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mercoledì 12 marzo 2014

Basta un poco di Mary Poppins disneyana

Saving Mr. Banks - Walt Disney (Tom Hanks) e Pamela Travers (Emma Thompson)
Saving Mr. Banks (2013) – Prima di permettergli di trarne un film, Pamela Travers volle essere certa che Walt Disney avesse davvero capito la sua Mary Poppins.

di Luca Ferrari

Infanzia ha sempre potuto fare rima con età adulta, ma questo dipende da ciascuno di noi. E se proprio non si fosse in grado di far dialogare maturità e fantasia, si può sempre chiedere una mano a Mary Poppins. E che la magica governante avesse questo straordinario potere, se ne rese conto anche un mastro creativo come Walt Disney che passò un quarto della propria vita a cercare convincere la sua autrice a cedergli i diritti per farne pellicola.

Ma che ci fa il papà di Topolino alla rigida corte (artistica) di una solitaria e misurata scrittrice australiana? Semplice, voleva mantenere una promessa fatta alle sue due figlie e trasportare sul grande schermo le pagine di Mary Poppins. La storia vide protagonisti Walt Disney  e Pamela Lyndon Travers nel 1964. Cinquant’anni dopo il regista John Lee Hancock, sceneggiatore di Un mondo perfetto (1991), Biancaneve e il cacciatore (2012) e il recente Maleficent (2014), lo ha raccontato nel film Saving Mr. Banks.

Chiunque abbia una minima esperienza con la scrittura, sa bene che la propria esistenza è la più grande fonte d’ispirazione. Vale anche per Pamela il cui best seller Mary Poppins fu infarcito di vita privata, in particolar modo i personaggi principali. Quelli agli antipodi. La nuova governante e il rigido padre George Banks, che si richiamavano alla zia Ellie (Rachel Griffiths nel film) e l’amato papà.

Il fascino di quel manoscritto non ebbe confini e nella sua onda di consensi contagiò anche le figlie di un certo Walt Disney, moderno Babbo Natale del quotidiano che con la sua fantasia non solo sapeva conquistare il cuore e i sogni dei più piccini, ma parlava anche al lato più fanciullesco dei “grandi”. E Mary Poppins aveva tutti i requisiti per diventare un grande film. C’era però un enorme problema. La sua ideatrice non ne voleva proprio sapere di concedere i diritti.

Saving Mr. Banks (2013, di John Lee Hancock). Walt Disney corteggia la signora per vent’anni e se questa accetta di abbandonare Londra per andare finalmente a incontrarlo nell’assolata Hollywood è solo per bisogno di soldi, ma questo non significa che svenderà la sua opera, anzi. I patti sono chiari. Lei avrà l’ultima parola nella sceneggiatura. Ogni sequenza verrà passata all’acidulo setaccio del suo insindacabile giudizio e se qualcosa non la dovesse convincere, non ci metterà niente a tornarsene, spiantata, a casa senza concedere il via libera al film.

Emma Thompson è fantastica nell’incarnare fastidi e rigidità al cospetto della splendente fabbrica  di meraviglie del munifico Disney (un bonaccione Tom Hanks). Ma dietro tanti spigoli, inevitabili si celano i sogni più candidi. Quelli di una fanciullezza segnata dall’alcol paterno e il tentato suicidio della madre. Lei adorava il papà. Un sognatore debole di carattere. Un sognatore in cerca di salvezza.

A Hollywood ci si dà del tu, ma non è per Pamela. Lei è la signora Travers, e questo se lo devono ricordare tutti. Dal tenero autista Ralph (Paul Giamatti) alla segretaria Molly (Melanie Paxon), passando per il co-sceneggiatore del futuro possibile film, Don DaGradi (Bradley Whitford) e i compositori della colonna sonora, i fratelli Richard (Jason Schwartzman) e Robert Sherman (B. J. Novak) fino a Disney stesso. Nessuna eccezione.

La regia di Hancock è un continuo andirivieni tra presente e passato, dove si rivede la scrittrice australiana con i boccoli biondi, incantata dalle storie fantastiche del padre, Robert Goff Travers (Colin Farrell) e meno incline in tenerezza verso la madre Margaret (Ruth Wilson). Dalla città la famiglia si sposta in una località semi-sperduta australiana ma i problemi di lui non accennano a placarsi, fino al più tragico degli epiloghi.

Sono passati decenni da quella vita ma Pamela ne è ancora profondamente segnata. Ha smesso di essere una bambina prima del dovuto. È stata genitore di una coppia fragile e morente. E se lei non ha potuto essere piccola, allora proverà a regalare quell’infanzia perduta  al resto del mondo. Un senso di meraviglia perenne. Immune alle età. Ed ecco Mary Poppins.

Walt e Pamela. Due mondi fatti della stessa luce ma con un carico di ombre differenti. Come può una donna capace di creare una simile scintilla, essere così severa verso il mondo circostante? Walt ci perde il sonno. Non è per orgoglio. Non è l’occasione di un film mancato. Non è perseveranza. Al sig. Disney sta sfuggendo qualcosa. Pamela indossa una maschera. Cela un dolore. Adesso è arrivato il tempo di levarsela e ricominciare a vivere. Ripartendo proprio da Mary Poppins. Tutti insieme. Tutti a modo proprio.

Il trailer di Saving Mr. Banks


Saving Mr. Banks - la famiglia Travers
Saving Mr. Banks - l'autista Ralph (Paul Giamatti)
Saving Mr. Banks - la scrittrice Pamela Travers (Emma Thompson)
Saving Mr. Banks - Walt Disney (Tom Hanks)
Saving Mr. Banks - Walt Disney (Tom Hanks) e Pamela Travers (Emma Thompson)

Mary Poppins - Bert (Dick Van Dyke) e Mary Poppins (Julie Andrews)
Mary Poppins - George Banks (David Tomlinson)

giovedì 6 marzo 2014

Salvate tutti i Monuments (Men)

Monuments Men (2014, di George Clooney)
Lui, Adolf Hitler, voleva tutto per sé. Loro, i Monuments Men volevano tutto per riconsegnarlo alla storia (dell’arte) dell’intera umanità.

di Luca Ferrari

Picasso, Michelangelo, la pittura fiamminga e impressionista. Il Terzo Reich aveva requisito tutto. Avidi barbari collezionisti saccheggiavano chiese e musei (Louvre incluso). L’ignominia nazista non risparmiò nemmeno l’arte. Volevano tutto il mondo per loro, patrimonio artistico incluso. E se non ci fossero riusciti, l’ordine era perentorio: bruciare e distruggere. Poi un giorno comparvero i Monuments Men, e anche quella Storia cambiò per sempre.

Monuments Men (2014, di George Clooney). Il fatto era poco noto alla massa prima che lo sceneggiatore Grant Heslov ne scoprisse il libro da cui è stata poi tratta la pellicola: Monuments Men. Eroi alleati, ladri nazisti e la più grande caccia al tesoro della storia (2009,  di Robert M. Edsel). Così, si sono riuniti sotto la stessa telecamera i premi Oscar Clooney, Cate Blanchett, Jean Dujardin e Matt Damon insieme ai grandiosi Bill Murray, Hugh Bonneville, Bob Balaban e John Goodman.

Un nugolo di professionisti dell’arte viene catapultato nell’Europa devastata da bombardamenti per salvare dipinti e sculture dal fuoco nazista, e allo stesso tempo convincere gli Alleati a non causare ulteriori perdite al patrimonio artistico mondiale. Gente abituata a problemi di carattere museale o restauri ricomincia da un morbido addestramento militare in terra inglese, quindi sbarcano in Normandia e la missione può avere inizio.

La squadra è formata dal tenente-comandante Frank Stokes (Clooney), l’architetto Rich Campbell (Murray), lo scultore Walter Garfield  (Goodman), un direttore artistico francese Jean-Claude Clermont (Dujardin) e il produttore Preston Savitz (Balaban). Supportati dall’amico di vecchia data, il luogotenente Donald Jeffries (Bonneville), a loro si unirà anche il giovane soldato Sam Epstein (Dimitri Leonidas).

Lontano dal fronte, l’abile curatore d’arte James Granger (Damon) sbarca nella Parigi liberata. Lì incontra l’ex-curatrice del Louvre, Clair Simòne (Blanchett), imprigionata perché accusata  collaborazionista. È lei la persona chiave per intercettare un intero universo artistico trafugato dalle SS. Non si fida dell’americano. Vuole avere la certezza che una volta trovate, le opere torneranno in Francia.

La squadra dei Monuments Mens si divide tra Belgio, Olanda e Germania. La ricerca è disperata. Salvare il più possibile. Pale e arte moderna. Desapaercida la celebre Madonna di Bruges, opera scultorea d’inizio XVI realizzata Michelangelo nella Chiesa di Nostra Signora. Ma anche l’Armata Rossa è sulle tracce dell’arte, sebbene con fini più personali. Un piccolo assaggio di Guerra Fredda che finito il conflitto si svilupperà segnando più di un quarantennio di storia dell’umanità con annessa folle corsa agli armamenti nucleari.

Non manca l’ironia. Inevitabile quando si mettono nella stessa sala un inglese e un francese. Ma ancor di più è lo scontro statunitense-sovietico che sa di “soderberghiana” memoria. Quel mezzo sorriso dell’ufficiale dell’Armata Rossa beffato dagli scaltri yankee che gli lasciano in omaggio una splendente bandiera a stelle e strisce, non può non ricordare la scena di Oceans Twelve (2004) quando la banda di Ocean (Clooney e Damon presenti) sottrae quattro dipinti alla villa dell’abilissimo ladro NightFox (Vincent Cassel), e il suddetto ghigna divertito per quanto accadutogli.

Monuments Men è sbarcato sul grande schermo in un momento cruciale per l’Italia. In uno dei tanti cambi di governo, dove la storia dell’arte è stata messa sul banco delle materie sacrificabili. Già, proprio quell’Italia con il più alto numero di siti Patrimonio Mondiale per l’Umanità (49) che non avrebbe mai visto nascere i suoi geni di bottega se fossero stati trattati come tutti gli apprendisti contemporanei.

Come prevedibile Monuments Men è un film corale senza alcun acuto da prime donne. La pellicola lo richiedeva. La missione lo richiedeva. Qualcuno ci lascerà la pelle e la domanda allora è lecita: valeva la pena sacrificare una vita umana per salvare un quadro? La risposta spetta a ciascuno di noi. Ma se è un amico, un padre e lo stesso protagonista che si sacrifica a tramandarcelo, allora “forse” c’è proprio da crederci.

Guarda il trailer del film Monuments Men

Monuments Men (2014, di George Clooney
Monuments Men (2014, di George Clooney
Monuments Men (2014, di George Clooney)
Monuments Men (2014, di George Clooney)
Monuments Men (2014, di George Clooney)

martedì 4 marzo 2014

Una gondola chiamata Oscar

Lido di Venezia - 70. Mostra del Cinema, prima mondiale di Gravity: il futuro vincitore dell'Oscar per la miglior regia, Alfonso Cuarón con Sandra Bullock e George Clooney © Biennale foto Asac
Venezia anteprima, Academy gloria. È successo ancora una volta. Gravity, film di apertura della 70° Mostra del Cinema, ha conquistato sette premi Oscar.

di Luca Ferrari

Ieri, sul lungomare del Lido di Venezia. Oggi, sul red carpet di Hollywood. Protagonisti sempre loro con Alfonso, George e Sandra. Sbarcati tutti in laguna per l’anteprima mondiale di Gravity, film scelto per aprire la 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Poco più di sei mesi dopo ed ecco la pellicola trionfare agli Oscar 2014 vincendo sette Academy Awards su dieci nomination ottenute.

Nel dettaglio Gravity ha vinto per la Miglior regia di Alfonso Cuarón. Miglior fotografia di Emmanuel Lubezki. Miglior montaggio di Alfonso Cuarón e Mark Sanger. Migliori effetti speciali di Tim Webber, Chris Lawrence, Dave Shirk e Neil Corbould. Miglior colonna sonora di Steven Price. Miglior sonoro di Skip Lievsay, Niv Adiri, Christopher Benstead e Chris Munro. Miglior montaggio sonoro infine, di Glenn Freemantle.

“Non era mai successo negli ultimi 40 anni che il film d’apertura di Venezia ricevesse così tanti Oscar” ha dichiarato entusiasta il direttore del festival veneziano, Alberto Barbera, “Un successo che conferma come la Mostra del Cinema continui a essere la più prestigiosa occasione per lanciare e promuovere  internazionalmente i grandi film della stagione. Siamo orgogliosi di questo risultato e grati alla Warner Bros. per aver creduto nel festival. Complimenti ”.

Nel complesso sono state 15 le candidature all’Oscar 2014 di film presentati alla 70. Mostra di Venezia. Oltre alla già citata decina di Gravity, altre quattro sono andate al commovente Philomena (di Stephen Frears) e la poetica animazione di Si alza il vento, l’ultimo film (pare) del regista giapponese Hayao Miyazaki, Leone d’oro alla carriera 2005 e tornato in laguna tre anni dopo per la presentazione di Ponyo sulla scogliera, film in concorso alla 65° Mostra del cinema di Venezia

Al Kodak Theatre di Los Angeles Philomena era candidato nella sezione Miglior film, Miglior attrice protagonista a Judi Dench, Miglior sceneggiatura non originale a Steve Coogan e Jeff Pope, quindi  Miglior colonna sonora ad Alexandre Desplat. Il premio di Miglior sceneggiatura l’ha però conquistato proprio a Venezia e di seguito ai prestigiosi BAFTA – British Academy of Film and Television Arts.

Per la gente gli Oscar sono i premi più noti, ma non sono certo gli unici. I film presentati a Venezia 70. hanno saputo dire la loro anche in altre rassegne cinematografiche, a cominciare dai già citati BAFTA (sette premi in tutto di cui 6 a Gravity e 1 a Philomena), i Golden Globe (premiato Alfonso Cuarón per Gravity), i Producers' e i Directors’ Guild Awards (premiato Alfonso Cuarón per Gravity), i Critics' Choice Awards (7 premi per Gravity) .

Gloria “veneziana” anche ai National Society of Film Critics Awards dove sono stati premiati James Franco come miglior attore protagonista per Spring Breakers - Una vacanza da sogno (2012, di Harmony Korine), presentato a Venezia nel 2012. At Berkeley di Fred Wiseman (miglior non fiction), Stray Dogs di Tsai-Ming Liang (miglior film non ancora distribuito negli Usa).

Infine il film thailandese Mary is Happy, Mary is Happy (di Nawapol Thamrongrattanarit), realizzato attraverso il progetto Biennale College – Cinema e presentato in prima mondiale alla 70. Mostra di Venezia,  ha vinto 4 Thailand National Film Awards.

E con un forte applauso e sentite congratulazioni per l’Oscar del Miglior film straniero conquistato da una pellicola nostrana, La grande bellezza di Paolo Sorrentino, la Biennale di Venezia saluta tutti gli amanti del grande schermo con un arrivederci a mercoledì 27 agosto al Lido di Venezia per la 71° edizione della Mostra del Cinema.

Lido di Venezia, anteprima mondiale di Gravity - (da sx) sul red carpet il presidente della Biennale, Paolo Baratta, l'attrice protagonista di GravitySandra Bullock, il sindaco di Venezia Giorgio Orosni e
 il presidente della Mostra del Cinema, Alberto Barbera © Biennale foto Asac
Lido di Venezia, anteprima mondiale di Philomena,
il presidente della Mostra del Cinema, Alberto Barbera e l'attrice Judi Dench © Biennale foto Asac

lunedì 3 marzo 2014

Oscar 2014 , vince il cinema impegnato

Viaggio nell'86° edizione dei Premi Oscar
12 anni schiavo e Dallas Buyers Club trionfano. Cate Blanchett al 2° Oscar. Gravity fa incetta (7). A secco American Hustle e The Wolf of Wall Street.

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer

I lustrini di American Hustle e The Wolf of Wall Street non incantano la giuria degli Academy. Il grande trionfatore dell’86° edizione dei Premi Oscar è il cinema impegnato di Steve McQueen e Jean-Marc Vallée le cui rispettive pellicole, 12 anni schiavo e Dallas Buyers Club, si portano a casa tre statuette ciascuno.

12 anni schiavo, film patrocinato da Amnesty International, vince come Miglior film, Miglior attrice non protagonista (Lupita Nyong’o) e Miglior sceneggiatura non originale (John Ridley). Dallas Buyers Club, oltre al Miglior trucco e acconciatura (Adruitha Lee e Robin Mathews), centra la doppia accoppiata Globe/Oscar con l’attore protagonista e non protagonista Matthew McConaughey e Jared Leto.

Mattatore della serata in termini di statuette conquistate, Gravity di Alfonso Cuaron, film che aprì la 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. La pellicola si porta a casa sette Oscar: Miglior regia, fotografia, montaggio, effetti speciali, colonna sonora, sonoro e montaggio sonoro. Più che meritato l’Oscar della Miglior sceneggiatura originale a Spike Jonze per Her.

Secondo Oscar in carriera per Cate Blanchett. La sua fantastica interpretazione in Blue Jasmine (2013, di Woody Allen) le ha fatto mettere in riga anche una Meryl Streep monumentale nel I segreti di Osage County. Scontato infine il successo a La grande bellezza (2013, di Paolo Sorrentino) come Miglior film straniero.

L’elenco completo dei premi Oscar 2014

Miglior film: 12 anni schiavo (di Steve McQueen)
Miglio regia: Alfonso Cuarón (Gravity)
Miglior sceneggiatura originale: Spike Jonze (Her)
Miglior sceneggiatura non originale: John Ridley (12 anni schiavo)

Miglior attrice protagonista: Cate Blanchett (Blue Jasmine)
Miglio attore protagonista: Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club)
Migliore attrice non protagonista: Lupita Nyong’o (12 anni schiavo)
Miglior attore non protagonista: Jared Leto (Dallas Buyers Club)

Miglior film straniero: La grande bellezza (2013, di Paolo Sorrentino)
Miglior film d'animazione: Frozen – Il regno di ghiaccio (di Chris Buck e Jennifer Lee, Walt Disney Animation Studios)

Migliore fotografia: Emmanuel Lubezki (Gravity)
Miglior scenografia: Catherine Martin e Beverley Dunn (Il grande Gatsby)
Miglior montaggio: Alfonso Cuarón e Mark Sanger (Gravity)
Migliori effetti speciali: Tim Webber, Chris Lawrence, Dave Shirk e Neil Corbould (Gravity)

Miglior canzone: Let it Go (di Kristen Anderson e Lopez e Robert LopezFrozen)
Miglior colonna sonora: Steven Price (Gravity)
Miglior sonoro: Skip Lievsay, Niv Adiri, Christopher Benstead e Chris Munro (Gravity)
Miglior montaggio sonoro: Glenn Freemantle (Gravity)

Migliori costumi: Catherine Martin (Il grande Gatsby)
Miglior trucco e acconciatura: Adruitha Lee e Robin Mathews (Dallas Buyers Club)

Miglior documentario: 20 Feet from Stardom (di Morgan Neville)
Miglior cortometraggio documentario: The Lady in Number 6: Music Saved My Life (di Malcolm Clarke e Nicholas Reed)
Miglior cortometraggio: Helium (di Anders Walter e Kim Magnusson)
Miglior cortometraggio d'animazione: Mr. Hublot (di Laurent Witz e Alexandre Espigares)

12 anni schiavo (di Steve McQueen)
Dallas Buyers Club (di Jean-Marc Vallée

domenica 2 marzo 2014

And the Oscar 2014 goes to...

l'attrice-comica-doppiatrice Ellen DeGeneres presenterà l'86° edizione degli Oscar
Questa notte a Los Angeles è di scena l'86° edizione dei Premi Oscar. Il magazine online Cineluk - il cinema come non lo avete mai letto seguirà l'evento.

di Luca Ferrari

La simpatica Ellen DeGeneres, l'indimenticabile voce originale del pesce smemorato Dory nel capolavoro Pixariano Alla ricerca di Nemo (2003), torna in cabina di comando nella serata degli Oscar 2014. Tra le varie nomitation, ecco alcuni dei sicuri protagonisti di questa nuova notte delle stelle che nel corso del 2013 e inizio 2014 cineluk ha seguito e recensito:

- Il grande Gatsby, Il grande sogno di Baz Luhrmann
- La grande bellezza, La grande autocelebrazione
- Gravity, Un amico per vincere l'oscurità
- Blue Jasmine, Woody Allena, ma quanto è depressa Jasmine
- The Butler, L'immutevole razzismo di massa
- The Wolf of Wall Street, Il popolo invisibile di Martin Scorsese
- I segreti di Osage CountyGli estenuanti rancori di Osage County
- A proposito di Davis, Anime folk n viaggio coi Coen
- Dallas Buyers Club, Dallas HIVers Club
- 12 anni schiavo, Tutta la vita schiavi
- Il sospetto, Il sospetto è per sempre

See ya tonite, cheers

Los Angeles, il red carpet del Kodak Theatre - foto by Wikipedia

mercoledì 26 febbraio 2014

Il sospetto è per sempre

Il sospetto - Lucas (Mads Mikkelsen) © Per Arnesen
Basta un dito puntato e per il gregge il dubbio è già colpevolezza. Il sospetto (di Thomas Vinterberg), candidato all’Oscar per il Miglior film straniero.

di Luca Ferrari

Una parola. Un timore. Una certezza. Una voce messa in giro e il sospetto è già colpevole. Il gregge acumina gli zoccoli e colpisce senza pietà. Senza prove. L’innocenza perduta per sempre. Non è solo fantasia da grande schermo. Può capitare. Succede a scuola. Succede nel mondo del lavoro. Succede in famiglia. Ne viene risucchiato anche il malinconico e divorziato Lucas (Mads Mikkelsen), di professione insegnante d’asilo. La piccola Klara (Annika Wedderkopp) racconta una bugia su di lui e per l’uomo è l’inizio di un incubo.

Il sospetto (2012, di Thomas Vinterberg), candidato all’Oscar come Miglior film straniero.

Lucas è una persona sensibile. Un po’ succube dell’ex-moglie che gli fa vedere il figlio con il contagocce. Gli piace il proprio lavoro. Insieme agli amici di una vita va spesso a caccia. Tra di essi c’è anche Theo (Thomas Bo Larsen), padre della piccola Klara. Quest’ultima spesso viene dimenticata a scuola e ignorata a casa. Il buon Lucas è sempre lì, pronto ad aiutarla.

La bambina gli è sempre più affezionata e si prende la classica e ingenua prima cotta, ma quando lui  la ammonisce, lei si vendica raccontando bugie alla direttrice dell’asilo. Il tutto condito con paroloni ascoltati dal fratello adolescente che stupidamente le mostra per scherzare immagini pornografiche lasciandosi pure uscire un volgare frasario poco adatto a orecchi fanciulleschi.

Lucas viene messo al corrente di quanto è stato detto su di lui dalla direttrice Grethe (Susse Wold), e cioè che avrebbe avuto attenzioni spinte nei confronti di un bambino. Ma dall’iniziale prudenza del giudizio e verifica dei fatti, si passa quasi subito al suo licenziamento e conseguente  espulsione immediata dalla società. Senza appello. Per tutti Lucas è uno schifoso pedofilo e Klara ha detto di sicuro la verità. Il sospetto è certezza.

Nessuno crede alla sua innocenza. Solo il figlio Marcus (Lasse Fogelstrøm) e l’amico fraterno Bruun (Lars Ranthe) gli stanno accanto. La sua nuova ragazza Nadja (Alexandra Rapaport) invece, è lui a mandarla via. Ha paura per lei. Lucas è un condannato a cielo aperto. Viene arrestato e poi rilasciato. Gli ammazzano l’adorata cagna. Entrato al supermercato non viene servito, anzi. Invitato ad andarsene via, sarà picchiato e cacciato fuori in malo modo.

Altri bambini parlano di presunte molestie, tutte avvenute nel seminterrato della casa di Lucas. Peccato che lui non abbia una simile abitazione. La verità viene a galla. Strette di mano e nuovi sorrisi. In apparenza almeno. Qualcosa è cambiato. Un nuovo status quo si è sedimentato. Il sospetto rimane sospetto. La madre di Klara per esempio, Agnes (Anne Louise Hassing), insiste a credere ai fantomatici abusi della figlia. La vita di Lucas non sarà più la stessa. Qualcuno sarà sempre pronto a dargli la caccia.

Presentato alla 65° edizione del Festival di Cannes (16-27 maggio 2012), Il sospetto ha visto trionfare l’attore danese Mads Mikkelsen (King Arthur, Casino Royale, Scontro tra titani, Royal Affair) per la Miglior interpretazione maschile nella rassegna francese, mentre il regista Thomas Vinterberg si è aggiudicato il Premio della giuria ecumenica.

Fallito l’assalto al Premio BAFTA e al Golden Globe 2014 come Miglior film straniero invece, andati entrambi a La grande bellezza (2013, di Paolo Sorrentino), Il sospetto ritroverà il film italiano ai prossimi Oscar. Ed è quest’ultimo il superfavorito, e non tanto per i due riconoscimenti già conquistati. Hollywood si sa, ha un debole per quel Belpaese poetico-superficiale, annoiato d’immor(t)alità e così orgogliosamente cinico-fatalista.

Il sospetto al contrario, che in lingua originale (così come inglese) ha un titolo diverso, ossia Jagten (The hunt, trad. La caccia), racconta ben altro. Parla di esclusione. Parla di voci fuori dal coro. Parla della facile messa al bando dei meno conformisti o più banalmente di quelli appena un passo indietro/diverso dalla massa.

Lucas fa parte del branco, va in chiesa ogni domenica ma vive solo. Fa un lavoro che nell’immaginario collettivo è più femminile e l’ex-moglie glielo sbatte in faccia senza pietà. Così, quando una voce gli punta il dito (ditino) contro, per tutti è facilissimo crederci. Con un altro al suo posto ci sarebbe stato un comportamento diverso.

La grande bellezza contro Il sospetto. Due pellicole differenti. La prima insegue le carezze aristocratico-cafonesche del Fellini che fu, il secondo racconta la disperazione di un uomo. La sua discesa nell’inferno dell’emarginazione. Un territorio ambiguo. Ancor di più perché parla di pedofilia, tematica questa poco gradita nelle sale d’oltreoceano.

Nel film Il sospetto l'attore di Copenaghen classe '65 Mads Mikkelsen è superbo. Il suo Lucas gira a vuoto in un mondo deciso a stritolarlo. La fragilità del suo sguardo è come se avvertisse una minaccia sempre incombente.

Nella cinquina dei candidati all’Oscar 2014 come Miglior attore protagonista, a fianco di Bruce Dern (Nebraska), Chiwetel Ejiofor (12 anni schiavo) e Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club), Mads Mikkelsen avrebbe di gran lunga più meritato di Leonardo DiCaprio e Christian Bale per le rispettive interpretazioni negli eccessivamente pompati The Wolf of Wall Street e American Hustle.

Guarda il trailer del film Il sospetto (2012, di Thomas Vinterberg)

Il regista danese Thomas Vinterberg sul set del film Il sospetto
Il sospetto - Lucas (Mads Mikkelsen) e Nadja (Alexandra Rapaport) © Per Arnesen 
Il sospetto - la direttrice dell'asilo Grethe (Susse Wold) e la piccola Klara (Annika Wedderkopp
Il sospetto - Lucas (Mads Mikkelsen)
Il sospetto - Lucas (Mads Mikkelsen) abbraccia il figlio Marcus (Lasse Fogelstrøm) © Per Arnesen
Il sospetto (2012, di Thomas Vinterberg)

giovedì 20 febbraio 2014

Remo Capitani, lo chiamavano Mezcal

Lo chiamavano Trinità... - il mormone Tobia (Dan Sturkie) e Mezcal infuriato (Remo Capitani)
Lo chiamavano Trinità… (1970, di Enzo Barboni) non sarebbe stato lo stesso epico film senza le scorribande del lestofante messicano Mezcal (Remo Capitani).

di Luca Ferrari

Per tutti noi sarà sempre e solo Mezcal, il messicano che picchiava i mormoni ridendo sguaiato, fino a quando non incontrerà sulla propria strada due anomali e buoni pistoleri, Trinità (Terence Hill) e Bambino (Bud Spencer). E più che a darle, inizierà a riceverle. E di brutto. A interpretarlo, l’attore romano Remo Capitani (1927-2014), scomparso lo scorso 14 febbraio.

Una carriera cinematografica quasi quarantennale quella di Capitani, iniziata nel lontano 1966 in Uccidi o muori (di Tanio Boccia) e terminata con due particine nei kolossal Gangs of New York (2002, di Martin Scorsese) e La passione di Cristo (2004, di Mel Gibson). Tre le presenze insieme alla coppia Bud Spencer &Terence Hill, a cominciare da Dio perdona…io no! (1967) e I quattro dell’Ave Maria (1968), entrambi per la regia di Giuseppe Colizzi.

Poi arriva Enzo Barboni/E.B. Clutcher e il suo cult western Lo chiamavano Trinità…(1970) dove Remo Capitani da stazza e rozze maniere al bandito messicano Mezcal. Le sue sfuriate e ceffoni rifilati ai mormoni sono epiche, in particolare al capo-gregge Tobia (Dan Starkie). Ma ancor più immortale è quando si ripresenta alla loro tavola convinto di trovare arrosto e vino (molto vino), ma al contrario c’è solo acqua e zuppa senza sale.

Mezcal a quel punto non ci sta più di testa. Li vuole tutti in fila per dare loro un ricordino. Non sa che lì nel mezzo, tra quei placidi e inermi agricoltori, ci sono anche la mano destra e sinistra del Diavolo (Trinità e Bambino). Così, quando arriva a quest’ultimo, le sue parole sono da pura antologia: Questo mi è nuovo, non l’ho mai picchiato prima… Si sputa sulle mani, colpisce con un potente sberlone la faccia del barbuto omone ma…

Lo chiamavano Trinità... Mezcal (Remo Capitani) picchia gli agricoltori

Lo chiamavano Trinità... - Mezcal (Remo Capitani) e il Maggiore (Farley Granger)
Lo chiamavano Trinità... - Mezcal (Remo Capitani) vuole il vino, il mormone Tobia (Dan Sturkie)
appena picchiato, Trinità (Terence Hill) e Bambino (Bud Spencer)

martedì 18 febbraio 2014

Tutta la vita schiavi

12 anni schiavo - Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor)
Giovedì 20 febbraio esce il film 12 anni schiavo (2013, di Steve McQueen), candidato a 9 premi Oscar e patrocinato da Amnesty International

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fororeporter – web writer

Schiavi della violenza. Schiavi di spregevoli esseri umani. Schiavi di nazioni dittatoriali. Schiavi, schiavi e ancora schiavi. La schiavitù non è qualcosa di cui vergognarsi delle umanità passate. È ancora uno dei peggiori cancri del mondo contemporaneo. Un tempo catene e frusta. Oggi economie affamano, dividono, sentenziano. E poi ci sono loro, gli schiavi degli schiavi. E ancora gli schiavi degli schiavi degli schiavi.

Giovedì 20 febbraio esce nelle sale cinematografiche italiane 12 anni schiavo, il nuovo film del regista londinese Steve McQueen (Hunger, Shame) con protagonisti Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Giamatti e Brad Pitt, con quest’ultimo in veste anche di produttore con la sua Plan B Entertainment.

Tratto dall’autobiografia di Solomon Northup, 12 anni schiavo racconta di un musicista di colore libero che fu rapito da traficanti di schiavi e quindi riottenne la libertà dopo 12 anni di catene in Louisiana. Distribuito in Italia da BIM, la pellicola, proprio per la delicatezza del tema trattato e la tragica contemporaneità, è stato patrocinato da Amnesty International.

Vincitore del Golden Globe come Miglior film drammatico e di due premi BAFTA come Miglior film  e Miglior attore protagonista Chiwetel Ejiofor, alla serata degli Oscar del prossimo 2 marzo, 12 anni schiavo si presenta con 9 nomination tra cui Miglior film, Miglior regista a Steve McQueen, Miglior attore protagonista a Chiwetel Ejiofor, Miglior attore non protagonista a Michael Fassbender, Miglior attrice non protagonista a Lupita Nyong'o e Miglior sceneggiatura non originale a John Ridley.

“Dal punto di vista di un’organizzazione per i diritti umani, la storia di Solomon Northup si collega a quella di tanti uomini e donne del XXI secolo il cui lavoro è sfruttato in condizioni estreme in molti paesi” denuncia Amnesty, “Fra di essi la Mauritania, l’ultima nazione al mondo ad aver abolito la schiavitù per legge nel 1981, anche se non nella pratica”.

Nello stato dell’Africa Occidentale infatti, si stima che oltre il 20 per cento della popolazione (il gruppo etnico harratin) sia asservito totalmente o parzialmente. Le organizzazioni anti-schiavituù vengono perseguitate dalle autorità e i loro leader sono frequentemente imprigionati.

Nei paesi dell’Asia meridionale milioni di persone (bambini inclusi) sono costretti a lavorare per pagare debiti di famiglia, spesso in condizioni di estremo pericolo e in impieghi usuranti. A Hong Kong migliaia di donne indonesiane, vittime del traffico di esseri umani, lavorano in condizioni di sfruttamento o vera e propria schiavitù come collaboratrici domestiche. Sono sottoposte a orari massacranti, sottopagate, vittime di violenza sessuale e impossibilitate a uscire dall’abitazione in cui prestano servizio.

Non è da meno il Qatar dove la manovalanza straniera (Asia meridionale in particolare) vive in condizioni a dir poco drammatiche. Una realtà fatta di assenza di controlli sulla sicurezza, mancato pagamento dei salari, condizioni abitative sconcertanti (alloggi squallidi e sovraffollati, senza aria condizionata, circondati da rifiuti e da fosse biologiche scoperte e in diversi casi privi di acqua potabile), turni di lavoro di 12 ore al giorno per sette giorni alla settimana, anche durante il torrido periodo estivo.

E se i benpensanti italiani si sentono al sicuro dall'orribile realtà della schaivitù, forse varrebbe la pena ricordargli che cosa è accaduto a lavoratori migranti provenienti dall'Africa subsahariana, Africa del Nord e dall'Asia, impiegati in lavori poco qualificati, spesso stagionali o temporanei, per lo più nel settore agricolo delle province di Latina e Caserta

“A parità di lavoro ricevono paghe inferiori di circa il 40 per cento rispetto al salario italiano minimo e lavorano un maggior numero di ore” ha denunciato Amnesty International, “l’introduzione poi del reato di ingresso e soggiorno illegale – ha reso impossibile per i lavoratori migranti chiedere giustizia per salari inferiori a quanto concordato, per il mancato pagamento o per essere sottoposti a lunghi orari di lavoro. La prospettiva per molti di loro era che se avessero denunciato lo sfruttamento sarebbero stati arrestati ed espulsi a causa del loro status irregolare”.

Giovedì 20 febbraio sbarca sul grande schermo 12 anni schiavo, di Steve McQueen. Una storia vera. Una delle tante pagine abominevoli create dall'umanità grondanti sangue e disperazione. Quelle stesse vicende che si ripetono giorno dopo giorno nell'evoluta società moderna. Ma se i colpi di frusta dei negrieri scagliati sulla schiena di neri legati vi faranno accapponare la pelle, che cosa avete da dire del mondo di oggi? Non lo conoscete? Forse è il caso di scoprirlo.

Guarda il trailer di 12 anni schiavo

12 anni schiavo - Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor)
12 anni schiavo - Edwin Epps (Michael Fassbender), Patsey (Lupita Nyong'o) e Solomon (Chiwetel Ejiofor)
12 anni schiavo (2013, di Steve McQueen)

venerdì 14 febbraio 2014

In viaggio coi Coen, anime folk

A proposito di Davis - il musicista Llewyn Davis (Oscar Isaac) © Alison Rosa, 2012 Long Strange Trip LL.
Un uomo e le sue sabbie mobili interiori. Un musicista folk e il suo logorante ciclico cammino. Joel ed Ethan Coen “menestrellano” A proposito di Davis.

di Luca Ferrari

L’ispirazione brucia. L’anima si consuma. L’essere umano cerca il suo posto. Il suo colpo da respingere. Infrange le ombre poste a guardia del proprio immaginifico splendore, poi torna indietro. Si perde. Girovaga. Invecchia. Lascia. Tre anni dopo Il Grinta, i quattro volte premi Oscar Joel ed Ethan Coen raccontano la fiaba folk A proposito di Davis (Inside Llewin Davis, 2013).

Ispirato alla vita del cantante Dave Van Ronk (1936-2002), nel Greenwich Village newyorkese si snoda l’esistenza di Llewyn Davis (Oscar Isaac). Senza un tetto. Senza un domani. Si barcamena tra i divani di vecchi e nuovi amici. Tra i suoi letti preferiti, la famiglia dell'amico suicida con cui aveva un duo musicale di discreto successo. La carriera solista invece non procede troppo bene.

Llewyn ci prova, ma senza troppa convinzione. Si lascia trascinare dalla corrente verso una meta più o meno definita. La grande strada americana divide e anticipa. Vomita block-notes sui cui intingere melodie canterine. Tramanda storie ancora troppo impersonali perché lo spartito si animi. Il sorriso di un amico c’è ad ogni modo. La porta aperta di una famiglia finto-adottiva è in linea d’aria e a portata di telefonata.

Davis sembra allergico alle logiche commerciali della musica. Gli mancano i soldi ma non accetta i compromessi. Partecipa insieme all’amico Jim Berkey (Justin Timberlake), ma per estrema necessità rinuncia alle royalties. Si mette un viaggio alla ricerca della sua grande occasione. Ma quando, dopo un "fratelldoveseiano" viaggio, riesce a ottenere un provino davanti al produttore Bud Grossman (F. Murray Abraham), a dispetto della mezza bocciatura ma con una prospettiva di suonare per lui in un gruppo, rifiuta e torna nel calore dei propri demoni.

E chi è quel micio insieme a lui? Che cosa rappresenta nell’universo Coeniano? Resta ma scappa. Dovrebbe essere uno di famiglia, ma si scopre non esserlo. Eppure rimane. Nelle diagonali degli occhi rassegnati del protagonista c’è un’arrendevole rabbia per un mondo che non riesce a mutare. Si accolla il peso di un cambiamento epocale, interrotto dagli eventi.

E allora la propria strada può ricominciare. E proseguirà, ne siamo certi. Su nuovi ma non per questo meno settoriali binari. Pensavo mi ci volesse solo una bella dormita, ma non è stato così ammette Llewyn. Ha i piedi freddi. Ha paure che non trovano spazio nelle sue canzoni. Ha silenzi che appartengono a ciascuno di noi. Forse di tanto in tanto avrebbe voluto fermarsi accanto alle rotaie senza essere disturbato.

Non ho altro, au revoir.

Guarda il trailer del film A proposito di Davis

A proposito di Davis (2013, di Joel ed Ethan Coen)
A proposito di Davis - Llewyn (Oscar Isaac), Jim (Justin Timberlake) e Jean (Carey Mulligan)
A proposito di Davis - il musicista Llewyn Davis (Oscar Isaac) © Alison Rosa, 2012 Long Strange Trip LL.
A proposito di Davis - Llewin (Oscar Isaac) e Jim (Justin Timberlake)
© Alison Rosa, 2012 Long Strange Trip LL.
A proposito di Davis - il musicista Llewyn Davis (Oscar Isaac)

martedì 11 febbraio 2014

Dallas HIVers Club

Dallas Buyers Club - Rayon (Jared Leto) e Ron (Matthew McConaughey)
Dai macho-pregiudizi contro i gay alla lotta comune per sopravvivere all’HIV. La vera storia di Ron Woodroof e di come fondò il Dallas Buyers Club (2013).
 
di Luca Ferrari

Io sto morendo e lei mi consiglia di farmi abbracciare da un branco di finocchi?!? Sbraita esplicito, allibito e arrabbiato il macho texano Ron Woodroof (Matthew McConaughey), con il totale disgusto e disprezzo per gli omosessuali. Ha appena scoperto di aver contratto l’HIV e non vuole sentir parlare di gruppi di sostegno dalla Dr. Eve Saks (Jennifer Garner). Vuole solo qualche pastiglia. Ma non funziona così, e non andrà “proprio” così.

Se Dead Man Walking (1995, di Tim Robbins) provò a far cambiare idea alle moltitudini di sostenitori della pena di morte, Dallas Buyers Club (2013, di Jean-Marc Vallée) potrebbe far rivedere le proprie convinzioni omofobe a tante persone, seguendo quel sentiero d’impegno cinematografico civile solcato da pellicole come Philadelphia (1993, di Jonathan Demme).

Dallas Buyers Club racconta la vera storia di Ron Woodroof, un uomo che d’improvviso scoprì di essere gravemente malato, con la tragica prospettiva di avere ancora 30 giorni di vita. Non potendo ottenere l’antivirale AZT, quasi allo stremo ripara in Messico dove scopre esserci medicine che inspiegabilmente il potentissimo ente governativo statunitense FDA – Food and Drug Administration (Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali) non autorizza in patria.

Ron non ha più un posto dove stare. Ha perso il lavoro. I suoi vecchi amici di bar e del cantiere sono spariti. Lo evitano. Lo trattano come un appestato. Gli hanno scritto frocio davanti a casa. È probabile che lui avrebbe fatto lo stesso. I commenti omofobi si sprecano quando leggono della morte di Rock Hudson. Per tutti chi ha l’AIDS è uno "schifoso finocchio".

Rientrato dal Messico sotto mentite spoglie, Ron mette in piedi un business di medicinali. In principio da solo, poi si fa aiutare (non senza pensare ai clienti che gli potrebbe procurare), il transessuale tossicomane Rayon (Jared Leto), conosciuto sul letto d’ospedale e in principio per nulla apprezzato. Prima la vendita è diretta, poi per aggirare gl’inevitabili ostacoli governativi, fondano il Dallas Buyers Club: 400 dollari d’iscrizione mensile e si ottengono i medicinali gratuiti.

Scene anche esilaranti. Riacquistate le forze, Ron torna ai piaceri carnali, masturbazione inclusa. Divertentissima la scena mentre nel tentativo di eccitarsi davanti alle classiche foto di superdotate attaccate in ufficio, si blocca di brutto una volta incappato con lo sguardo nel poster della rockstar Mark Bolan (1947-1977), per cui Rayon aveva un debole.

Ma se qui si ride, di sapore ben diverso (vendetta, giustizia) è l’incontro al supermercato tra Ron e il vecchio amico T. J. (Kevin Rankin). Nel presentargli Rayon, completo di parrucca, trucco e minigonna, quest’ultimo gli tende la mano ma lui lo guarda con disprezzo e rifiuta. Ron allora lo afferra in malo modo e quasi strangolandolo intima a T. J. di ricambiare il gesto cortese del nuovo e vero amico.

Dallas Buyers Club non è solo una film per riportare all’attenzione una malattia entrata nel dimenticatio semplicemente perché qui nel sacro Occidente si muore di meno, ma è per parlare dell’omosessualità. E questo è attuale. Al giorno d’oggi adolescenti arrivano al suicidio perché emarginati. Nelle famiglie si vuole evitare l'argomento. Nel mondo dello sport si nega l'evidenza, vedi le patetiche parole dell'ex-ct della Nazionale, Marcello Lippi. E di questa realtà , politica, scuola e religione fanno ben poco. Fanno davvero poco. Non fanno nulla.

"Parliamone apertamente, usciamo allo scoperto. Mettiamo una bella luce negli angoli bui" ammoniva l’avvocato Miller (Denzel Washington) nel difendere Andrew Beckett (Ton Hanks) nel toccante Philadelphia, "Perché questa causa non è solo sull’AIDS, quindi cominciamo a parlare dei veri problemi di questo processo. L’odio della gente. La nostra ripugnanza. La nostra paura degli omosessuali

Se il più noto Martin Scorsese ha fallito miseramente col suo tanto declamato e contemporaneo The Wolf of Wall Street, presentando un delinquente dell’alta finanza senza la benchè minima critica e anzi, mostrandolo alla fine quasi come un modello da imitare, il regista canadese Jean-Marc Vallée (C.R.A.Z.Y., The Young Victoria) al contrario sa osare.

Leonardo DiCaprio ha vinto il Golden Globe come Miglior attore in un film commedia o musicale. Matthew McConaughey e Jared Leto rispettivamente come Miglior attore e Miglior attore non protagonista in un film drammatico. The Wolf of Wall Street e Dallas Buyers Club si ritroveranno l’un contro l’altro anche ai Premi Oscar in tre nomination: Miglior film, attore e attore non protagonista.

Dallas Buyers Club è un film educativo. Racconta una storia vera come il collega "scorsesiano", ma non si trincera dietro la mera cronaca. Inquadra le lacrime di un uomo disperato capace di abbattere le proprie chiusure mentali. In principio è politically scorrect nel parlare dei gay. È deciso nel voler far riflettere uno spettatore malato quasi-terminale di testosterone e comodi silenzi.

A volte mi sembra di lottare per una vita che non ho il tempo di vivere, dice Ron (Matthew McConaughey) mentre se ne va su e giù tra Stati Uniti e ovunque (Giappone, Israele, etc.) riesca a recuperare medicinali con cui prolungare la sua esistenza e quella di centinaia di persone nella sua stessa condizione. Ron Woodroof ha fatto di più. Non ha solo sfidato una malattia guadagnando sette anni di vita prima di morire. Ha combattuto contro i propri pregiudizi, e ha vinto. In eterno.

Guarda il trailer di Dallas Buyers Club

Dallas Buyers Club - Ron (Matthew McConaughey)
Dallas Buyers Club - la Dr. Eve Saks (Jennifer Garner)
Dallas Buyers Club - Rayon (Jared Leto) e la Dr. Eve Saks (Jennifer Garner)
Dallas Buyers Club (2013, di Jean-Marc Vallée)

mercoledì 5 febbraio 2014

Gli estenuanti rancori di Osage County

I segreti di Osage County - Ivy (Julianne Nicholson), Violet (Meryl Streep) e Barbara (Julia Roberts)
L’improvviso suicidio del vecchio Weston spalanca l’inferno di ruggini familiari e livori mai sopiti. I segreti di Osage County schizzano fuori afosi e presenti.

di Luca Ferrari

Abbandoni. Tradimenti. Recriminazioni. La famiglia Weston si divide tra segreti, astio, accuse, risentimenti e soprattutto silenzio. Tutto cova. Tutto resiste /coesiste al prezzo di lontananze, alcol e pillole. Un giorno d’improvviso qualcosa cambia. L’ormai anziano Beverly (Sam Shepard) si suicida. La famiglia si ricongiunge. L’equilibrio è allo stremo.

Il regista John Wells (E.R., The Company Men) dirige I segreti di Osage County (2013), basato sull’omonima pièce teatrale di Tracy Letts, August: Osage County (titolo anche del film in lingua originale). A intrepretare i protagonisti, un cast di grandissimi attori che aggiungono ulteriore drama & poetry alla già intensa storia.

Scomparso il marito, Violet (Meryl Streep), malata di cancro alla bocca, chiama a raccolta tutta la famiglia. La sorella Mattie Fae (Margo Martindale), quindi le tre figlie Barbara (Julia Roberts), Caren (Juliette Lewis) e Ivy (Julianne Nicholson). La prima vive in Colorado e sta divorziando da Bill (Ewan McGregor), passato a una compagna più giovane. Hanno una figlia, Jean (Abigail Breslin).

Caren si è trasferita in Florida. Appare chiaro il suo passato di più relazioni. Adesso pare abbia trovato l’uomo giusto con cui convolerà a nozze. Si chiama Steve (Dermot Mulroney), guida una Ferrari e fuma erba. Gli ci vorrà poco per entrare in confidenza con la quattordicenne Jean. Ivy invece non è mai andata via da Osage County. È sola. Non si trucca e in apparenza è la più pacata della combriccola.

A chiudere il quadro familiare, Charles Aiken (Chris Cooper) e Little Charles (Benedict Cumberbatch), marito e figlio (con qualche problema) di Mattie Fae. Violet fuma di continuo. È dispotica. Pretende. L’unica a tenerle testa per volume di voce e modi opprimenti è Barbara. Si scontrano. Non si riappacificano. Si scontrano. Si accusano a vicenda. Si accusano a vicenda della morte del marito/padre.

E poi c’è lui. Il paesaggio e la sua colonnina di mercurio. Lo stato del Nebraska. Al centro degli Stati Uniti. Metafora di trincee neutrali dove tutti cercano di confinarsi. A dispetto degli immensi spazi aperti, la telecamera confina. Chiude. È spietata quanto il gioco di carnefici/vittime che entra burrascosamente in scena. Nessuna nuvola colora il cielo della contea di Osage per ricordare il potere di una lacrima. È tutto secco.

La morte però costringe gli esseri umani a prendere coscienza delle proprie ferite. C’è chi dice subito di non averle. C’è chi rimuove i sedimenti, aspettando che il sangue fluisca e finisca di sgorgare, quindi appoggia le bende. C’è chi ci soffia un attimo sopra e poi le richiude nel proprio passato. A casa Weston si fa solo la prima o la terza scelta.

Il mondo familiare dei Weston è popolato da creature disperate, arrabbiate e morenti. Con un troppo alto tasso di adolescenti invecchiati e ricoperti da rughe. Storditi da quei sogni mai nemmeno cominciati. In mezzo a loro sguazza ancora qualche bambino precoce intenzionato a fare chissà cosa, quando, come. Il mondo familiare dei Weston è attraversato da bipedi sul viale di un lungo e taciturno tramonto monocromo. A dieta stretta di pace.

Nel 1979 Meryl Streep ottenne la sua prima nomination agli Oscar conferendo fragilità e paura alla Linda nel dramma pre e post Vietnam de Il cacciatore (di Michael Cimino). 35 anni dopo e tre Academy conquistati è ancora lì, in prima fila per la sua 18° nomination con la performance in I segreti di Osage County. Insieme a lei, anche Julia Roberts. L’ultima nomination ottenuta dall’ex-Pretty Woman fu nel 2001 per Erin Brockovic – Forte come la verità (di Steven Soderbergh), e vinse l’Oscar.

Un consiglio all’Academy. Non commettete l’errore dei Golden Globe di farvi abbacinare dai lustrini “american-hustleiani” di Amy Adams e Jennifer Lawrence. Senza nulla voler togliere alle due giovani attrici, vincitrici rispettivamente del premio come Miglior Attrice e Miglior Attrice Non protagonista (sono anche nominate agli Oscar nelle medesime categorie),  le performance di Meryl Streep e Julia Roberts  espresse in I segreti di Osage County sono di gran lunga superiori alle due colleghe dirette nell'ultimo film di David O. Russel.

Il viaggio estivo di John Wells a Osage County non fa sconti. Racconta un mondo schiavo del passato. Un mondo segnato dall’aver rinunciato alla comunicazione. Il mondo è perduto. Quel mondo (s)fatto di uomini e donne capace di cambiare il corso degli oceani, si squaglia sotto il sole d’agosto nelle grandi pianure americane. Si ritira. Abdica.

A turno le figlie se ne vanno. Chi per opportunismo, chi per tristezza. L’ultima ad andarsene è Barbara. Sgomma via, con la madre a implorarla di non partire. Poi a un certo punto si ferma. Scende dal veicolo e sorride, ma prosegue. Perché lo fa? Il marito non tornerà più da lei. La figlia la detesta. Non rivedrà mai più le sorelle e la madre morirà da sola.

È il sorriso della maschera. La società e il tempo da vivere lo richiedono. Lo impongono. Ribellarsi alla propria tristezza è un compito troppo arduo per la maggioranza di noi. Così, mentre Barbara scompare nelle distese del Midwest, Johnna (Misty Upham), la domestica nativa assunta da Bevery Weston prima del suicidio, rimane ad accudire Violet. Emblema di una solitudine che nessuno vuole più avere. Avamposto invisibile verso il più miserevole dei sonni dell’animo umano. 


guarda il trailer del film I segreti di Osage County

I segreti di Osage County (2013, di John Wells)
I segreti di Osage County - lite tra Violet (Meryl Streep) e Barbara (Julia Roberts)
I segreti di Osage County - la famiglia Weston al completo