“Potrò anche perdere la mappa ma non per questo interromperò la mia ricerca. Potrò anche provare ogni genere di fallimento, ma nessun muro sarà mai abbastanza alto perché possa abbassare la testa credendo di non poterlo abbattere e andare oltre”.
Lo vive un coraggioso e giovane giornalista. Lo sto pensando io. Lo potresti dire anche tu. Potremmo essere tutti la stessa persona. E in effetti lo siamo dinnanzi alle sfide della vita. Tutti a bordo allora del film Le avventure di Tintin: il segreto dell’unicorno (2011), di Steven Spielberg. Un giovanotto coraggioso. Un fidato amico a quattro zampe.
Un lupo di mare con il vizio della bottiglia. Un regolamento di conti passato di vascello in generazione. (rin)Corse mozzafiato tra cielo, terra e acqua. Gl’ingredienti ci sono tutti per un’avventura come si deve. E poco importa se i protagonisti sono animati in motion capture e non in carne ossa. Archiviato il più che penoso “Indiana Jones e il tempio di Cristallo” (2008), Steven Spielberg torna a volare alto dirigendo una pellicola tratta da tre albi della striscia a fumetti di “Le avventure di Tintin”, dello scrittore belga Georges Prosper Remi (1907 – 1983), meglio conosciuto con il nome d’arte, Hergé. Un legame forte questo tra il regista de Lo squalo e Tintin, personaggio al quale venne paragonato proprio l’archeologo interpretato da Harrison Ford fin dalla sua prima avventura (I predatori dell’Arca perduta, 1981).
Come per il recente Super 8 diretto da J.J. Abrahms e prodotto dallo stesso Spielberg, così in “Le avventure di Tintin: il segreto dell’unicorno”, diretto da Spielberg e prodotto da Peter Jackson, a dare il primo sussulto non è una sequenza della pellicola in proiezione, ma il logo di un ragazzino in sella a una bicicletta con un qualcosa (E.T.) sul cestino. Mera nostalgia anni ’80 o qualcosa di più nascosto? C’è una voglia diversa di non abbandonarsi a un claudicante fatalismo qualunquista che sembra prendere sempre più piede in questa nuova era. Così, ecco che magicamente (umanamente) sale in cattedra la linea dell’agire deciso dinnanzi ai problemi. Sentendosi addosso, anche senza la superflua presenza del 3D, la polvere della fatica sulla propria camicia. E Tintin, per sua fortuna, è fuori posto in questo nuovo millennio conteso tra improbabili bellocci immortali e sbiadite comparse quotidiane. Tintin non ha i superpoteri degli eroi Marvel. È solo un reporter dotato di caparbietà, intraprendenza, sprezzo del pericolo e un po’ di sana incoscienza al momento del “o la va o la spacca”. Emblematica la scena quando salito su di un aereo insieme a uno spaventato Capitano Haddock, il giovane si mette a sfogliare velocemente un manuale di volo, tranquillizzandolo l’amico con le parole “ho intervistato un pilota una volta”.
Ma come per tutti, anche Tintin arriva a un punto della propria vita in cui non ha più un piano. Non sa più come andare avanti. Il suo ottimismo si piega all’evidenza di una realtà avversa. “Realista è un modo diverso di dirsi rinunciatario” lo sprona Haddock. E lì succederà. È la scintilla dell’ingegno. Della riscossa. Qualcosa cambierà. Perché non è mai davvero finita se non siamo noi per primi a dire basta. C’è sempre un indizio trascurato che spalanca un nuovo orizzonte pieno di risposte. Cercatemi se volete. Mi troverete proprio lì.