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giovedì 24 marzo 2016

Truth, salvate la libera informazione

TruthMary Mapes (Cate Blanchett)e Mike (Topher Grace)
I media rivelano. Il potere non perdona e colpisce. La libertà d'informazione è sempre più in pericolo. Truth – Il prezzo della verità (2016, di James Vanderbilt).

di Luca Ferrari

“Questo film racconta cosa è successo alla libera informazione. Come e perché è successo, e perché dovrebbe preoccuparvi”. A pronunciare queste sibilline parole è Dan Rather, uno dei più importanti giornalisti d’oltreoceano. La frase si riferisce a quanto accaduto a lui stesso e alcuni colleghi della CBS poco prima delle elezioni presidenziali del 2004. Basato sulle memorie giornalistiche di Mary Mapes, Truth and Duty: The Press, the President and the Privilege of Power, l’esordiente James Vanderbilt dirige Truth – Il prezzo della verità (2016).


Mary Mapes (Cate Blanchett) è una giornalista affermata con 20 anni di esperienza, nonché produttrice del servizio che rivelò al mondo l’orrore di Abu Grahib, la prigione irachena dove alcuni militari americani si divertivano a torturare i prigionieri nel modo più violento e umiliante possibile. A pochi mesi dalla sfida presidenziale Bush-Kerry, è ora sulle tracce di una notizia a dir poco esplosiva e che potrebbe minare non poco la rielezione dell’attuale inquilino della Casa Bianca, George W. Bush.

Con l’entusiasta placito del produttore esecutivo Josh Howard (David Lyons), il produttore senior Mary Murphy (Natalie Saleeba) e la vice presidente senior del network Besty West (Rachael Blake), la Mapes si mette in moto. Decisa e combattiva più che mai all’idea di sferrare un montante decisivo al Presidente repubblicano, al suo fianco in questa nuova missione giornalistica vengono schierati il Tenente Colonnello Roger Charles (Dennis Quaid), ex-Marine in Vietnam, il giovane freelance Mike Smith (Topher Grace) e la professoressa di giornalismo Lucy Scott (Elizabeth Moss).

Spulciati i contatti militari ai tempi aeronautici di W. Bush, grazie in particolare alle rivelazioni dell’ex-Tenente Colonnello della Guardia Nazionale dell’Aeronautica del Texas e oggi allevatore Bill Burkett (Stacy Keach), la notizia viene confermata e la redazione di 60 Minutes lancia la bomba: ai tempi della guerra in Vietnam il presidente George W. Bush trovò un comodo rifugio presso l’aeronautica del Texas pur non avendone alcun requisito. A darne notizia in diretta televisiva, un monumento del giornalismo americano, Dan Rather (Robert Redford). Lui che negli anni Ottanta era in Afghanistan a raccontare l’invasione sovietica.


Le critiche non tardano ad arrivare ma c’è di più. Si parla di falsificazione di prove con l'utilizzo di Microsoft Word. Una montatura ad hoc per screditare il Presidente. I tempi però del Watergate sono finiti e i pescecani non solo sono diventati sempre più potenti, ma si sono fatti anche più furbi. La lezione l’hanno imparata e anche se si tratta della CBS e Dan Rather, non fa differenza. Se il Washington Post fece lo sgambetto a Richard Nixon, questo non succederà ai Bush e saranno i giornalisti della CBS a pagarne le conseguenze.


“Una volta l’informazione era un dovere, adesso non lo è più e sarà sempre peggio” dice sconsolato Rader, ormai consapevole di quale direzione sta prendendo la storia. Dalla gloria alla polvere. Le bottiglie di champagne si trasformano in aridi corpi contundenti dove tutti i pezzi grossi della rete, presidente Heyward (Bruce Greenwood) incluso, non mancheranno di brandire.

Sceneggiatore di successo di Zodiac (2007), Total Recall (2012) e The Amazing Spider-Man 2 – Il potere di Electro (2014), questa volta Vanderbilt abbandona il fantasy e le storie irreali per concentrarsi su qualcosa di dannatamente vero, mettendo in discussione lo status quo. Sono da sempre un legame inscindibile invece Robert Redford e la contestazione al potere della politica (Tutti gli uomini del Presidente, Leoni per agnelli, La regola del silenzio).


Truth – il coraggio della verità
(2016, di James Vanderbilt) non è solo una pagina di giornalismo americano ma anche un thriller mozzafiato dove la libertà e l'integrità dell'informazione vengono messi all'angolo da un potere che non guarda in faccia nessuno. Ben assortita la coppia Blanchett-Redford, ancor di più quella formata dal “hippy” Topher Grace e “l’ex-militare” Dennis Quaid, quest’ultimo finalmente al rientro con un ruolo e un’interpretazione degna di questa nota. Mike è il classico giornalista del terzo millennio, idealista e freelance. Roger invece incarna il cambiamento. È sempre un militare ma non accetta la degenerazione ormai presa dalla propria nazione, arrivando a mettere in discussione perfino il suo Comandante in capo, ossia George W. Bush.

Libertà d’informazione e di pensiero. Un tema insolitamente visto di recente sul grande schermo. Dopo il troppo ignorato La regola del gioco (2014, con Jeremy Renner), sono usciti uno dopo l’altro L’ultima parola – La vera storia di Dulton Trumbo (di Jay Roach) e Il caso Spotlight (di Tom McCharty), quest’ultimo presentato a Venezia e vincitore del premio Oscar come Miglior film e Miglior sceneggiatura. In questa nuova pellicola la protagonista viene messa sotto accusa dall'avvocato Lawrence Lanpher (Dermot Mulroney) per avere permesso alle proprie idee di influire con la notizia.

Stop, fermate tutto. Secondo voi in cosa crede il sottoscritto? La risposta ve la sarete già dati, ergo io non potrei scrivere questo articolo. Eppure lo faccio. OK, cineluk è mio ma il taglio comunque si allinea con la visione del regista. Inutile fare gli ipocriti. Un giornalista ha una sua visione e le sue idee. Non è un caso che si parli di giornali di Destra e di Sinistra. Perché alla luce di certe notizie il taglio è del tutto diverso? Perché alcuni giornali considerarono l’azione statunitense in Iraq un'esportazione di democrazia e altri una mera aggressione militare? Chi lo decide? Chi ha ragione? Da che parte sta la verità?

Il giornalismo è entrato in un perverso meccanismo dove il reportage, la cura del dettaglio e l’autenticità passano in secondo piano. La sola cosa che si vuole ottenere sono scoop piccanti e paroloni ad effetto indicizzati al meglio su Google. Sul peso specifico delle notizie non vi è troppa richiesta, e se proprio si vuole spararla grossa, meglio evitare imbarazzi a chi è al centro della catena di comando perché la reazione non tarderebbe troppo ad arrivare.

Se i giornalisti e i giornali avranno sempre più le mani legate, ecco allora che le figure dei vari Julian Assange ed Edward Snowden potrebbero rappresentare la sola e futura chance di un’informazione libera anche se in certi casi troppo estrema e spregiudicata. Truth - Il prezzo della verità è un film che si schiera apertamente dalla parte di Mary Mapes e Ralph Nader ma allo stesso tempo non si tira indietro dal mostrare i difetti di un servizio, desideroso di sganciare la bomba sulla reputazione di W. Bush.

Le proprie idee saranno sempre alla base per qualsiasi azione delle nostre vite. Negarlo sarebbe come pretendere di sostenere la tesi che l’essere umano si relazioni al mondo senza passioni. Il giornalista ha di sicuro una responsabilità maggiore e se sbaglia, è giusto che venga sanzionato ma di sicuro chiudergli la bocca non è la risposta. Ed è bene che lo sappiate cari intoccabili, continueremo a fare il nostro lavoro e a fare domande (anche maledettamente scomode se necessario) fino a quando non otterremo delle valide e oneste risposte.

Guarda il trailer di Truth - il prezzo della verità

Truth – Ralph Nader (Robert Redford)

lunedì 21 marzo 2016

Buona visione, e buona fortuna!

Good Night, and Good Luck - l'anchorman Edward R. Murrow (David Strathairn)
Il giornalismo e il cinema possono fare molto per la cultura del mondo ma ci vogliono uomini coraggiosi. Good Night and Good Luck – Buona visione, e buona fortuna!

di Luca Ferrari

“Una volta tanto elogiamo l’importanza delle idee e dell’informazione” arringava l’anchorman Edward R. Murrow (David Strathairn). Ho rivisto di recente Good Night, and Good Luck (2005, di George Clooney). La grandissima attualità della pellicola ambientata durante i tetro periodo del Maccartismo mi ha spinto a scrivere questo lungo articolo che mi auguro possa essere letto dal maggior numero di utenti possibili.

Stati Uniti, anni ’50. È il tempo della caccia isterica ai comunisti durante la Guerra Fredda. Un tema questo sviluppato di recente anche da Jay Roach in L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo (2015) e in modo del tutto diverso dai fratelli Ethan e Joel Coen con Ave, Cesare! (2016). Seconda regia del premio Oscar George Clooney, Good Night and Good Luck si concentra sulla figura del sopracitato Murrow, integerrimo giornalista e anchorman della rete televisiva CBS, nonché fiero sostenitore della libertà e dei diritti civili.

Presentato alla 62° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (31 agosto – 10 settembre 2005), il lungometraggio si aggiudicò il premio (Osella) per la Miglior sceneggiatura e la Coppa Volpi per la Miglior interpretazione maschile (Strathairn), fallendo però il riconoscimento più importante, il Miglior film (Leone d’oro) e in seguito mancando 15 (dico, quindici) nomination su 15 tra BAFTA, Golden Globes e Oscar.

Il film racconta della coraggiosa battaglia portata avanti da Murrow e il suo staff diretto dall’amico Fred Friendly (George Clooney), con la trasmissione televisiva See It Now, in onda ogni martedì sera. Al centro del loro interesse, la famigerata lista di proscrizione creata dal senatore Joseph McCharty con cui migliaia di cittadini americani furono chiamati a rispondere in tribunale anche solo per avere espresso un’opinione o magari letto un libro, che per vie traverse poteva essere collegata al socialismo-comunismo o simili. Un sospetto che era già accusa e condanna, e dunque trasformando questa gente in traditori e possibili minacce per la sicurezza degli Stati Uniti con tutte le conseguenze possibili e immaginabili.

Murrow sapeva di puntare alla giugulare di un uomo potente ma sapeva anche che il prezzo della posta in palio valeva il rischio. E lo accettò. Inevitabile la reazione di McCharty che replicherà con ignobili menzogne nei confronti dello stesso anchorman, definendolo un infiltrato di Mosca. Uno scontro che alla fine vedrà uscire vincitore il giornalista, sostenuto in un certo qual modo anche dal capo del network, William Paley (Frank Langella).

“Ho iniziato dicendo che la Storia la facciamo noi” dice Murrow, “Se continueremo così, la Storia prima o poi si vendicherà e il castigo non impiegherà molto ad arrivare. Una volta tanto elogiamo l’importanza delle idee e dell’informazione. Sogniamo anche che una qualche domenica sera lo spazio normalmente occupato da Ed Sullivan venga occupato da un attento sondaggio sullo stato dell’istruzione in America e che una o due settimane dopo lo spazio normalmente occupato da Steve Allen sia dedicato a uno studio approfondito sulla politica americana Medioriente.

Forse l’immagine dei rispettivi sponsor ne risulterebbe danneggiata? Forse i loro azionisti si infurierebbero e si lamenterebbero? Che cosa potrebbe succedere oltre al fatto che qualche milione di persone sarebbe più informato su argomenti che possono determinare il futuro di questo paese e di conseguenza anche il futuro di queste aziende? A coloro che dicono: la gente non starebbe a guardare non sarebbe interessata, è troppo compiaciuta, indifferente e isolata, io posso solo rispondere: ci sono secondo la mia opinione delle prove inconfutabili contro questa tesi.

Ma anche se avessero ragione, che cosa avrebbero da perdere? Perché se avessero ragione e questo strumento (la televisione, ndr) non servisse a nulla se non a intrattenere, divertire e isolare, i suoi effetti positivi si starebbero dissolvendo e presto la nostra battaglia sarebbe perduta. Questo strumento può insegnare, illuminare. Può anche essere fonte di ispirazione ma può farlo solo ed esclusivamente se l’essere umano deciderà di utilizzarlo per questi scopi. Altrimenti non è che un ammasso di fili elettrici e valvole in una scatola. Buona notte, e buona fortuna”.

Il mondo del giornalismo cinematografico potrebbe fare di più per la cultura e la promozione di pellicole capaci di far riflettere e non solo divertire-intrattenere. Chi recensisce un film dovrebbe saper anche osare, esponendosi magari a una riflessione senza paura di uscire dai placidi binari dell’eccessiva neutralità. E questo perché a differenza di un blogger improvvisato che può solo dare un’opinione condivisibile o meno, un giornalista esperto può (deve) dare molto di più proprio alla luce della sua competenza.

Il giornalismo è sotto attacco da un pezzo e non bastano certo un paio di Oscar (2016) consegnati a Il caso Spotlight (di Tom McCharty) perché adesso tutti abbiano rispetto della professione, spesso denigrata senza alcun fondamento. Giovedì 17 marzo scorso intanto, è uscito Truth – Tutta la verità (2016, con Robert Redford e Cate Blanchett), la cui recensione uscirà a breve su cineluk. Il film tratta l’inchiesta giornalistica (vera) che portò alla luce la notizia che l’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, trovò il modo di evitare la guerra del Vietnam.

“Un omaggio al coraggio di un giornalismo autorevole e una riflessione sulle contraddizioni di un mondo dove le notizie arrivano caoticamente da ogni parte, dove tutti sono potenziali giornalisti e dove forse non lo è più nessuno” ha scritto Alessandra De Luca sulle pagine di Ciak (marzo 2016). Contraddizioni a parte della professione, il film meriterebbe di sicuro un’analisi e una visione su larga scala ma dubito che raggiungerà certi risultati al botteghino, e questo anche a causa di una permanenza in sala che ho forti dubbi raggiungerà le due settimane consecutive. Vedremo.

Chi al contrario ha già raccolto e sta raccogliendo parecchio è Lo chiamavano Jeeg Robot (2016, di Gabriele Mainetti). La maggioranza della stampa specializzata lo ha incensato senza mezze misure. Io stesso prima di recarmi in sala ero convinto della validità del prodotto, salvo poi restare alquanto deluso poiché rivelatosi un mal riuscito tentativo di unire più generi nostrani e stranieri, facendo leva sul fenomeno cinecomics per richiamare le masse. Ma analisi a parte, ad avermi colpito è stato scoprire che la suddetta pellicola sia stata riconosciuta di interesse culturale nazionale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Mi piacerebbe sentire dalla Commissione dove sia il contributo alla cultura di questo film. La settimana prossima uscirà invece Ustica (2016, di Sergio Martinelli) , inerente il mistero del DC9 precipitato il 27 giugno 1980. La domanda è quanto più banale ci possa essere: secondo voi questo film ha ricevuto un egual considerazione della sopracitata pellicola? Manco per sogno. E lo stesso (ovvio) trattamento lo ha ricevuto La Trattativa (2014) di Sabina Guzzanti, pecora nera del grande schermo, per le sue idee e le legittime rivendicazioni.

La gente oggi si scandalizza facilmente ma tutte le sue reazioni si riducono a un post sui social network, portando dunque un contributo alla causa pari allo 0,000001 per cento. Ma se questi trattassero temi di una certa importanza, almeno sarebbe un (minimo) passo avanti. La maggioranza tratta cose insignificanti (e mi ci metto dentro talvolta pure io), esplodendo in reazioni spropositate se poi non si condivide la medesima opinione. Perché la realtà purtroppo è questa: alla gente non interessa cambiare il mondo, importa solo imporre la propria ragione-visione.

L’Italia è una delle migliori nazioni dove viene spacciata una sopraffina democrazia il cui gas nervino della reale dittatura viene rilasciato in dosi differenti (a seconda del reddito) in modo che non cambi nulla e anzi, si venga controllati nel più stupefacente modo possibile. I social network sotto questo profilo sono stati una mossa geniale. Ormai non si può più vivere senza e i tanti invisibili carcerieri ringraziano per questo.

Come i film e la televisione, anche i media del settore hanno una grande responsabilità, scegliendo o meno di dare risalto a pellicole che trattano tematiche di una certa importanza e capaci anche di insegnare. Non sempre avviene, anzi peggio. Succede di rado. La spiegazione non è tanto difficile da trovare: interessi, sponsor, padroni che non vogliono certo fomentare l’uso dell’intelletto umano. Il caso dei cinecomics è emblematico. Questi infatti raggiunge due scopi in un sol “boccone”:
  • Intrattiene alla grande con storie di facile appeal e futili effetti speciali, 
  • Convince le pecore che per cambiare le cose serva necessariamente un supereroe (irreale) e i deboli esseri umani non siano in grado di fare alcunché
Il secondo punto è una delle più grandi menzogne mai perpetrate al genere umano. Il gioco. L’effetto. Ricordate le parole del senatore Gracco nel film Il gladiatore? Tutto questo stordisce e così quella massa che potrebbe fare la differenza, dorme. Troppo interessata a parlare di buffoni chiusi in stanze o isole, tatuati che inseguono una sfera rotonda o personaggi noti che scelgono la chirurgia estetica e di cui, non si capisce bene perché, ci dovrebbero interessare le loro stupide e superficiali vite.

Se facessi un sondaggio per sapere quante persone ricordano la formazione dell’Italia campione del Mondo ’82 e allo stesso tempo chiedessi i nomi degli ultimi undici presidenti della Repubblica Italiana, non ci sarebbe storia. Ecco, appunto. Quella Storia di cui parlava Murrow si sta già vendicando e continuerà a farlo almeno fino a quando non s’inizierà a fare qualcosa di più utile. Nel caso specifico, rinunciare a qualche futile blockbuster scegliendo la cultura, e magari cercando d’imparare qualcosa.

Buona visione, e buona fortuna!

Good Night, and Good Luck - Fred Friendly (George Clooney)

mercoledì 16 marzo 2016

Ave, Cesare! Il cinema del cinema

Ave, Cesare! - Hobie Doyle (Alden Ehrenreich) e Laurence Lorenz (Ralph Fiennes)
Nella Hollywood degli anni ’50 si sta girando un nuovo film, Ave Cesare! Nelle sale del terzo millennio i fratelli Coen ci raccontano qualche curioso retroscena.

Ci sono film per la cui intera durata della visione ti chiedi ossessivamente: ma il regista c’è o ci fa? Trattandosi di Ethan e Joel Coen la risposta dovrebbe venire da sé anche se ogni nuova pellicola è sempre un ricominciare da zero. Dopo aver curato la sceneggiatura della recente opera Spielberghiana Il ponte delle spie (2015), i 4 volte premi Oscar sono tornati dietro la macchina da presa riuscendo ancora una volta a sorprendere. Pur non allontanandosi troppo dai sotterfugi della Guerra Fredda, ecco il surreale Ave, Cesare! (2016), ambientato nella Hollywood dei peplum cinematografici.

Le riprese del nuovo kolossal Ave, Cesare! stanno per terminare. Tutto procede alla stragrande fino a quando l’indiscussa star protagonista, il bamboccio Baird Whitlock (George Clooney), non viene misteriosamente rapito da un nugolo di facinorosi intellettuali comunisti che passano il tempo a parlare e teorizzare, sognando l’amata Mosca e l’Internazionale. Sulle sue tracce gli viene messo il pragmatico fixer Eddie Mannix (Josh Brolin), conteso tra l'amore per il proprio mestiere e una nuova opportunità di carriera nel campo dell’aviazione lontano dai capricci di attori e attrici.

L'Hollywood degli anni d'oro torna protagonista sul grande schermo del terzo millennio. La nostalgia di una certa epoca dove c’era meno perfezione ma più creatività aleggia nel racconto dei Coen (Il grande Lebovski, Fratello dove sei, A proposito di Davis). Fare un film tributo chiunque sarebbe in grado di realizzarlo. Ave, Cesare! è una storia che ha già una storia, e di sicuro unisce molte più storie. È una storia con la Storia. Le star di allora non sono i racconta-ogni dettaglio del giorno d’oggi. Erano inarrivabili soggetti sognati e risognati. Bramati.

Come due sopraffini artisti, i Coen sanno di avere tra le mani molte terre di primissima qualità ma invece di abbagliare il pubblico con acrilici mono-colori sgargianti, rovesciano volutamente le boccette sullo schermo lasciando emergere un quadro a metà tra Pollock e Monet. Ecco dunque passare da una doppia-tinta Swinton (Tilda) a un dandy Fiennes (Ralph), il cui "pacato" profumo del foulard avanza elegante nell’aere cinematografico. Uno sguardo altrove ed eccoli immetterci pure una spruzzata smeraldo Scarlett (Johansson), il tutto arricchito da un soffuso Jonah-tratteggio Hill per poi lasciarsi trascinare da ulteriori e impreviste Tatum-direttrici (Channing).

Ma in questo oceano di impennate attoriali, a ergersi in un gradino più degli altri è il giovane Alden Ehrenreich, qui nelle vesti dell’attore Hobie Doyle, passato (nel film) dalle acrobazie western dov’era un indiscusso protagonista a ruoli più maturi e meno selvaggi. Un conto però è chiamare un cavallo col fischio, un conto è rivolgersi a un’elegante fanciulla. Il suo difetto di pronuncia e incapacità recitativa sono a dir poco grandiose. Non oso immaginarlo in lingua originale su cui i cinema italiani continuano a fare gli gnorri.

In un’epoca poi d’isterismi religiosi, l’acume Coeniano si riversa sulle Fedi con tanta di quell’ironia da lasciare incredulo lo stesso Mannix. Facendo un film dove è presente anche la figura di Gesù, è bene evitare qualsiasi futuro problema. Eccolo dunque al medesimo tavolo insieme a un prete cattolico, un pastore protestante, un
sacerdote greco ortodosso e un rabbino ebraico. Ma più che a scatenare ire sulla pellicola, sulla quale al massimo viene mossa qualche critica stilistica, sono gli stessi ministri religiosi a darsele sull’eterna questione: Cristo figlio-non figlo di Dio.

Assurdo. Egoista. Geniale. Mi sono svegliato stamane e ancora pensavo ad Ave, Cesare! (2016, di
Ethan e Joel Coen). Pensavo e ridevo. Ridevo e pensavo. Non mi capita così spesso. Qui non ci sono supereroi. Ci sono prime donne (in senso generico) egoiste che giocano per se stesse. Nessuna elucubrazione. Nessuna psicologia con cui intortare l’umanità. L’essere umano è quello che è, debolezze e passioni incluse. E la scelta finale di Manning ha tanto il sapore da sorriso-The End con cui possiamo uscire dalla sala e sentirci soddisfatti di come sapremo comunque vivere la nostra vita.

Immergiti nell'atmosfera di Ave, Cesare!

Ave, Cesare! - Thora Thacker (Tilda Swinton) ed Eddie Mannix (Josh Brolin)



domenica 13 marzo 2016

Livekom015, la notte è tutta di Vasco


Vasco Rossi è al cinema. Dal lunedì 14 a mercoledì 16 marzo il film del concerto registrato al San Paolo di Napoli sarà proiettato sul grande schermo, Venezia inclusa.

di Luca Ferrari

Il Blasco sbarca grandioso sul grande schermo. Dopo il trionfale passaggio alla 72° Mostra del Cinema di Venezia, ecco Vasco tutto in una notte LiveKom015 (di Giuseppe Domingo “Pepsy Romanoff” Romano).
Distribuito da Universal Music e QMI/Stardust, il music film sarà disponibile in oltre 280 schermi in tutta Italia da lunedì 14 a mercole 16 marzo, Venezia inclusa presso il Multisala Rossini e l’IMG Cinemas Candiani di Mestre.

Rock e cinema. Un binomio perfetto. Non solo documentari, ma veri e propri concerti da godersi nel relax di una sala insieme a tanti altri fan. Per i metallari avere visto i Big Four (Megadeth, Metallica, Athrax e Slayer) al cinema deve essere stata un’esperienza non indifferente. Adesso è l’ora dell'immortale Vasco Rossi con Livekom015 al cinema, il film del concerto registrato allo stadio San Paolo di Napoli lo scorso 3 luglio, arricchito da preziosi materiali inediti.

Due ore e mezza di rock e di energia da respirare, ascoltare, guardare e cantare. 11 telecamere puntate sul palco, sui musicisti, sullo stadio e tra il pubblico. Un Vasco mai visto così da vicino al punto da poter cogliere ogni espressione del suo sguardo mentre canta. Una performance indimenticabile nella città partenopea iniziata alle 21,30 e finita alle 23,50 la cui visione al cinema viene preceduta da immagini on the road verso la sede del concerto.

“Sognavo da tempo un film musicale come quelli che vedo in giro per il mondo” ha dichiarato il regista Pepsy Romanoff. “Un live che fosse un film di note musicali. L’idea è piaciuta a Vasco che mi ha detto: Vai Peppe, mi piace”. Ma adesso basta parlare. È tempo di piazzarsi davanti al grande schermo e cantare le immortali canzoni del Blasco perché come dice lo stesso rocker ha dichiarato: “Se la musica la ascolti davvero, ti parla…”


Vasco tutto in una notte LiveKom015


venerdì 11 marzo 2016

99 Homes, vite sotto sfratto

99 Homes - lo sguardo angosciato di Dennis Nash (Andrew Garfield)
“L’America non fa credito ai perdenti”! Viaggio nel drammatico 99 Homes (2014, di Ramin Bahrani), alla scoperta di un'umanità sotto (legale) attacco bancario.

di Luca Ferrari

Migliaia di vite buttate sul marciapiede. Lo sguardo quasi incredulo. Sta accadendo davvero a me! Non è più tempo di parole né di carte. È tutto finito. I ricordi vissuti non commuovono nessuno. La legge delle banche non concede prorogh. È tutto finito. La casa è stata pignorata e bisogna uscirvi immediatamente pena l’arresto. Storie di 99 Homes (2014, di Ramin Bahrani), film presentato in anteprima alla 71° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, sez. "Concorso" e mai arrivato sul grande schermo.

Il giovane Dennis Nash (Andrew Garfield) è un onesto lavoratore, padre del piccolo Connor (Noah Lomax). Vivono insieme alla madre di lui, Lynn (Laura Dern), che fa la parrucchiera nella propria abitazione. Per comprare quella casa hanno chiesto un prestito alla banca. Soldi che l’istituto di credito sa bene non potranno mai restituire. È solo questione di tempo. L'immobile presto o tardi finirà nelle loro mani e puntuale tutto ciò avviene senza che deleghe o avvocati possano fare alcunché.

Se nella Wall Street degli anni Ottanta (e di Oliver Stone, 1987), il cinico Gordon Gekko (Michael Douglas) dava lezioni di “democrazia” affaristica al rampante broker Bud Fox (Charlie Sheen), oggi a salire in cattedra con il più triste e veritiero degli insegnamenti è l'altrettanto spietato Rick Carver (Michael Shannon): “l’America non fa credito ai perdenti”. Così è e così è sempre stato.

La famiglia Nash finisce a vivere in un motel e l’indomani comincia la disperata ricerca di un nuovo lavoro. Non trovando più i propri attrezzi, Dennis ritorna da quegli stessi operai che gli hanno svuotato la casa su ordine dello Sceriffo e lì incontra nuovamente Carver il quale però, colpito dalla sua tenacia, gli chiede se voglia guadagnare qualcosa. Ha inizio così un periodo di ritrovata liquidità che culminerà con quello stesso incarico che lui ha vissuto in tutta la sua più tragica conseguenza: l’esecutore di sfratti.

Alla notizia della perdita della casa il protagonista vede dinnanzi a sé tutte le tipologie di reazioni possibili. C'è chi accetta sconsolato senza fare storie e chi lo minaccia con una pistola. Dovunque vada c’è sempre una storia strappalacrime con cui confrontarsi ma non ha importanza. Bisogna andare avanti. Qualcosa però comincia a vacillare quando si confronta con un anziano. È stato sfrattato. È solo. Ha un figlio che vive lontano e non sente da due anni. Non conosce i vicini.

Nash è meno cinico del suo capo ma ormai fa le stesse cose. In attesa di tornare nella casa perduta vive ancora nel motel, ma c’è una novità. È arrivato un nuovo inquilino nell’area, più della metà abitata dai neo-sfrattati. Nash viene riconosciuto e attaccato. Il figlio e la madre scoprono dunque il suo nuovo impiego. Lui ora ha un lavoro e una stabilità economica ma il prezzo da pagare è il disprezzo dei suoi cari.

Non può non far riflettere 99 Homes. Otto anni dopo l’esplosione della bolla speculativa, gli Stati Uniti così come gran parte d’Europa sono ancora sotto attacco immobiliare. Come tante e voraci sanguisughe, le banche pilotano il denaro verso le proprie casse, incuranti delle conseguenze che tutto ciò un giorno avrà. La gente finisce per strada ma questo non riguarda nessuno. Un debito non è stato saldato, “anche loro dunque hanno rubato” viene sottolineato da Carver.

Nash è vittima e carnefice, come sempre succede a chi non è padrone del proprio destino. Nuota controcorrente in un oceano di fango che sta per inghiottirlo del tutto, trascinando nella rovina la propria famiglia. La disperazione del non avere più un futuro lo porta dalla parte sbagliata. Lo stesso destino che spesso attanaglia i moltissimi immigrati che arrivano sulle coste italiane, alla disperata ricerca di aiuto e con al contrario un biglietto di sola andata per l'inferno dell'illegalità o nella “migliore delle ipotesi” , nei meandri dei lavori in nero senza contributi né diritti (situazione ormai comune anche a moltissimi autoctoni).

L'uscita di 99 Homes è davvero una storia strana. Presentato al festival di Venezia e con un distributore italiano del calibro della Lucky Red, non ha mai trovato sbocchi sul grande schermo. Perché? La storia è di un'attualità sconcertante (desolante) e i nomi “Hollywoodiani” non gli mancavano di certo, a cominciare da Michael Shannon (Il cattivo tenente, L'uomo d'acciaio, Freeheld), candidato come Miglior attore protagonista ai recenti Golden Globes proprio per questa sua interpretazione.

Non sono da meno l'esperta Laura Dern (Cuori selvaggio, Rosa Scompiglio e i suoi amanti, Jurassick Park), nominata all'Oscar come Miglior attrice non protagonista appena un anno fa per la sua intrepretazione in Wild (2014, di i Jean-Marc Vallée) e l'ex-Spiderman Andrew Garfield. Oltre ai due capitoli della saga del supereroe Marvel, l'attore californiano classe '83 è stato corpotagonista in importanti pellicole quali: Leoni per agnelli (2007, di Robert Redford), Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo (2009, di Terry Gilliam) e The Social Network (2010, di Davd Fincher)?

E allora perché quest'attesa infinita per l'uscita sul grande schermo, più di una volta anticipata per altro, salvo poi propendere per la soppressione totale della pellicola? La storia presente racconta che dal 9 febbraio scorso il film è disponibile solo sulla piattaforma Netflix e uscirà in home video, ma non in alcuna sala.

99 Homes (2014, di Ramin Bahrani) è un pugno ben assestato allo stomaco dello spettatore, con la speranza che l’onda anomala arrivi anche nella mente di chi esercita il potere. Dalla casa al lavoro strappato alle persone senza domande, il mondo continua a dimostrarsi per quello che è: una terra selvaggia di crudeli predatori senza pietà per i più deboli. Forse nel 2016 sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più dall’umanità.

Il trailer in lingua originale di 99 Homes

99 Homes - Dennis Nash (Andrew Garfield) e sua madre Lynn (Laura Dern)
99 Homes - lo spietato Rick Carver (Michael Shannon)

martedì 8 marzo 2016

Suffragette, il coraggio di essere donna

Suffragette - Maud (Carey Mulligan) al lavoro
Nell'Inghilterra dei primi del '900 le donne sono decise a tutto pur di ottenere ciò che gli spetta: il diritto al voto. Suffragette (2015, di Sarah Gavron).

di Luca Ferrari

Le donne chiedono, l'universo maschile ignora. Le donne si battono, l'uomo risponde con la forza. Siamo nella seconda decade del XX secolo quando per le strade di Londra esplode il malcontento femminile, ancora schiavo dell'altro sesso in ogni aspetto della vita: pubblica, sociale e privata. È tempo di cambiare. È tempo di evolversi. È tempo di lottare strenuamente. Quello era il tempo delle indomite Suffragette (2015, di Sarah Gavron).

Maud Watts (Carey Mulligan) è una lavandaia. È sposata con Sonny (Ben Whishaw), anch'esso impegnato nella medesima fabbrica. Insieme hanno un figlio, il piccolo George. La sua vita non prevede nessuna concessione. Fa la madre, la moglie e la lavoratrice. Per le strade della città intanto, il grido di ribellione delle Suffragette, così come furono etichettate le donne che chiedevano il diritto di voto, inizia a farsi sempre più presente/possente. Maud però se ne tiene alla larga, almeno in principio.

Avvicinata dalla collega neo-assunta Violet (Anne-Marie Duff), suo malgrado si ritroverà esposta in prima linea a parlare dinnanzi al cancelliere David Lloyd George (Adrian Schiller) in persona, diventando così parte integrante del movimento suffragista femminile guidato da Emmeline Goulden Pankhurst (Meryl Streep), nelle cui fila si muovono audaci e determinate anche Emily Davison (Natalie Press) e la farmacista Edith Ellyn (Helena Bonham Carter) insieme al marito Hugh (Finbar Lynch).

Insieme alla prima manifestazione Maud scoprirà la prigione con tutte le conseguenze possibili per una donna in una società non solo ancora fortemente maschilista ma anche terribilmente schiava del (pre)giudizio altri. Che nome avremmo dato se avessimo avuto una figlia? Chiede la ragazza al marito una volta uscita di cella. “Margareth, come mia madre” risponde fiero lui. E che vita avrebbe avuto?, replica Maud ormai sempre più coinvolta in una battaglia che non potrà che avere un solo e unico esito: la vittoria delle donne.

Ogni causa ha i propri martiri e con la stampa imbavagliata dalla politica e dalla corte di re Giorgio V, non resta che una soluzione. L'estremo sacrificio sotto gli occhi delle telecamere in modo che nessuno possa più ignorare ciò che sta succedendo. Di fronte allo spettro dell'ennesimo fallito tentativo di lasciare il segno infatti, qualcuno sta per uscire dagli schemi puntando decisa all'obiettivo. Non importa che prezzo pagherà. Per curare la cieca sordità di una società, alle volte serve la cura più amara.

Suffragette è uscito sul grande schermo a ridosso della Giornata Internazionale della Donna. Suffragette va oltre la mera conquista sociale delle donne inglesi, mostrando alla base un altro e per certi versi ben più grave problema mai affrontato veramente e tutt'ora irrisolto: la violenza sulle donne. Queste lasciatele libere, se ne occuperanno i mariti! si sentono schernire Maud e altre donne. Era appena un secolo fa e la donna, anche nell'elevata e colta società occidentale, non era nulla di più di una proprietà.

Negare il voto alle donne è una palese forma di aggressione. Maud come tante altre colleghe ha subito violenze carnali nell'omertà generale di tutti: uomini, donne e marito stesso. Quel problema non esiste secondo i canoni della società contemporanea eppure i dati (quelli veri) sono imbarazzanti. Nessuno fa nulla. A che serve aver ottenuto il diritto di voto se poi ancora una donna ha paura a denunciare un uomo che la picchia?

Non sono una suffragetta, ripete Maud a metà tra il veritiero e l'impaurito dinnanzi alla ispida autorità dell'ispettore Steed (Brenda Gleeson). Le si può credere o meno ma è dinnanzi all'ennesimo sopruso che l'agnello diventa una fiera decisa. Usando le parole della drammatica Jeremy (Pearl Jam): “Seemed a harmless little fuck/ Ooh, but we unleashed a lion – Sembrava un coglione inoffensivo ma scatenammo un leone”. Maud è debole. Maud è fragile. Maud sarà privata di ciò che più ama al mondo ma non si spezzerà e a quel punto marcerà ancora più decisa.

Terza regia per la britannica Sarah Gavron, in Sufraggette il ruolo principale è stato affidato a Carey Mulligan (Wall Street – Il denaro non muore mai, Il grande Gatsby). Il suo viso lacrimevole al momento del vedersi allontanata dal proprio figlio è una cascata letale verso la disperazione più lacerante. Ma è solo un aspetto di una donna. Helena Bonham Carter (Big Fish, Alice in Wonderland, Les Miserables) è stanca ma non smette di combattere. Offre lezioni di autodifesa alle donne perché non basta alzare la voce quando il poliziotto (o qualcun altro) sta per colpirti.

Emblematica infine la presenza di Meryl Streep (Mamma mia, The Iron Lady, I segreti di Osage County). Giusto poche battute ma l'immedesimazione con la Pankhurst è totale sotto più di un aspetto. Meryl è la miglior attrice in circolazione. Non è mai stata una bellezza preponderante ma ha conquistato il mondo con le proprie capacità. Mostra fiera gli anni che ha, immune al fascino di fantomatici elisir dell'eterna (falsa) giovinezza. Lei è lì, a guardare negli occhi la giovane Carey-Maud per sostenerla nella sua lotta.

Troppo facile in questo 8 marzo 2016 fare i paladini dei diritti delle donne e poi fregarsene nei restanti 364 giorni. La donna è ancora palesemente svantaggiata sull'uomo sotto tanti aspetti nel Bel paese. Ma è la cultura italiana a dover cambiare, slegandosi da qualsiasi forma di ideologia o religione che possa minarne la piena libertà o autoaffermazione. Ma finché anche l'uomo non sentirà propria questa battaglia, difficilmente qualcosa potrà cambiare in modo definitivo.

Molto interessanti le didascalie finali in Suffragette con l'anno in cui le donne ottennero il diritto di voto nel mondo. In Italia nel 1945. Solo 70 anni fa. Fa riflettere a vedere come tante nazioni (mi ha colpito la Svizzera) ci siano arrivate così tardi. Magari tra cent'anni gli asili nei posti di lavoro saranno la normalità e le donne non verranno licenziate se avranno l'ardire di mettere al mondo figli, al momento non è proprio così.

Pochi film hanno fin'ora trattato l'argomento donna-diritti. Nel 2010 sbarcò sul grande schermo Made in Dagenham (di Nigel Cole) con al centro della vicenda le lotte femminili nel mondo del lavoro. In attesa di qualche definitivo cambiamento, mi rimetto davanti a Suffragette (2015, di Sarah Gavron) provando a immedesimarmi in una donna d'inizio '900 e pensare a quello che avrei provato nel non essere padrone di nulla, neanche della mia vita. Che cosa avrei fatto? E tu, donna e uomo del terzo millennio, che cosa avresti fatto?


Guarda il trailer originale di Suffragette

Suffragette - Emmeline Pankhurst  (Meryl Streep)
Suffragette in azione: (da sx) Emily  (Natalie Press) ed Edith (Helena Bonham Carter)

venerdì 4 marzo 2016

Big Bang Deadpool, la teoria della noia

Deadpool - Wade/Deadpool (Ryan Rynolds)
All'ennesimo cinecomic interpretato, Ryan Rynolds non va oltre qualche forzata risata. Entro un paio di mesi Deadpool (di Tim Miller) non se lo ricorderà nessuno.

di Luca Ferrari

Sboccato. Spregiudicato. Sentimentale. Sessualmente sfrenato. Deadpool doveva essere la rivincita di Ryan Rynolds dopo la uova marce accumulate per l'interpretazione in Lanterna Verde, ma più che altro sembra uscito apposta per annoiare il pubblico più esigente e lasciare il divertimento alle grasse masse a dieta stretta di supereroi in attesa dei pesi massimi Batman v Superman: Dawn of Justice (di Zack Snyder) e Captain America: Civil War (di Anthony e Joe Russo) in uscita rispettivamente il prossimo 24 marzo e 5 maggio.

Non tutti hanno passato l'adolescenza, tarda suddetta o giovane maturità che sia a sfogliare albo di fumetti, perciò qualche introduzione sarebbe stata interessante. Ma chi è il gigante di ferro? È un mutante? Dei tanti film fin'ora visti sugli X-Men questo soggetto non era mai venuto fuori, e allora? Basato sull'omonimo personaggio dei fumetti Marvel, è sbarcato sul grande schermo Deadpool (di Tim Miller).

Wade Wilson (Ryan Reynolds) è un abile mercenario col vizio di palare troppo. Intrapresa una relazione con la bella Vanessa Carlysle (Morena Baccarin) dove si consuma sesso a volontà, la vita lo porta a un'amara scoperta: cancro e multiplo terminale. Alla sua “porta” però si presenta un uomo del mistero che gli propone di sottoporsi a speciali cure non solo per salvarsi la vita ma diventando un'arma così letale come non avrebbe mai neppure sognato. Titubante, alla fine accetta ed è lì che fisce sotto le mani del sadico Francis Freeman/Ajax (Ed Skrein).

Il resto è la trama più scontata che si possa immaginare. Sopruso. Vendetta. “Calci, pugni e peae” come si dice a Venezia, e tanto vetriolo sulla punta della lingua. Scontro finale dove al fianco del sopracitato cattivone c'è la letale Angel Dust (Gina Carano), mentre dalla parte del protagonista si schierano il colosso Piotr "Peter" Rasputin (Andre Tricoteux) e la giovane Testata Mutante Negasonica (Brianna Hildebrand), ribattezzata Sinead o' Connor da Deadpool.

In ambito cinecomic i film più tartassati sono due: Daredevil (2003, di Mark Steven Johnson) con Ben Affleck a interpretare il supereroe in rosso, e appunto Lanterna Verde (2011, di Martin Campbell). Non voglio addentrarmi troppo nel merito di quanti in realtà sarebbero da stroncare a cominciare dalla seconda serie di Spiderman, l'inguardabile sequel di The Avengers, etc. ma questo Deadpool non fa proprio eccezione. A tratti pare la versione Marvelliana dell'orsacchiotto parlante Ted.

E poi c'è lui. Mr Stan Lee la cui evidente voglia di rivincita sul mondo ormai è uscita da qualsiasi binario. Quale che sia il film, lui c'è sempre. Ci deve essere. E via tutti a ridere col belato più fragoroso. Ormai tutti se lo aspettano. Ormai non c'è più nessuna novità. E visto che è già stata evidenziata la sua presenza ovunque, ve lo scrivo pure io: occhio allo strip club e al suo anzianotto dj.

Il filone cinecomic è ormai sempre più presente. Quel Big Bang Theory ha legittimato e reso cool essere nerd, ha commentato un esausto Giacomo Abate, durante uno scambio di commenti su Facebook inerente il film Lo chiamavano Jeeg Robot (2016, di Gabriele Mainetti). Quest'ultimo un maldestro tentativo di mescolare la consueta malinconia italiana con il trend del momento, sparpagliando qua e là gramigna Pulpiana e banalità Gomorriste.

Un'ultima nota. Tra i pochi spettatori presenti non ho potuto non notare una mamma e un bambino piccolo, cosa di per sé già alquanto strana visto che il film dovrebbe essere vietato. Inutile dire che quando Wade e Vanessa hanno cominciato a darsi da fare sotto le lenzuola i due spettatori hanno fatto “armi e ritagli” (come avrebbe detto Biff Tannen, ndr) e se ne sono andati. Forse sarebbe stato il caso di leggere qualcosa prima, no? Non è che tutti i supereroi sono retti, casti e probi come San Captain America!

Deadpool - Wade (Ryan Rynolds) tra le grinfie di Ayax (Ed Skrein) e Angel Dust (Gina Carano)
Deadpool - Wade/Deadpool (Ryan Rynolds) insieme ai mutanti
Piotr "Peter" Rasputin (Andre Tricoteux) e Testata Mutante Negasonica (Brianna Hildebrand)

mercoledì 2 marzo 2016

Oscar 2016, i film sono storie

Oscar 2016 - I migliori attori non protagonisti, Mark Rylance e Alicia Vikander
Scontati. Poche sorprese. Gli Oscar 2016 premiano il cinema di sensazione con qualche rara eccezione tra cui il "Miglior film" andato a Il caso Spotlight.

di Luca Ferrari

L'Oscar a DiCaprio? Era ora, così è finito il supplizio del “poveretto”! L'esasperata attenzione al remake di Mad Max? Allucinante! Il caso Spotlight è il Miglior film? "Fuckin' unbelievable!" (da non crederci, ndr). L'Oscar a Morricone? Non mi piacciono i premi di compensazione! Miglior regia a Innarirtu? No comment! Le assenze tra i candidati di Aaron Sorkin (Jobs) e Steve Carell (La grande scommessa)? Una bestemmia! Chris Rock? Banale e noioso. Ladies and gentlemen, benvenuti nel noioso mondo dell'88° edizione degli Oscar 2016.

Venezia, mercoledì 2 marzo. Gli incandescenti fuochi pirotecnici degli Oscar 2016 sono oramai sopiti se non del tutto raffreddati e spenti. Lo champagne è stato bevuto. La delusione è stata assorbita. Non mi sono perso un secondo di questa importante notte, inclusa la toccante performance voce-chitarra di Dave Grohl (Foo Fighters, ex-batterista dei Nirvana) eppure solo ora ho messo mano all'inchiostro. La ragione è semplice.

Il 29 febbraio era una data importante e più dei risultati (fin troppo scontati) degli Academy, c'era qualcosa da ricordare anche con la settima arte: la fine dell'assedio di Sarajevo nella guerra dei Balcani. Una guerra sempre ignorata. Ed è stato triste constatare che neanche a Il figlio di Saul, trionfatore come Miglior film straniero (ungherese), gli sia venuto in mente un giorno simile. Una nazione quella dell'Est europeo non certo lontana né geograficamente (poco più di 500 km) né culturalmente.

Los Angeles, Dolby Theatre – 28 febbraio 2016. I primi Oscar a essere assegnati sono quelli per la Miglior sceneggiatura originale e non originale. A trionfare sono due dei pochi film con una vera storia alla base: Il caso Spotlight e La grande scommessa. Due film e due storie d'ingiustizia. A colpirmi in particolare sono le parole di Charlize Theron ed Emily Blunt (prossimamente sorelle in Il cacciatore e la regina di ghiaccio): "Sono la spina dorsale di ciò che facciamo", "E' dove inizia un gran film".

La sceneggiatura è il cuore di un film. Senza di essa non ci sarebbe regia né effetti speciali, né musica né trucco, nulla. Eppure, a ben guardare i tanti prodotti sbarcati, incensati e addirittura premiati, sembra quasi che la sceneggiatura abbia un ruolo minore. Il caso più emblematico è Mad Max: Fury Road, vincitore di 6 premi Oscar e addirittura in lizza per il Miglior film.

Come a più riprese ho evidenziato e sottolineato ovunque ne avessi l'occasione (recensione, conversazioni, commenti, post, etc.), Mad Max: Fury Road è l'embema del film moderno imbottito di effetti digitali senza lo straccio di un'anima. È un remake e per di più fatto dal medesimo regista (in crisi). George Miller poi è riuscito a sprecare due cavalli di razza come la già citata Charlize e ancor di più l'eclettico Tom Hardy.

Persa la fotografia per mano e obiettivo di Emmanuel Lubezki (Revenant), Fury Road si è portato a casa l'Oscar per la Miglior scenografia, montaggio, sonoro, montaggio sonoro, costumi, trucco & acconciatura. Ossia, il contorno. Si lo so, sarò mangiato vivo dagli addetti ai lavori ma non m'interessa. Un film è una storia e non è un caso che tante pellicole a dispetto di mezzi rudimentali siano ancora nel cuore della gente proprio perché avevano qualcosa da dire e non volevano fare sensazione.

E veniamo al grande eroe della serata, o meglio il fiammiferaio Leonardo DiCaprio. Per quanto mi riguarda c'è una sola ragione per cui sono felice del suo trionfo come Miglio attore protagonista in Revenant - Redivivo (di Alejandro G. Inarritu): è finalmente finito il supplizio del povero Leo. Un attore che ormai era diventato l'emblema dell'ingiustizia più dei bambini violentati dai preti di Spotlight o la genre frodata in La grande scommessa.

Incamerato l'Oscar, ovviamente sono partiti subito gli articoli dei 10 o 20 grandi attori/attrici che non l'hanno mai vinto. In questa lista ho letto nomi imbarazzanti: da Meg Ryan ad Arnold Shwarzenegger, dimenticandosi di personaggi come Gary Oldman, Edward Norton, Steve Buscemi, Joaquin Phoenix, John Goodman, Michael Fassebnder e questo solo per citare i primi nomi venutimi in mente. Invece no, il dramma del cinema moderno era il non-Oscar a Leonardo DiCaprio.

Nonostante fosse “in attesa” (…) da molto più tempo, ha di sicuro perso l'ultimo tram per l'Oscar l'immortale Sylvester Stallone. Io sono cresciuto con Rocky Balboa e alla soglia dei 40 anni mi fa ancora commuovere. È un personaggio puro e positivo, di sicuro anacronistico per quest'epoca. Ma gusto personale a parte, tanto il Globe (vinto) quanto l'Oscar, per fortuna mancato, non glielo avrei mai dato. Sly era in lizza con Mark Ruffalo, Christian Bale e Tom Hardy, gente di un'altra categoria. Il premio poi se l'è portato a casa Mark Rylance (Il ponte delle spie) in una delle pochissime sorprese della serata.

Del tutto scontati i premi femminili: Brie Larson (Room) e Alicia Vikander (The Danish Girl, film presentato a Venezia) dovevano essere la Miglior attrice protagonista e non protagonista, così è stato. Nulla (ma proprio no) sul fronte animato con l'ennesimo Oscar vinto dai Pixar Animation Studios grazie a Inside Out (di Pete Docter e Ronnie Del Carmen), e su quello del Miglior documentario dove Amy (di Asif Kapadia) ha sbaragliato la concorrenza.

Nel segno dell'ovvietà anche il premio per la Miglior colonna sonora andato a Ennio "Morrantino". A differenza del 99 per cento dei miei connazionali però, io non ho esultato per la semplice ragione che questi riconoscimenti sono il trionfo dell'ipocrisia. Ennio Morricone avrebbe meritato in più e diverse occasioni la statuetta degli Academy e non certo per un film modesto (The Hateful Eight) di cui già oggi nessuno saprebbe accennarmi alcuna melodia.

Tra i tre grandi sconfitti della serata, per due di essi non posso che essere più che soddisfatto: Sopravvissuto – The Martian (di Ridley Scott) e Star Wars: Il risveglio della Forza (di J.J. Abrahms), rispediti a casa a mani vuote nonostante le rispettive 7 e 5 nomination, incapaci perfino di vincere lo scettro dei Migliori effetti speciali andati al ben più meritevole e originale Ex Machina (di Alex Garland). Fermo a zero a fine serata nonostante le 6 candidature anche l'intenso Carol (di Todd Haynes) con protagoniste (nominate) due superbe Cate Blanchett e Rooney Mara.

È stata una serata interessante quella dell'88° edizione dei premi Oscar che ha ribadito qual è l'andazzo del cinema: il marketing dell'ego e degli effetti speciali conta più della storia. La colpa però non è solo di Hollywood e dei grandi Studios. Il cinema è cultura ma finché Revenant resterà tre settimane e più in sala mentre film come L'ultima parola – La vera storia di Dulton Trumbo pochi giorni, è difficile che il pubblico possa aprire i propri confezionati e condizionati orizzonti.

Oscar 2016 - Emily Blunt e Charlize Theron annunciano la Miglior sceneggiatura originale
Oscar 2016 - Tom McCarthy sul palco per il Miglior film: Il caso Spotlight