morale, ma d’altronde non sono loro quelli che parlano di felicità nella propria Costituzione?

La prima tappa del regista sono due cittadini italiani ben imboccati sul chiedersi come sia possibile che un europeo possa voler emigrare negli USA per lavorare. Qui in Italia d’altronde c’è tutto (lo dico io, ndr): mafia, classe politica incapace di cambiare un paese alla deriva, patrimonio culturale e naturale svalutato ma ehi, ci sono anche gli spaghetti e il mandolino. 

Eh si. È sempre così che vogliono vederci gli americani. Artisti, amanti, festaioli. Il tanto decantato La grande bellezza (di Paolo Sorrentino) non è un caso abbia spopolato nella terra invasa da Cristoforo Colombo nel lontano 1492, poiché mostra l'Italia che tutti si aspettano ancora di trovare. Torna a trovarci caro Michael, vieni nei sobborghi delle nostre città, vieni a visitare i nostri centri di accoglienza, vieni a conoscere lo sfruttamento lavorativo. Vieni a conoscere il nostro sistema pensionistico. Vieni vieni, e vedrai come respingerò la tua invasione di balle.

Il trailer di Where to Invade Next

Where to Invade Next - Michael More in una scuola francese
Where to Invade Next - Michael More a casa di una coppia italiana

venerdì 13 maggio 2016

Civil War, il sangue degli Avengers

Civil War –  Captain America (Chris Evans) vs. Iron Man (Robert Downey Jr.)
Obbedienza ai poteri istituzionali o libera missione di salvare il mondo? Gli Avengers si dividono e il sangue sgorgherà. Captain America: Civil War (2016, di Anthony e Joe Russo).

di Luca Ferrari

Può un supereroe agire solo ed esclusivamente con il beneplacito della Legge istituzionale? E se dietro il potere ci fosse l’interesse, che succederebbe? È ciò che si trovano a dover scegliere/decidere perfino gl’integerrimi Avengers, i Vendicatori, baluardo della razza umana contro le minacce più letali. E se poi in mezzo a siffatti dilemmi si mettesse di traverso pure l’amicizia, la frittata è fatta. Anzi, lo scontro è servito. Captain America: Civil War (2016, di Anthony e Joe Russo).

Sono tutti degli eroi: Steve Rogers-Captain America (Chris Evans), Tony Stark-Iron Man (Robert Downey Jr.), l’agente special Natasha Romanoff-Vedova Nera (Scarlett Johansson), Sam Wilson-Falcon (Anthony Mackie), James Rhodes-War Machine (Don Cheadle), il “pensionato” Clint Barton-Occhio di Falco (Jeremy Renner), Visione (Paul Bettany), Wanda Maximoff-Scarlet (Elizabeth Olsen) e Scott Lang-Ant-Man (Paul Rudd).

La loro ultima missione (di alcuni di essi) in Nigeria però ha avuto delle gravissime conseguenze in fatto di morti civili. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU scende allora in campo per mettere la museruola ai Vendicatori, facendo in modo che operino solo ed esclusivamente quando richiesto. Non usa mezze parole il Segretario di Stato Thaddeus Ross (William Hurt) ma le risposte/reazioni dei supereroi non sono tutte uguali. A peggiorare le cose, un attacco alle Nazioni Unite stesse, pare, per mano del Soldato d'Inverno Bucky Barnes (Sebastian Stan), amico d’infanzia di Rogers.

Si formano due fazioni capeggiate da Captain America e Iron Man. Non tutti però mantengono posizioni definite. Non c’è solo un ideale di giustizia tra loro, c’è anche un legame umano e non è ammissibile che da un momento all’altro tutto ciò venga spazzato via. Ma quando lo scontro pare inevitabile, ecco arrivare pure dei volti nuovi, a cominciare dal giovanissimo e spregiudicato Spider-Man (Tom Holland) e una misteriosa Pantera Nera, alla ricerca di vendetta contro Bucky.

Gli Avengers vengono messi sulla graticola. Tony Stark neanche ribatte alla decisione (imposizione) politica. "Abbiamo degli ordini, dovremmo obbedire!" diceva severo Cap nella sua prima missione a fianco di Iron Man, il quale ribatteva spregiudicato "Obbedire non è nel mio stile!". Totale capovolgimento di fronte. Il soldato diventa idealista, l'egocentrico china la testa. Com'è possibile?

Difficile credere che il geniale inventore (playboy, filantropo) non si fosse mai posto la domanda se le sue azioni non avessero causato morti innocenti. Cade quasi dalle nuvole quando una mamma col figlio deceduto gli sbatte in faccia la truce realtà. Di lì in poi si piega senza colpo ferire, spazzando via tutta la propria eccentrica anarchia in un baleno. È capibile, ma difficilmente credibile in un lasso di tempo così ridotto.

Può aver ragione Visione nel dire che il potere dei Vendicatori attiri l’ego di tanti super-criminali, cosa per altro che già ribadita da Thor davanti ai colleghi e Nick Fury (Samuel L. Jackson), specificando a chiare lettere che fu proprio il lavoro terrestre sul famigerato Tesseract ad aver attirato il suo pazzo fratello Asgardiano e i suoi alleati, “È un segnale a tutti i regni che la Terra è pronta per nuove forme di guerra più evolute” ammoniva. Eppure, dinnanzi all’ennesima minaccia, che cosa fanno le Nazioni Unite? Invece di prendersela e agire sui cattivi, stringono il cerchio a chi difende la gente.

Cola il sangue. Gli amici diventano nemici. Casualità o abile piano di terzi? La forza degli Avengers è sempre stata il gruppo e adesso invece? Non sono imbianchini con un compito preciso. I Vendicatori non operano per trarre vantaggi a titolo personale. Si sono dovuti unire anni addietro e non fu facile agli esordi. Sono cresciuti insieme e adesso è tempo di dimostrare ancora una volta che sono dei super uomini e donne per una ragione: sanno respingere gli attacchi e colpire uniti. O almeno questa è la speranza.

Captain America: Civil War è più storia. Meno effetti speciali rispetto all’esagerato e anemico Age of Ultron (2015), lontano anni luce dal corale e notevole The Avengers (2012, di Joss Whedon). E visto che non è che tutti siamo fumettari incalliti come Howard Wollowitz o Sheldon Cooper, io e moltissimi altri vorremmo capire perché non ci sono Thor e Hulk. Non facevano parte anche loro della squadra dei Vendicatori? Si parla appena dell’assenza del gigante verde mentre del dio normanno nemmeno una parola.

Rispetto ai capitoli precedenti le sinergie tra personaggi cambiano. Al centro, la contrastata amicizia tra Bucky e Rogers, di cui quest’ultimo si sente ancora responsabile per quanto gli accadde agli albori del suo essere diventato Captain America. Il “bimbo Ragno” è il classico adolescente che vuole impressionare l’adulto talent scout (Iron Man). Infine è al limite del “vorrei ma non posso” la protettiva vicinanza tra Visione e Scarlet.

Più che sugli scontri fisici, la pellicola ambisce a essere un contrasto tra prospettive diverse ma il cattivo alla fine c’è e per quanto Helmut Zemo (Daniel Brühl) faccia appello a tutta la propria sete di rivalsa mortale e giochetti per imbrigliare i Vendicatori in uno scontro fratricida, non è minimamente paragonabile al mefistofelico Loki. Può sembrare un discorso trito e ritrito, ma qualunque filmone Marvel con tanti personaggi non potrà mai esimersi dal confrontare il proprio villain con il semidio incarnato in modo superbo da Tom Hiddleston.

Il film complessivamente è lento e forse sarebbe stato il caso di operare una mezz’ora buona di tagli. Non oso immaginare il 3D. Spendere soldi per vedere Captain America: Civil War in tridimensionale è al limite del non senso. Il dialogo ha la meglio sull’azione e i tanti scontri corpo a corpo non hanno bisogno di nessuna particolare magia digitale. La Marvel ha smarrito la strada dell’originalità da un pezzo ma finché la gente paga il biglietto, perché smettere? La curiosità fa si che il demerito passi in secondo piano.

Tanti personaggi e molte sfaccettature in Captain America: Civil War, alla fine però la lezione è una e unica. Lo capiva l’agente speciale Johnny Utah (Keanu Reeves) nello scontro con il ricercato-amico Bodhi (Patrick Swayze) in Point Break (1991, di Kathryn Bigelow). A dispetto dei colpi bassi, lo sapevano sempre i due rivali guareschiani Don Camillo e Peppone. Si confronteranno al riguardo anche i supereroi Marvel.

Captain America: Civil War ci regala lezione che ognuno deve trovare dentro di sé. Tutti saremo chiamati un giorno a dover decidere tra cosa è giusto e cosa è meglio, e non è detto che tutti apprezzeranno la strada su cui c’incammineremo. Avere davanti a sé una persona che ha/aveva la nostra stima di certo darà un tono diverso alla sfida ma non sono queste d’altronde le vere missioni umane? Il resto non è che uno scornarsi senza esito. Potremo anche incrociare i pugni e versare sangue ma sarà sempre e solo l’anima a dover avere l’ultima parola.

Guarda il trailer di Captain America: Civil War

Civil War – Iron Man (Robert Downey Jr.) soccorre l’amico War Machine (Don Cheadle)
Civil War – Scarlet (Elizabeth Olsen), Captain America (Chris Evans
e il Soldato d’inverno (Sebastian Stan)

martedì 10 maggio 2016

Jessica Chastain, lo charme di Wilde Salome

68° Mostra del Cinema - Jessica "Wilde Salome" Chastain © Biennale foto ASAC
Presentato in anteprima alla 68° Mostra del Cinema, giovedì 12 maggio sbarca sul grande schermo Wilde Salome (2011, di Al Pacino) con una magnifica Jessica Chastain.


Recitazione. Charme. Bellezza. Sono passati quasi cinque anni da quando Jessica Chastain incantò la 68° edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia (31 agosto – 10 settembre) con la sua interpretazione in Wilde Salome (2011, di Al Pacino), direttamente dalla più controversa e scandalosa opera del drammaturgo irlandese Oscar Wilde. Adesso è arrivato il giorno per tutti di poter ammirare quella pellicola, in sala da giovedì 12 maggio (Distribuzione Indipendente).

Lussuria. Avidità. Vendetta. Il premio Oscar Al Pacino racconta e interpreta la leggenda di Re Erode e del suo folle-perverso desiderio per la giovane figliastra Salomé, innamorata a sua volta del predicatore Giovanni Battista (Anderson). “Salomè è il mio tentativo di fondere l’opera teatrale e il cinema” ha dichiarato l’immortale Al (Il padrino, Serpico, Scent of Woman), “Fare in modo che questo ibrido funzioni è stato il mio obiettivo: unire tutta la qualità fotografica del cinema a quell’essenza dell’acting che è propria del teatro”.

Wilde Salome (88’) si è aggiudicato a Venezia il premio Queer Lion riscuotendo inoltre un notevole successo tra critica e pubblico. Nel cast, oltre all’attrice protagonista, anche Kevin Anderson, Roxanne Hart, Estelle Parsons, Barry Navidi, Joe Roseto e con la partecipazione straordinaria di Merlin Holland (biografo, editore, nonché unico nipote di Oscar Wilde) e la rockstar Bono, che insieme ai “compari” U2 ha realizzato il brano Salomè per la colonna sonora del film.

A risplendere e far risplendere Wilde Salome è lei, Jessica Chastain. Fattasi conoscere al grande pubblico nelle tremule vesti della succube moglie di uno spietato Brad Pitt in The Tree of Life (2011, di Terrence Malick), l’attrice classe ’77 di Sacramento ha lasciato nuovamente il segno poco tempo dopo nei panni di una bianca svampita in mezzo al razzismo di The Help (di Tate Taylor), performance questa che le è valsa la sua prima nomination ai Golden Globes, BAFTA e premi Oscar.

Un anno decisivo il 2011 nella carriera dell’attrice. Jessica è sul grande schermo anche in Coriolanus (di Ralph Fiennes) e in due pellicole entrambe presentate alla 68° Mostra del Cinema: Le paludi della morte (Texas Killing Fields, di Ami Canaan Mann) e appunto Wilde Salome. Non passano neanche due anni e la Chastain centra un altro trittico di nomination ai Globes-BAFTA-Oscar per il drammatico Zero Dark Thirty (2012, di Kathryn Bigelow), portandosi questa volta a casa “almeno” il Golden Globe.

Di lì in poi, una costante ascesa nell’Olimpo della settima arte caratterizzata da ottime doti recitative, uno charme magnetico quasi di un’altra epoca e una capacità di non apparire mai fragorosa, ma semplicemente di essere nel modo più naturale possibile. 

Dalle atmosfere spaziali di Interstellar (2014, di Christopher Nolan) e Sopravvissuto – The Martian (2015, di Ridley Scott), passando per 1981: Indagine a New York (2014, di J.C. Chandor) e il poco incisivo Crimson Peak (2015, di Guillermo del Toro), fino al recente fantasy de Il cacciatore e la regina di ghiaccio (2016, di Cedric Nicolas-Troyan), Jessica Chastain è sempre più indiscussa protagonista nelle storie del grande schermo.

68° Mostra del Cinema - Jessica Chastain © Federico Roiter
68° Mostra del Cinema - Al Pacino e Jessica Chastain per Wilde Salomè © Biennale foto ASAC
68° Mostra del Cinema - Al Pacino e Jessica Chastain per Wilde Salomè © Biennale foto ASAC
68° Mostra del Cinema - Jessica Chastain e Al Pacino per Wilde Salome © Biennale foto ASAC
68° Mostra del Cinema - Jessica Chastain è pronta per il red carpet © Biennale foto ASAC
Jessica Chastain sul red carpet della 68° Mostra del Cinema © Biennale foto ASAC
68° Mostra del Cinema - Jessica Chastain all'anteprima di Wilde Salome © Biennale foto ASAC

venerdì 6 maggio 2016

Lo stato contro Fritz Bauer, la caccia continua

Lo stato contro Fritz Bauer - Il procuratore generale Fritz Bauer (Burghart Klaußner)
Un ostinato procuratore è deciso a stanare gli ex-nazisti fuggitivi. Un impegno che non tutti plaudono, anzi. Lo stato contro Fritz Bauer (2015, di Lars Kraume).


La peggiore delle serpi è quella che si annida nella propria tana. È proprio perché ti fidi. È proprio perché ti può spiare ogni giorno che la sua fetida presenza sa essere più letale degli effettivi criminali. Nel dopoguerra del genocidio ebraico, un coraggioso procuratore tedesco sta concentrando tutte le sue energie alla ricerca dei criminali nazisti, molti dei quali liberi come fetide carogne. Basato su fatti realmente accaduti, è uscito al cinema Lo stato contro Fritz Bauer (2015, di Lars Kraume).

Germania Ovest, fine anni ’50. In piena Guerra Fredda col Muro di Berlino a dividere gli alleati degli Stati Uniti dalle nazioni filo-sovietiche, c’è ancora un conflitto da portare a termine. Qualcosa cui il Processo di Norimberga ha solo in parte messo la parola fine. Ci sono ancora molti nazisti in libera circolazione. Non solo in Europa (su cui però la politica mostra un atteggiamento di strana tolleranza), ma anche nel resto del mondo, in particolare in Sudamerica.

Sulle loro tracce, oltre ai Servizi Segreti del neo-stato d’Israele c’è anche il procuratore generale Fritz Bauer (Burghart Klaußner), ebreo tedesco. Nei corridoi vicini al proprio ufficio però, molti funzionari anche di alto livello non vedono troppo di buon occhio il suo lavoro e sfruttano l’autorità della propria posizione per intralciarlo. In prima linea in questa missione, il filo-nazista Ulrich Kreidler (Sebastian Blomberg) e l’ex-SS Paul Gebhardt (Jörg Schüttauf).

Bauer ora sta puntando a un pesce grosso, Adolf Eichmann, l’artefice dell’organizzazione dei convogli della morte. L’uomo che organizzò i treni dei deportati verso i campi di sterminio di Auschwitz, Bergen-Belsen, Dachau, Mauthausen, etc. Arrivata l’indagine a un punto morto, un’improvvisa lettera da uno sconosciuto gli fanno riaprire il caso ma neanche il supporto del fidato collega, il procuratore Karl Angermann (Ronald Zehrfeld) è sufficiente. Bauer decide così di rivolgersi al Mossad, i sevizi segreti israeliani, macchiandosi d’inevitabile alto tradimento.

È una corsa contro il tempo e contro tutti: politici, burocrati e ostruzionisti. Una qualsiasi fuga di notizie potrebbe far nuovamente prendere il volo all’ex-gerarca. Per chiudere la partita bisogna agire in modo concreto e deciso. Bauer lo è. Che al governo del cancelliere Konrad Adenauer piaccia o meno, lui vuole Eichmann per processarlo a Francoforte, Mossad permettendo. E se la legalità non lo consente, allora al diavolo i canali diplomatici. Al diavolo il rispetto di facciata. Alle volte per sentirsi davvero guariti serve la medicina più amara. Per i superficiali è solo la vendetta di un ebreo, per chi ha davvero cuore la neo-Germania, è la ferrea volontà di scrivere un nuovo futuro.

Lo stato contro Fritz Bauer (2015, di Lars Kraume) è un film ricco di suspense, con una sontuosa interpretazione del suo protagonista principale. La sua pecca? Le note finali. Troppo poche e banali. L’epilogo di Eichmann la conosciamo tutti. Perché non dire qualcosa di più degli altri gerarchi scomparsi “nel nulla”? E che fine fa Angermann, inguaiatosi pur di spronare l’anziano collega a non abbandonare la “caccia ai nazisti”?

Il procuratore generale Fritz Bauer è un ariete. Al giorno d’oggi un’analoga crociata sarebbe soffocata sul nascere, come in Italia accadde nel 1992 ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Perché allora questo trattamento differente? La ragione è molto semplice. In quegli anni la  non si poteva certo permettere un assassinio di un procuratore che stava indagando sugli ex-criminali nazisti.

Bauer è circondato da colleghi-nemici, alcuni dei quali ex-appartenenti al Terzo Reich. Bauer viene criticato anche dai giovani tedeschi che vedono nella sua missione un gettare fango (per non dire peggio) sulla propria nazione. Un atteggiamento questo che ricorda molto le folli esternazioni dell’allora Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, quando disse cose analoghe sulla Mafia. Come se a tacere certe atroci realtà sparissero.

Al contrario è proprio l'autentico patriottismo di Bauer a spingerlo ad andare avanti contro tutto. Vuole sentirsi parte di una Nazione che abbia il coraggio di guardarsi allo specchio senza essere ostaggio di un’ombra DorianGreyana. Bauer vuole una Repubblica Federale Tedesca capace di affrontare l’orrore del Nazismo. Vuole una nazione capace di processare le proprie deviazioni antisemite. Bauer vuole una Germania capace di autogiudicarsi colpevole per ciò che Hitler e sua ciurma di macellai compirono in un ventennio di orrore e sangue.

Mai come quest’anno è tornato così prepotente il tema dei film sulla questione ebraica, e tutto per di più nell’anno del cinquecentenario del ghetto ebraico di Venezia. Ad aprire le danze è stato Woman in Gold (2105, di Simon Curtis), seguito dal pluripremiato Il figlio di Saul (di László Nemes). Poi è stata la volta de Il labirinto del silenzio (di Giulio Ricciarelli), film a livello temporale di poco antecedente al suddetto e con il procuratore Bauer co-protagonista. E infine, non va dimenticato Lui è tornato (di David Wnendt), inquietante lungometraggio su un ipotetico ritorno in vita nel terzo millennio del Fuhrer in persona.

I film storici al cinema mi attirano molto. Ho vissuto 13 anni di Guerra Fredda, quindi posso dire che un po' di Storia moderna ne no vissuta però è indubbio, e sarei falso se non lo scrivessi visto che a parole lo sostengo spesso, che il grande schermo si concentri ancora troppo sull’orrore nazista lasciando le briciole a conflitti e avvenimenti che meriterebbero eguale attenzione.

Alcuni esempi? Il colonialismo europeo tra Africa e Sudamerica che fu una mattanza minimizzata, per poi arrivare a tutte quelle storie, evidentemente fastidiose, del post 1945. Penso al genocidio armeno, ancora oggi negato dai suoi esecutori materiali, la Turchia, su cui di recente è uscito il commovente Il padre (di Fatih Akim), un film praticamente ignorato. Analogo comportamento per l'altrettanto toccante e lacrimevole, The search (di
Michel Hazanavicius), ambientatato nell'orrore della guerra cecena

I campi di concentramento non sono nati in Germania e dopo di allora ce ne sono stati ancora, eppure solo una minima fetta di popolazione mondiale sa qualcosa al riguardo e allora perché affianco di un’indubbia ecatombe umana, la Shoah, non si può anche parlare d’altro? Perché la Germania ogni anno deve auto-flagellarsi col Nazismo e gli Stati Uniti non fanno un mea culpa su cosa ha significato (e significa ancora) aver sganciato due bombe atomiche sulla testa del Giappone?

Lo so, lo so. Non è il cinema che può cambiare il mondo ma riflettete un momento. Un film come Lo stato contro Fritz Bauer mi ha portato a simili ragionamenti e io ho li riportati qui, con la speranza che in tanti possano leggerli e a loro volta ragionarci e discuterne ancora. Di sicuro l’ennesimo film di forzuti in tutine aderenti non porterà il pubblico a simili pensieri, anzi peggio, li convincerà una volta di più che per migliorare il mondo serva un essere fuori dalle righe e con poteri soprannaturali. È una menzogna.

Adolf Hitler era un mingherlino ometto austriaco e guardate cosa ha fatto. Fritz Bauer era un uomo di legge un po’ avanti con l’età disposto a lottare fino allo stremo per l’integrità della propria nazione, e guardate cosa ha fatto. Nessuno dei due era stato punto da insetti o sottoposto a chissà quali potenzianti esperimenti. Loro hanno cambiato il corso della Storia, chi nel male e chi nel bene. Lo stato ha provato a (ri)mettersi contro Fritz Bauer ma ha perduto.

Guarda il trailer de Lo stato contro Fritz Bauer

Lo stato contro Fritz Bauer - i filo-nazisti Gebhardt (Jörg Schüttauf) e Kreidler (Sebastian Blomberg)
Lo stato contro Fritz Bauer -
Il procuratore generale Bauer (Burghart Klaußner) e il procuratore Angermann (Ronald Zehrfeld)

martedì 3 maggio 2016

La foresta dei sogni suicidi

La foresta dei sogni - Arthur Brennan (Matthew McConaughey)
Viaggio dantesco nel tortuoso percorso dell’uomo a tu per tu con la propria fine, sperduto ne La foresta dei sogni (2016, di Gus Van Sant) e, forse, alla ricerca di un'ultima speranza.

di Luca Ferrari

Il dolore ha avuto la meglio nella vita di Arthur ed è ora tempo di ammainare la sempre più flebile bandiera della propria esistenza. Lui ha pianificato ogni dettaglio. Il posto. Il modo. Il giorno. Se è davvero deciso ad andare fino in fondo, sarà il confronto tangibile col baratro a sancirlo. Presentato alla 68° edizione del Festival di Cannes, giovedì 28 aprile è uscito sul grande schermo La foresta dei sogni (2016, di Gus Van Sant).


Arthur Brennan (Matthew McConaughey) aveva una vita e una moglie, Joan (Naomi Watts). Qualcosa però non ha funzionato. L’imprevisto più tragico (e non solo) lo hanno portato a uno stato di abbandono senza ritorno e incapace di reagire. Per uscire dall’incubo non c’è che una soluzione. Arthur compera un biglietto per il Giappone, destinazione la famigerata foresta di Aokgigahara, chiamata anche la Foresta dei Sogni. Sogni già, quelli eterni. Qui infatti molta gente viene a suicidarsi.

Arthur è deciso a seguire la medesima via. Vi entra per non uscirne. Prende un sentiero inibito al personale non autorizzato. Cammina. Osserva. Si siede. Guarda il panorama. Ha con sé solo una boccetta di pillole e una bottiglietta d’acqua per ingurgitarle tutte, una dopo l’altra. Quando le prime sono già in circolo, qualcosa lo interrompe. Un rumore. Un passo strascicato. Un uomo dolorante. Il suo nome è Takumi Nakamura (Ken Watanabe).

Pur perfetti sconosciuti, tra i due s’instaura subito un legame intenso. Entrambi sono lì per la ragione più desolante, eppure qualcosa sembra ancora battere (dentro). Impressione o banale parentesi? Takumi si è perso e chiede aiuto. Vuole uscire. Dice di voler tornare dalla sua famiglia. Arthur non si tira indietro. Il cielo intanto promette tempesta, ed ecco la natura rivelarsi nel suo approccio più spietato a tu per tu con l’uomo in balia di se stesso. Due uomini abbandonati ma uniti possono mutare un destino già deciso?

La vita come l’Inferno. Il viaggio nella selva oscura come Purgatorio. La possibile uscita da essa come ambizione del Paradiso. Il regista Gus Van Sant (Will Hunting - Genio ribelle, Scoprendo Forrester, Promised Land) si è spesso ispirato alla più tragica realtà per mettere mano alla telecamera (Elephant, Milk, Last Days). In questa sua nuova opera, ispirata agli effettivi e numerosi suicidi consumati nella suddetta foresta nipponica, mette l’essere umano a contatto con il sé più profondo. La foresta fa da sfondo ed è protagonista. È letale e allo stesso tempo un ecosistema dove possono sbocciare nuovi germogli di vita.

Da belloccio sciupafemmine e indiscusso protagonista di commedie leggere (Prima o poi mi sposo, Come farsi lasciare in 10 giorni, A casa con i suoi), Matthew McConaughey è ormai da tempo passato sulla sponda del cinema impegnato, fin da quel Killer Joe (2011) di William Friedkin. Di lì poi è stata una sequela di volti drammatici, scelta che lo ha portato a vincere il più che meritato premio Oscar come Miglior attore protagonista in Dallas Buyers Club (2013, di Jean-Marc Vallée).

Arthur Brennan è un aspirante suicida. Arthur non sale su di un ponte vicino casa gettandosi di sotto. Arthur non compera una pistola e se la punta alla tempia. Arthur è alla ricerca di un finale a metà strada tra sofferenza e poesia. Lascia le chiavi dentro la macchina parcheggiata in aeroporto. Non vuole nemmeno consumare i pasti sul velivolo. Nonostante tutto ciò, una parte (inconscia) di sé crede ancora nella luce. La ricerca dello scenario perfetto forse nasconde una speranza cui la ragione non già fa più vedere.

“Then a deamon/come to me/ You must know/ I’m gonna win – Poi un demone venne da me, tu devi sapere che io vincerò” sibilava la corrosiva voce di Layne Staley (1967-2002) sulle note strazianti di Lifeless death (Mad Season). Chi vincerà: il male verso se stessi o è una dichiarazione di sfida alla vita? La canzone va interpretata, la vita pure, o forse meno. La vita non è teoria ma inappellabile pratica. Arthur intraprende un viaggio decisivo. Quale che sia l’esito, emergerà qualcosa di mai visto fino a ora.

Tutti nella vita arriveremo (o siamo già arrivati) al classico punto di rottura dove il domani è solo uno scantinato chiuso senza finestre né porta d’accesso. Vorremmo che la nostra caduta si arrestasse e invece va avanti. E quando finalmente delle viscide rocce nere ci riportano al contatto con la realtà più spietata, nulla ha più senso. Quel momento potrà segnare la definitiva fine o l’inizio di un tortuoso e nuovo cammino. Un momento che se superato ci farà cercare una nuova strada e dunque nuovi sogni, o nella peggiore delle ipotesi ci lascerà perduti per sempre nella foresta del sonno eterno.

Entra nel mondo de La foresta dei sogni

La foresta dei sogni - Takumi Nakamura (Ken Watanabe) e Arthur (Matthew McConaughey)
La foresta dei sogni - Joan (Naomi Watts) e Arthur (Matthew McConaughey)