Vendetta e odio. Dittatura e manipolazione. Quando la futura Roma non era che una lontana antenata dell'Impero che sarà, un solo popolo in Europa era tanto evoluto e capace per poter tener testa alla più abnorme armata che si fosse mai vista sulla Terra. Nel V secolo a. C. l’esercito persiano del dio-re Serse era pronto a conquistare l'Occidente. A sbarrargli la strada c’era un solo piccolo dettaglio, la Grecia. Un piccolo e fatale dettaglio.
Ispirato alle pagine della graphic novel Xerxes di Frank Miller e annessa sceneggiatura di Zack Snyder, il regista israeliano Noam Murro dirige 300 – L'alba di un impero (2014), midquel cinematografico della epica battaglia alle Termopili tra i 300 spartani e le armate di Serse. L'azione questa volta si svolge soprattutto sulle acque del Mar Egeo, dove Temistocle e la sua flotta affrontano la regina Artemisia.
La prima epica avventura Miller-Snyderiana si era conclusa con l’eccidio dei 300 spartani e il successivo salto temporale con il solo sopravvissuto a quel massacro, Delios (David Wenham), a capo della decisiva battaglia sulla piana di Salamina. La storia ricomincia in parallelo a 300. Mentre Sparta non accetta compromessi nell’unirsi alle altre città Stato e il prode Leonida (Gerard Butler) aspetta Serse alle Termopili, gli ateniesi guidati da Temistocle (Sullivan Stapleton) affrontano il nemico tra le onde dell’Egeo.
Ad attenderlo, l’implacabile Artemisia (Eva Green). Una greca adottata da re Dario. Il primo che provò a conquistare la Grecia ma che rimediò la disfatta di Maratona e soprattutto una freccia mortale scagliatagli contro da Temistocle. Artemisia non è mossa dalla sete di conquista. Ha un conto aperto con tutta la Grecia. La sua famiglia fu sterminata. Lei ancora bambina violentata e resa schiava. Abbandonata e ridotta in fin di vita, fu trovata e allevata da un persiano. Morto Dario, Artemisa ha convinto Serse (Rodrigo Santoro) della sua origine divina e ora sta muovendo la più formidabile flotta del mondo per radere al suolo la Grecia.
300 – L'alba di un impero. Inconcepibile il titolo. La parola 300 non c'entra nulla ed è chiaro il bisogno di riagganciarsi al film precedente per far capire al pubblico di cosa si tratta, evidenziando così una carenza strutturale prima ancora di cominciare. Ma ancor meno c'entra il resto. Di che impero stiamo parlando? Quello persiano non è certo all'alba. E se il riferimento volesse riguardare (molto alla lontana) Alessandro Magno (ellenico), bisognerà aspettare più di due secoli, quasi tre.
Il 3D non fa miracoli specie quando di “ciccia” ce n'è poca, e il risultato infatti non è per niente da tramandare ai posteri. Meno testosterone e addominali scultorei rispetto a 300 ma molti più ettolitri di sangue versati di tutte le tonalità. Quanto a carisma, il confronto tra i leader maximi greci è tutto in favore di Leonida.
Ho partecipato a un gioco pericoloso e ho perso, sentenzia Temistocle di fronte alla sempre più probabile disfatta greca. Una guerra che cambierà il suo corso grazie all'arrivo degli Spartani guidati da una regina in cerca di vendetta. Si, lei. Gorgo (Lena Headey), la vedova di Leonida. La politica non le interessa. Le belle parole ateniesi ancor meno. Lei è una spartana e combatte.
300 – L'alba di un impero. Ancora una volta è di scena la sfida tra i Davide e i Golia. Un filone che al giorno d'oggi, fantasy o reale che sia, riscuote molto successo “causa” ampia similitudine. I Golia aumentano ogni giorno, i Davide sono invece più desaparecidos che mai. Al massimo ci sono flebili vittorie di Pirro. Gesti eclatanti senza futuro. Imprese memorabili che al massimo illudono, e poi si spengono in fretta.
Ancora più macabramente contemporanea la considerazione di Temistocle su ciò che sta accadendo in guerra: Stiamo trasformando i giovani in ricordi. Duemilacinquecento anni dopo, qui, nell'Europa del XXI secolo, è lo stesso. Ma non per colpa di un sanguinario esercito invasore. Economie dissennate, xenofobia populista e governi incapaci stanno sempre più rendendo il Vecchio Continente una terra schiava e senza futuro per i giovani.
Guarda il trailer di 300- L'alba di un impero
300 - L'alba di un impero - Artemisia (Eva Green)
300 - L'alba di un impero
300 - L'alba di un impero - Temistocle (Sullivan Stapleton)
X-Men – Giorni di un futuro passato (2014, di Bryan Singer)
Siamo uniti solo dalla misera volontà di dividerci. E se gli X-Men provano a cambiare i Giorni di un futuro passato, noi stupida razza umana proprio no.
"Siamo destinati a distruggerci l'un l'altro o possiamo cambiare ciò che siamo e unirci? Il futuro è davvero già scritto?" si domanda avvilito Charles Xavier/Professor X (Patrick Stewart) nel settimo capitolo cine-Marvelliano della saga mutante, X-Men – Giorni di un futuro passato (2014, di Bryan Singer). Loro hanno poteri soprannaturali e agiscono. Ma anche se non li avessero, qualcosa farebbero comunque. E noi invece, sapiente razza umana? Noi ci nascondiamo nella più nobile ignoranza.
Noi, uomini e donne. Lacerati ancora da egoismi inter-nazio-regio-provi-comu-quartie-casa-personali. Il nostro destino è scritto. Una lenta e dolorosa estinzione. Più sofferta per molti di noi ma alla fine sarà il disfacimento totale. E quando ci ritroveremo in un gigantesco campo di annichilimento, ripenserete a oggi. A ieri. Al domani che avremmo potuto creare e che non ci potrà più essere. Mai e poi mai. Mai più.
Cronaca di un fottuto 2014. Divisioni in Ucraina. Divisioni in Francia. Divisioni in Italia. Barricate e guerriglia ovunque. Siamo uniti più di quanto si possa immaginare. Siamo uniti solo nel voler essere divisi. Siamo uniti nel desiderio comune di piantare barriere e inchiodarle nella mente e nel corpo di chiunque si avvicini. Qui nessuno passa. O come diceva in American History X (1998, di Tony Kaye) il neonazista skinhead americano Derek Vinyard (Edward Norton) al compagno (ebreo) della madre, Murray (Elliott Gould): Qui non sei gradito! E allora andiamo avanti così.
Il 23 maggio prossimo esce il settimo capitolo della saga dei supereroi mutanti, X-Men – Giorni di un futuro passato(2014, di Bryan Singer). La trama è tanto semplice quanto drammatica e attuale. Logan/Wolverine (Hugh Jackman) viene spedito nel passato dai capi delle due fazioni rivali di mutanti, Charles Xavier/Professor X (Patrick Stewart) ed Eric Lehnsherr/Magneto (Ian McKellen), per far sì che i rispettivi se stessi da giovani (James McAvoy e Michael Fassbender) non inizino la guerra che alla fine li abbatterà.
Siamo destinati a distruggerci l'un l'altro o possiamo cambiare ciò che siamo e unirci? Il futuro è davvero già scritto? recita lo slogan del film. Un film appunto, dove un eroe tormentato e buono torna indietro nel tempo per provare a mettere la parola pace nell’esistenza del mondo intero. Qui da noi sul Pianeta Terra invece le cose vanno un po’ diversamente. Peggio di così possono ancora andare. E ci andranno.
I governi si accusano a vicenda d’invasioni. Possiamo continuare a raccontare la Shoah ogni anno, ma a che serve se poi quell’umanità che si erge a baluardo dei diritti umani poi contribuisce a genocidi e incrementa il mercato della violenza? Vince la logica del potere. Si parla della Shoah perché lo stato d’Israele possa continuare ad esercitare la sua politica d'invasione. Non si parla del genocidio bosniaco perché gli slavi non sono per nulla influenti nello scacchiere internazionale. Non si parla quasi mai del genocidio armeno per non irritare troppo la Turchia, potente partner economico.
Nella fantasia ci pensano gli X-Men. Sul grande schermo arriva X-Men – Giorni di un futuro passato (2014, di Bryan Singer). A chiunque ne condividerà con me la visione, avviso che è probabile piangerò. So che non ci sarà la spietata violenza di 12 anni schiavo(2013, di Steve McQueen). Piangerò pensando al futuro che non cambia dinnanzi all’odio e le divisioni. Piangerò pensando alla stupida egoistica natura umana.
E qui, dalla mia postazione giornalistica italiana, assisto ogni giorno agli sproloqui di partiti o pseudo tali che si ergono a liberatori da logiche di potere. Senza fare nulla di niente se non aizzare all’odio, alla diversità e alla divisione. Dalla fine della II Guerra Mondiale l’umanità è stata unita solo da un unico elemento: la volontà di dividersi, a meno che qualcosa di ancor più spietato del razzismo ignorante non dilaghi sul pianeta s’intende, come accadeva in Indipendence Day (1996, di Roland Emmerich).
Tutto il mondo era sotto assedio di poco gentili extraterrestri. Sembrava non esserci via d’uscita fino a quando l’esperto di telecomunicazioni David Levinson (Jeff Goldblum) non riuscì a individuare un segnale nascosto e gettare così le basi per una controffensiva planetaria. Tutto sembrava andare nella giusta direzione ma quando rimase l’ultimo missile da scagliare, erano tutti a secco. Solo il pilota semi-alcolizzato (e un tempo rapito dagli alieni) Russell Casse (Randy Quaid) rispose all’appello col fuoco decisivo.
Qualcosa però non va. Il missile è inceppato. E allora val bene il sacrificio della propria vita pur di dare un futuro alla razza umana. L’uomo decide e agisce. Prima chiede al Centro Comando di recapitare un messaggio d’amore ai propri figli, poi si lancia contro la navetta madre aliena per porre fine all’invasione. Ecco, quelle stesse parole di Russell le regalo a voi tutti assassini del futuro del mondo: Usando un’espressione della mia generazione, ficcatevelo nel culo!
Indipendence Day (1998) - il sacrificio di Russell Casse
X-Men – Giorni di un futuro passato (2014, di Bryan Singer)
American History X - il neonazista Derek Vinyard (Edward Norton)
Il cinema italiano della 70. Mostra del Cinema si rimette in viaggio destinazione Zagabria. A guidare la rassegna, il film vincitore del Leone d’Oro, Sacro GRA.
Vivido racconto di trascurate realtà quotidiane. Delicata poesia montanara tra mondi fragili segnati da un destino comunque di abbandono. La "charlottiana" essenza di chi non si vuole arrendere alla perdita della propria dignità lavorativa. La grande tradizione documentaristica del Belpaese, e per finire l’ancora troppo attuale realtà della corruzione. Il cinema incanta. Venezia immortala.
Dopo le rassegne internazionali organizzate in Brasile, Corea del Sud, Cina, Libano e Russia, oggi i film della 70. Mostra del Cinema di Venezia sbarcano per la prima volta in Croazia. Da giovedì 27 fino a domenica 30 marzo 2014 presso il Cinema Kino Europa di Zagabria. Un evento questo organizzato dalla Biennale di Venezia in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura in Croazia.
A guidare il cartellone di sette film, il vincitore del Leone d’oro, Sacro GRA di Gianfranco Rosi. Presente anche un altro film in concorso, L’intrepido di Gianni Amelio con protagonista un coinvolgente, quasi “forrestgumpiano” Antonio Albanese. Dal ricco scrigno d’Orizzonti invece, il toccante La prima neve di Andrea Segre. Tre i film invece della sezione "Venezia Classic"i (documentari): Bertolucci on Bertolucci di Luca Guadagnino e Walter Fasano; Non eravamo solo… ladri di biciclette. Il Neorealismo di Gianni Bozzacchi,quindi Profezia, l’Africa di Pasolini di Enrico Menduni.
Infine non poteva mancare Le mani sulla città (1963), del Leone d’oro alla carriera, il regista napoletano Francesco Rosi. Dopo un restauro digitale a cura della Cineteca Nazionale di Roma, il film, Leone d’Oro alla 24° Mostra di Venezia, è stato presentato in prima mondiale in pre-apertura della 70. Mostra.
Prossima tappa, il sudest Asiatico. Ad aprile i film italiani della 70. Mostra di Venezia 2013 sono attesi a Singapore.
Bertolucci on Bertolucci (2013, di Luca Guadagnino e Walter Fasano)
Le mani sulla città (1963, di Francesco Rosi)
L’intrepido (2013, di Gianni Amelio)
Profezia; l’Africa di Pasolini (2013, di Enrico Menduni)
Il Neorealismo. Non eravamo solo… ladri di biciclette (2013, di Gianni Bozzacchi)
Her - Theodore (Joaquin Phoenix) e il sistema operativo Samantha
Un uomo s’innamora di un’intelligenza artificiale. Her, premio Oscar per la Miglior sceneggiatura originale a Spike Jonze. Cara lei, questa vita non fa per me.
C’è troppa tecnologia. Ne abusiamo ogni giorno sempre di più. E invece dell’aria aperta e i dialoghi con le persone, abbattendo le tante barriere del passato, parlo a te. E tu non esisti. Lo so che l’alta definizione e la perfezione del tuo rispondermi con pensieri propri è perfino più precisa di un essere umano, ma è proprio questo il punto. Tu sei astrazione. C’è qualcosa di dolorosamente sbagliato in questa strada.
Ai premi Oscar 2014 nessuno si è sognato di mettere in discussione l’Academy finito tra le mani del regista Spike Jonze per la Migliore sceneggiatura originale di Her. E ancora una volta le allucinanti logiche del business cinematografico italiano hanno collezionato l'ennesima perla, traducendo il titolo alla lettera, facendolo così diventare Lei.
Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) è un malinconico divorziato. L’ex-moglie Catherine (Rooney Mara) è un’affermata professionista. Scrive lettere per lavoro. Dal suo sconfinato bacino sentimentale creativo attinge ogni giorno per rendere speciali i momenti degli altri. Quello che non sai fare, insegnalo recita un vecchio mantra e Theodore lo mette in pratica alla perfezione fino a quando non compera un nuovo sistema operativo dotato di una sofisticatissima intelligenza artificiale, capace perfino di provare emozioni, rispondere e imparare da tutto quello che vede giorno dopo giorno.
Scelta una voce femminile, ecco entrare nella vita di tutti i giorni Samantha, con la voce originale di Scarlett Johansson e nella versione italiana di Micaela Ramazzotti. Da un iniziale imbarazzo si passa a confidenze, fino addirittura al sesso. Il distacco rende tutto più facile. La non fisicità e la distanza ci rende più facilmente amabili. Quando invece si accetta un appuntamento al buio con una donna (Olivia Wilde), di cui il regista non fornisce il nome, dopo un’iniziale simpatia, l’uomo si mostra per quello che è. Per nulla intenzionato ad andare oltre una “sveltina”.
Il solo vero contatto umano che ha ancora Theodore è con la vecchia amica Amy (Amy Adams). Un’amicizia nata ai tempi degli studi, e dunque più facilmente introspettiva. Perché Theodore ha scelto la strada del silenzio? Quant’è forte il dolore dentro di lui? Perché i suoi ricordi hanno la forma di una gabbia? Theodore è solo. La sua casa è un tempio buddista senza alcuna velleità di rinascita. Nessuna catarsi prevedibile a breve o lunga scadenza.
Il rapporto con Samantha esce dalle righe, incarnando alla perfezione lo spettro della felicità perduta. Samantha rappresenta proprio questo. La certezza di non poter più essere felici come siamo già stati, quindi tanto vale adattarsi a qualcosa d’inesistente. Quindi tanto vale provare qualcosa che mi farà continuare a restare nell’inoffensivo tepore del tempo perduto.
To Her/A lei,
"non troverò più nessuno come te, e questo lo sappiamo entrambi. Accumuliamo ricordi per avere un giorno abbastanza memoria da sapere che prima di addormentarci, potremo guardare ancora l’alba insieme. Le ferite sul mio corpo mi hanno reso libero di riflettere e odiare. Ogni volta che incontro qualcuno che non vedo da un pezzo, mi viene posta sempre la stessa domanda. Vi rispondo, ora. Una volta per tutte. Lo faccio ancora, con la stessa assenza di un finale".
Her (2013, di Spike Jonze). Mi sono svegliato e nessuno rispondeva più. Ho chiesto a un operatore informazioni, ma non c’era più nessuno. Sono salito allora sul tetto della mia abitazione e ho guardato in tutte le direzioni fuorché sotto di me. È stato strano. Mi sono sentito in preda allo sconforto, poi ho notato che a fianco a me c’era qualcuno. Siamo rimasti in silenzio per un tempo indefinito. Tu cosa faresti adesso?
Guarda il trailer di Her
Her - Theodore Twombly (Joaquin Phoenix)
Her - Amy (Amy Adams) e Theodore (Joaquin Phoenix)
Her - Theodore (Joaquin Phoenix) e una donna con cui esce (Olivia Wilde)
Her - Theodore (Joaquin Phoenix) e la moglie Catherine (Rooney Mara)
Crudele. Intenso. Spietato. Reale. Educatore. A ragione, pluri-premiato. Vincitore di tre premi Oscar come Miglior film, Miglior sceneggiatura non originale (a John Ridley) e Migliore attrice non protagonista (Lupita Nyong’o). Tratto dall’omonima biografia di Solomon Northup, 12 anni schiavo (2013). A dispetto di un certo ridimensionamento del libro (ancor più feroce), il regista inglese Steve McQueen (Hunger, Shame) racconta lo schiavismo negli Stati Uniti di metà ‘800 prima della Guerra di Secessione.
È stata la mia prima volta, lo ammetto. È stata la prima volta che mi sono dovuto imporre di andare al cinema perché ne avrei fatto volentieri a meno, ma non perché ritenessi 12 anni schiavo un film poco interessante, anzi. Ma per la violenza che sapevo esserci dentro. Per quella violenza reale e per niente cinematografica. La peggiore. Quella accaduta e ancor oggi troppo ignorata. E a dispetto delle 37 candeline già archiviate, temevo non di riuscire a sopportarne la visione. Alla fine sono andato, ho guardato e sono uscito ammutolito dalla sala 3 del cinema Rossini di Venezia come una sola volta in precedenza mi era accaduto, per Hotel Rwanda (2004, di Terry George).
Salomone Northup (Chiwetel Ejiofor) è un uomo libero. È un rispettato musicista. Ha una moglie e due figli. Vive a Saratoga (NY). Allettato da una proposta di lavoro, cade nell’inganno di due mercanti di schiavi. Da vestiti di sartoria si ritrova in una cella incatenato e trattato peggio di una bestia. Emblematiche le prime orribili bastonate. Danno proprio l’idea della meschinità e dell’odio. Della sottomissione imposta con la forza più vigliaccamente bruta, un uomo armato di pagaia e gatto a nove code contro un uomo legato.
Il negriero colpisce e infierisce finché Solomon non ammetterà di non essere un uomo libero ma uno schiavo fuggitivo di nome Plat. Da angoscia pura l’urlo disperato di Solomon, più che ancora per la sofferenza delle percosse, quando la ripresa sale dalla sua prigionia e lo si vede sepolto nella periferia abbandonata. Nessuno lo può sentire. Nessuno lo può aiutare.
Inizia il viaggio nell’orrore della schiavitù. Dalla compravendita del mercante di schiavi Theophilus Freeman (Paul Giamatti), al primo padrone, il buono William Ford (Benedict Cumberbatch). Ma se con questi s’instaura un rapporto di fiducia e senza frusta, non si può dire lo stesso con il giovane e spietato John Tibeats (Paul Dano), a guardia degli schiavi, che dopo uno scontro con Solomon, arriva quasi a impiccarlo impunemente.
Nonostante quest’ultimo venga salvato in extremis dal custode della piantagione, viene comunque lasciato per punizione al limite della sopravvivenza con la corda strette al collo fino a quando, dopo una giornata intera, non rientra il sig. Ford che si, lo libera ma non se lo vuole nemmeno più tenere. E così “ponzianamente pilato”, lo vende a Edwin Epps (Michael Fassbender), un feroce proprietario terriero “spezza-negri”.
Epps è spietato. Se i suoi schiavi non raccolgono abbastanza cotone o comunque meno del giorno precedente, vengono sistematicamente frustati. Beve. Ogni volta che può abusa sessualmente della schiava Patsey (Lupita Nyong’o). Quando vuole, li fa ballare come scimmie ammaestrate. È però succube della moglie Mary (Sarah Paulson) che ovviamente odia la giovane nera su cui il marito riversa le proprie attenzioni.
E così si arriva alla scena più atroce del film. Se fino a quel punto il mio livello di sensibilità ancora reggeva, tant’è che dentro di me mi ripetevo nella mente (mi aspettavo peggio), tutto ciò svanisce dinnanzi alla spietata fustigazione di Patsey, “colpevole” di essersi recata nella piantagione vicina per avere un misero pezzo di sapone per lavarsi visto che Mary Epps non le dava nemmeno quello.
La signora Epps è crudele oltre ogni limite. Incita il marito con le parole “uccidila di frustate” e lui è talmente vigliacco da ordinare a Solomon di colpirla al suo posto per dargli ancor più soddisfazione. Inizia la tortura. Legata al palo, Patsey urla disperata ma non può scappare. La frusta la ferisce. Le spacca la pelle. Le apre squarci nella schiena. Il sangue raggrumato le gonfia il corpo maciullato. E quando finalmente la foga di Epps si placa e la schiava cade distrutta per terra, una volta medicata con dei tamponi, le sue urla si fanno ancora più lancinanti. Urla di dolore. Urla di rabbia. Urla contro la sua vita così dolorosa. Urla di rassegnazione.
Petsy, frustata a sangue senza pietà. Dovremmo rivederla ogni giorno questa scena. Non per narcotizzarci al dolore, ma perché la prossima volta che ci troveremo dinnanzi a un abuso, quale che sia la sua natura, ci destiamo subito come se avessimo ricevuto noi una frustata su quel palo. La differenza però è che noi possiamo alzarci, ribellarci e combattere. Patsey e migliaia di migliaia di schiavi neri non hanno potuto. Sono stati massacrati senza pietà.
12 anni schiavo prosegue così, fino a quando Solomon non si troverà a lavorare nella piantagione anche con un bianco, Samuel Bass (Brad Pitt). Canadese e contrario alla schiavitù. Sarà lui che, pur timoroso, scriverà per conto di Solomon una lettera che farà si che la verità venga a galla e venga al fine liberato.
“Un film bellissimo, ma ti lascia addosso un senso di angoscia e ansia che è difficile far andare via” racconta Virginia Danese, danzatrice tribal nonché mediatrice culturale con gli immigrati e rifugiati politici “l’interpretazione di Chiwetel Ejiofor è stata davvero notevole. Per la sua emotività e interpretazione era difficile non entrare in empatia con lui. Le musiche e i canti gospel poi, hanno giocato un ruolo importante nel film, creando la giusta atmosfera.
Del tema in sé, che dire? Si capisce come la dignità, la libertà di una persona e il suo poter essere considerato un – essere umano – fossero legati esclusivamente al possesso o meno di un documento. Io sono tuttora paralizzata e senza parole per quanto inconcepibile sia pensare a una razza superiore a un’altra (e al concetto di razza in sé). Nessuno può e deve potersi arrogare il diritto di limitare la libertà di qualcun altro”.
Finisce 12 anni schiavo. Esci dal cinema e provi a riprenderti cercando nel mondo risposte sui progressi dei diritti umani. Ce ne sono stati, si, eppure lo schiavismo è ancora una tragica realtà del mondo. Forse non ci sono più i padroni ai livelli di Epps, eppure la tortura è praticata ovunque. E che cos’è poi un datore di lavoro che può metterti sulla strada in qualsiasi momento? E come si può chiamare vita un’esistenza in cui si ha a stento il tempo di baciare i propri figli la mattina per poi essere inghiottiti dai ritmi lavorativi con sempre meno tutela giuridica?
Steve McQueen ha realizzato un’opera importante. Niente momenti di quiete, risate o ironia alla Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino, anch’esso ambientato nella dimensione dello schiavismo. Due ore abbondanti di angoscia dove speri solamente che Solomon riconquisti la libertà. Già ma gli altri? Salito in carrozza verso la probabile salvezza, guarda Patsey e gli altri. Felice dentro di sé ma morente per lasciare gli altri compagni di prigionia fra gli artigli acuminati di Epps.
Lo schiavismo? C’è e c’è ancora. Non solo. Viene ancora taciuto, nel presente così come nel passato. Lo schiavismo brucia ancora perché non se ne parla abbastanza. Negli Stati Uniti s’intende. E il resto del mondo? Chi la racconta realmente la storia dei neri africani (da cui gli americani discendono) e di come l’illuminista Occidente seppe trattarli, gettando le basi per discriminazione e genocidi tramandati come “colonialismo”?
L’Europa di fine Ottocento ha fatto di più e di peggio. Oltre ad aver massacrato popoli, disegnò l’Africa con squadra e righello, ignorando totalmente tradizioni e culture. E ancora oggi il continente africano paga la ferocia europea mai portata sul banco di un tribunale, ma al contrario versandogli ingenti tributi attraverso volgari e dittatoriali intermediari quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale.
Schiavitù. Ci si vergogna a tal punto della schiavitù che nemmeno la si vorrebbe raccontare. Ma com’è allora che esiste ancora nel terzo millennio? E com’è che il becero razzismo, amalgamato sempre più anche all’odio verso un credo e un orientamento sessuale differente, trova posto persino nei palazzi del potere?
Nel film 12 anni schiavo di Steve McQueen la schiava Petsy viene frustata a sangue senza pietà. Riguardiamocela quella scena. Riguardiamocela fino a quando non sopporteremo di vederne neanche un micro-frammento. Allora si, saremo tutti pronti per alzarci, reagire e combattere contro ogni discriminazione e prepotenza. Allora si che saremo pronti per cambiare un mondo che nel 2014 è ancora dolorosamente troppo schiavo.
Saving Mr. Banks - Walt Disney (Tom Hanks) e Pamela Travers (Emma Thompson)
Saving Mr. Banks (2013) – Prima di permettergli di trarne un film, Pamela Travers volle essere certa che Walt Disney avesse davvero capito la sua Mary Poppins.
Infanzia ha sempre potuto fare rima con età adulta, ma questo dipende da ciascuno di noi. E se proprio non si fosse in grado di far dialogare maturità e fantasia, si può sempre chiedere una mano a Mary Poppins. E che la magica governante avesse questo straordinario potere, se ne rese conto anche un mastro creativo come Walt Disney che passò un quarto della propria vita a cercare convincere la sua autrice a cedergli i diritti per farne pellicola.
Ma che ci fa il papà di Topolino alla rigida corte (artistica) di una solitaria e misurata scrittrice australiana? Semplice, voleva mantenere una promessa fatta alle sue due figlie e trasportare sul grande schermo le pagine di Mary Poppins. La storia vide protagonisti Walt Disney e Pamela Lyndon Travers nel 1964. Cinquant’anni dopo il regista John Lee Hancock, sceneggiatore di Un mondo perfetto (1991), Biancaneve e il cacciatore (2012) e il recente Maleficent (2014), lo ha raccontato nel film Saving Mr. Banks.
Chiunque abbia una minima esperienza con la scrittura, sa bene che la propria esistenza è la più grande fonte d’ispirazione. Vale anche per Pamela il cui best seller Mary Poppins fu infarcito di vita privata, in particolar modo i personaggi principali. Quelli agli antipodi. La nuova governante e il rigido padre George Banks, che si richiamavano alla zia Ellie (Rachel Griffiths nel film) e l’amato papà.
Il fascino di quel manoscritto non ebbe confini e nella sua onda di consensi contagiò anche le figlie di un certo Walt Disney, moderno Babbo Natale del quotidiano che con la sua fantasia non solo sapeva conquistare il cuore e i sogni dei più piccini, ma parlava anche al lato più fanciullesco dei “grandi”. E Mary Poppins aveva tutti i requisiti per diventare un grande film. C’era però un enorme problema. La sua ideatrice non ne voleva proprio sapere di concedere i diritti.
Saving Mr. Banks (2013, di John Lee Hancock). Walt Disney corteggia la signora per vent’anni e se questa accetta di abbandonare Londra per andare finalmente a incontrarlo nell’assolata Hollywood è solo per bisogno di soldi, ma questo non significa che svenderà la sua opera, anzi. I patti sono chiari. Lei avrà l’ultima parola nella sceneggiatura. Ogni sequenza verrà passata all’acidulo setaccio del suo insindacabile giudizio e se qualcosa non la dovesse convincere, non ci metterà niente a tornarsene, spiantata, a casa senza concedere il via libera al film.
Emma Thompson è fantastica nell’incarnare fastidi e rigidità al cospetto della splendente fabbrica di meraviglie del munifico Disney (un bonaccione Tom Hanks). Ma dietro tanti spigoli, inevitabili si celano i sogni più candidi. Quelli di una fanciullezza segnata dall’alcol paterno e il tentato suicidio della madre. Lei adorava il papà. Un sognatore debole di carattere. Un sognatore in cerca di salvezza.
A Hollywood ci si dà del tu, ma non è per Pamela. Lei è la signora Travers, e questo se lo devono ricordare tutti. Dal tenero autista Ralph (Paul Giamatti) alla segretaria Molly (Melanie Paxon), passando per il co-sceneggiatore del futuro possibile film, Don DaGradi (Bradley Whitford) e i compositori della colonna sonora, i fratelli Richard (Jason Schwartzman) e Robert Sherman (B. J. Novak) fino a Disney stesso. Nessuna eccezione.
La regia di Hancock è un continuo andirivieni tra presente e passato, dove si rivede la scrittrice australiana con i boccoli biondi, incantata dalle storie fantastiche del padre, Robert Goff Travers (Colin Farrell) e meno incline in tenerezza verso la madre Margaret (Ruth Wilson). Dalla città la famiglia si sposta in una località semi-sperduta australiana ma i problemi di lui non accennano a placarsi, fino al più tragico degli epiloghi.
Sono passati decenni da quella vita ma Pamela ne è ancora profondamente segnata. Ha smesso di essere una bambina prima del dovuto. È stata genitore di una coppia fragile e morente. E se lei non ha potuto essere piccola, allora proverà a regalare quell’infanzia perduta al resto del mondo. Un senso di meraviglia perenne. Immune alle età. Ed ecco Mary Poppins.
Walt e Pamela. Due mondi fatti della stessa luce ma con un carico di ombre differenti. Come può una donna capace di creare una simile scintilla, essere così severa verso il mondo circostante? Walt ci perde il sonno. Non è per orgoglio. Non è l’occasione di un film mancato. Non è perseveranza. Al sig. Disney sta sfuggendo qualcosa. Pamela indossa una maschera. Cela un dolore. Adesso è arrivato il tempo di levarsela e ricominciare a vivere. Ripartendo proprio da Mary Poppins. Tutti insieme. Tutti a modo proprio.
Il trailer di Saving Mr. Banks
Saving Mr. Banks - la famiglia Travers
Saving Mr. Banks - l'autista Ralph (Paul Giamatti)
Saving Mr. Banks - la scrittrice Pamela Travers (Emma Thompson)
Saving Mr. Banks - Walt Disney (Tom Hanks)
Saving Mr. Banks - Walt Disney (Tom Hanks) e Pamela Travers (Emma Thompson)
Mary Poppins - Bert (Dick Van Dyke) e Mary Poppins (Julie Andrews)
Lui, Adolf Hitler, voleva tutto per sé. Loro, i Monuments Men volevano tutto per riconsegnarlo alla storia (dell’arte) dell’intera umanità.
di Luca Ferrari
Picasso, Michelangelo, la pittura fiamminga e impressionista. Il Terzo Reich aveva requisito tutto. Avidi barbari collezionisti saccheggiavano chiese e musei (Louvre incluso). L’ignominia nazista non risparmiò nemmeno l’arte. Volevano tutto il mondo per loro, patrimonio artistico incluso. E se non ci fossero riusciti, l’ordine era perentorio: bruciare e distruggere. Poi un giorno comparvero i Monuments Men, e anche quella Storia cambiò per sempre.
Monuments Men (2014, di George Clooney). Il fatto era poco noto alla massa prima che lo sceneggiatore Grant Heslov ne scoprisse il libro da cui è stata poi tratta la pellicola: Monuments Men. Eroi alleati, ladri nazisti e la più grande caccia al tesoro della storia (2009, di Robert M. Edsel). Così, si sono riuniti sotto la stessa telecamera i premi Oscar Clooney, Cate Blanchett, Jean Dujardin e Matt Damon insieme ai grandiosi Bill Murray, Hugh Bonneville, Bob Balaban e John Goodman.
Un nugolo di professionisti dell’arte viene catapultato nell’Europa devastata da bombardamenti per salvare dipinti e sculture dal fuoco nazista, e allo stesso tempo convincere gli Alleati a non causare ulteriori perdite al patrimonio artistico mondiale. Gente abituata a problemi di carattere museale o restauri ricomincia da un morbido addestramento militare in terra inglese, quindi sbarcano in Normandia e la missione può avere inizio.
La squadra è formata dal tenente-comandante Frank Stokes (Clooney), l’architetto Rich Campbell (Murray), lo scultore Walter Garfield (Goodman), un direttore artistico francese Jean-Claude Clermont (Dujardin) e il produttore Preston Savitz (Balaban). Supportati dall’amico di vecchia data, il luogotenente Donald Jeffries (Bonneville), a loro si unirà anche il giovane soldato Sam Epstein (Dimitri Leonidas).
Lontano dal fronte, l’abile curatore d’arte James Granger (Damon) sbarca nella Parigi liberata. Lì incontra l’ex-curatrice del Louvre, Clair Simòne (Blanchett), imprigionata perché accusata collaborazionista. È lei la persona chiave per intercettare un intero universo artistico trafugato dalle SS. Non si fida dell’americano. Vuole avere la certezza che una volta trovate, le opere torneranno in Francia.
La squadra dei Monuments Mens si divide tra Belgio, Olanda e Germania. La ricerca è disperata. Salvare il più possibile. Pale e arte moderna. Desapaercida la celebre Madonna di Bruges, opera scultorea d’inizio XVI realizzata Michelangelo nella Chiesa di Nostra Signora. Ma anche l’Armata Rossa è sulle tracce dell’arte, sebbene con fini più personali. Un piccolo assaggio di Guerra Fredda che finito il conflitto si svilupperà segnando più di un quarantennio di storia dell’umanità con annessa folle corsa agli armamenti nucleari.
Non manca l’ironia. Inevitabile quando si mettono nella stessa sala un inglese e un francese. Ma ancor di più è lo scontro statunitense-sovietico che sa di “soderberghiana” memoria. Quel mezzo sorriso dell’ufficiale dell’Armata Rossa beffato dagli scaltri yankee che gli lasciano in omaggio una splendente bandiera a stelle e strisce, non può non ricordare la scena di Oceans Twelve (2004) quando la banda di Ocean (Clooney e Damon presenti) sottrae quattro dipinti alla villa dell’abilissimo ladro NightFox (Vincent Cassel), e il suddetto ghigna divertito per quanto accadutogli.
Monuments Men è sbarcato sul grande schermo in un momento cruciale per l’Italia. In uno dei tanti cambi di governo, dove la storia dell’arte è stata messa sul banco delle materie sacrificabili. Già, proprio quell’Italia con il più alto numero di siti Patrimonio Mondiale per l’Umanità (49) che non avrebbe mai visto nascere i suoi geni di bottega se fossero stati trattati come tutti gli apprendisti contemporanei.
Come prevedibile Monuments Men è un film corale senza alcun acuto da prime donne. La pellicola lo richiedeva. La missione lo richiedeva. Qualcuno ci lascerà la pelle e la domanda allora è lecita: valeva la pena sacrificare una vita umana per salvare un quadro? La risposta spetta a ciascuno di noi. Ma se è un amico, un padre e lo stesso protagonista che si sacrifica a tramandarcelo, allora “forse” c’è proprio da crederci.
Venezia anteprima, Academy gloria. È successo ancora una volta. Gravity, film di apertura della 70° Mostra del Cinema, ha conquistato sette premi Oscar.
Ieri, sul lungomare del Lido di Venezia. Oggi, sul red carpet di Hollywood. Protagonisti sempre loro con Alfonso, George e Sandra. Sbarcati tutti in laguna per l’anteprima mondiale di Gravity, film scelto per aprire la 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Poco più di sei mesi dopo ed ecco la pellicola trionfare agli Oscar 2014 vincendo sette Academy Awards su dieci nomination ottenute.
Nel dettaglio Gravity ha vinto per la Miglior regia di Alfonso Cuarón. Miglior fotografia di Emmanuel Lubezki. Miglior montaggio di Alfonso Cuarón e Mark Sanger. Migliori effetti speciali di Tim Webber, Chris Lawrence, Dave Shirk e Neil Corbould. Miglior colonna sonora di Steven Price. Miglior sonoro di Skip Lievsay, Niv Adiri, Christopher Benstead e Chris Munro. Miglior montaggio sonoro infine, di Glenn Freemantle.
“Non era mai successo negli ultimi 40 anni che il film d’apertura di Venezia ricevesse così tanti Oscar” ha dichiarato entusiasta il direttore del festival veneziano, Alberto Barbera, “Un successo che conferma come la Mostra del Cinema continui a essere la più prestigiosa occasione per lanciare e promuovere internazionalmente i grandi film della stagione. Siamo orgogliosi di questo risultato e grati alla Warner Bros. per aver creduto nel festival. Complimenti ”.
Nel complesso sono state 15 le candidature all’Oscar 2014 di film presentati alla 70. Mostra di Venezia. Oltre alla già citata decina di Gravity, altre quattro sono andate al commovente Philomena (di Stephen Frears) e la poetica animazione di Si alza il vento, l’ultimo film (pare) del regista giapponese Hayao Miyazaki, Leone d’oro alla carriera 2005 e tornato in laguna tre anni dopo per la presentazione di Ponyo sulla scogliera, film in concorso alla 65° Mostra del cinema di Venezia
Al Kodak Theatre di Los Angeles Philomena era candidato nella sezione Miglior film, Miglior attrice protagonista a Judi Dench, Miglior sceneggiatura non originale a Steve Coogan e Jeff Pope, quindi Miglior colonna sonora ad Alexandre Desplat. Il premio di Miglior sceneggiatura l’ha però conquistato proprio a Venezia e di seguito ai prestigiosi BAFTA – British Academy of Film and Television Arts.
Per la gente gli Oscar sono i premi più noti, ma non sono certo gli unici. I film presentati a Venezia 70. hanno saputo dire la loro anche in altre rassegne cinematografiche, a cominciare dai già citati BAFTA (sette premi in tutto di cui 6 a Gravity e 1 a Philomena), i Golden Globe (premiato Alfonso Cuarón per Gravity), i Producers' e i Directors’ Guild Awards (premiato Alfonso Cuarón per Gravity), i Critics' Choice Awards (7 premi per Gravity) .
Gloria “veneziana” anche ai National Society of Film Critics Awards dove sono stati premiati James Franco come miglior attore protagonista per Spring Breakers - Una vacanza da sogno (2012, di Harmony Korine), presentato a Venezia nel 2012. At Berkeley di Fred Wiseman (miglior non fiction), Stray Dogs di Tsai-Ming Liang (miglior film non ancora distribuito negli Usa).
Infine il film thailandese Mary is Happy, Mary is Happy (di Nawapol Thamrongrattanarit), realizzato attraverso il progetto Biennale College – Cinema e presentato in prima mondiale alla 70. Mostra di Venezia, ha vinto 4 Thailand National Film Awards.
E con un forte applauso e sentite congratulazioni per l’Oscar del Miglior film straniero conquistato da una pellicola nostrana, La grande bellezza di Paolo Sorrentino, la Biennale di Venezia saluta tutti gli amanti del grande schermo con un arrivederci a mercoledì 27 agosto al Lido di Venezia per la 71° edizione della Mostra del Cinema.
12 anni schiavo e Dallas Buyers Club trionfano. Cate Blanchett al 2° Oscar. Gravity fa incetta (7). A secco American Hustle e The Wolf of Wall Street.
di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it giornalista/fotoreporter – web writer
I lustrini di American Hustle e The Wolf of Wall Street non incantano la giuria degli Academy. Il grande trionfatore dell’86° edizione dei Premi Oscar è il cinema impegnato di Steve McQueen e Jean-Marc Vallée le cui rispettive pellicole, 12 anni schiavo eDallas Buyers Club, si portano a casa tre statuette ciascuno.
12 anni schiavo, film patrocinato da Amnesty International, vince come Miglior film, Miglior attrice non protagonista (Lupita Nyong’o) e Miglior sceneggiatura non originale (John Ridley). Dallas Buyers Club, oltre al Miglior trucco e acconciatura (Adruitha Lee e Robin Mathews), centra la doppia accoppiata Globe/Oscar con l’attore protagonista e non protagonista Matthew McConaughey e Jared Leto.
Mattatore della serata in termini di statuette conquistate, Gravity di Alfonso Cuaron, film che aprì la 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. La pellicola si porta a casa sette Oscar: Miglior regia, fotografia, montaggio, effetti speciali, colonna sonora, sonoro e montaggio sonoro. Più che meritato l’Oscar della Miglior sceneggiatura originale a Spike Jonze per Her.
Secondo Oscar in carriera per Cate Blanchett. La sua fantastica interpretazione in Blue Jasmine (2013, di Woody Allen) le ha fatto mettere in riga anche una Meryl Streep monumentale nel I segreti di Osage County. Scontato infine il successo a La grande bellezza (2013, di Paolo Sorrentino) come Miglior film straniero.
L’elenco completo dei premi Oscar 2014
Miglior film: 12 anni schiavo (di Steve McQueen)
Miglio regia: Alfonso Cuarón (Gravity)
Miglior sceneggiatura originale: Spike Jonze (Her)
Miglior sceneggiatura non originale: John Ridley (12 anni schiavo)
Miglior attrice protagonista: Cate Blanchett (Blue Jasmine)
Miglio attore protagonista: Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club)
Migliore attrice non protagonista: Lupita Nyong’o (12 anni schiavo)
Miglior attore non protagonista: Jared Leto (Dallas Buyers Club)
Miglior film straniero: La grande bellezza (2013, di Paolo Sorrentino)
Miglior film d'animazione: Frozen – Il regno di ghiaccio (di Chris Buck e Jennifer Lee, Walt Disney Animation Studios)
Migliore fotografia: Emmanuel Lubezki (Gravity)
Miglior scenografia: Catherine Martin e Beverley Dunn (Il grande Gatsby)
Miglior montaggio: Alfonso Cuarón e Mark Sanger (Gravity)
Migliori effetti speciali: Tim Webber, Chris Lawrence, Dave Shirk e Neil Corbould (Gravity)
Miglior canzone: Let it Go (di Kristen Anderson e Lopez e Robert Lopez – Frozen)
Miglior colonna sonora: Steven Price (Gravity)
Miglior sonoro: Skip Lievsay, Niv Adiri, Christopher Benstead e Chris Munro (Gravity)
Miglior montaggio sonoro: Glenn Freemantle (Gravity)
Migliori costumi: Catherine Martin (Il grande Gatsby)
Miglior trucco e acconciatura: Adruitha Lee e Robin Mathews (Dallas Buyers Club)
Miglior documentario: 20 Feet from Stardom (di Morgan Neville)
Miglior cortometraggio documentario: The Lady in Number 6: Music Saved My Life (di Malcolm Clarke e Nicholas Reed)
Miglior cortometraggio: Helium (di Anders Walter e Kim Magnusson)
Miglior cortometraggio d'animazione: Mr. Hublot (di Laurent Witz e Alexandre Espigares)