Bohemian Rhapsody - il cantante dei Queen, Freddy Mercury (Rami Malek)
Spinto da un amico in attesa della mia spiegazione ufficiale, è uscito troppo inchiostro per non farne partecipe anche cineluk. Bohemian Rhapsody mi convince poco perché...
I want it all, We will rock you, We are the champsions, The show must go on, etc. Chi non ha cantato i Queen almeno una volta nella propria vita? Un conto però sono le canzoni di una band che ha fatto la Storia della musica, un conto è farne un lungometraggio come è appena avvenuto con l'opera Bohemian Rhapsody (2018, di Bryan Singer). A più riprese ho manifestato la mia perplessità sulla suddetta opera che, voglio specificare, al momento non ho ancora visto. Qualche elemento per farmi un'idea però ce l'ho e ora ve li argomento uno per uno.
Premesso che non so se riuscirò a vedere questo film ma se lo dovessi fare e poi scrivere una recensione, non partirei certo con stupide idee di stroncarlo, però in tutta onestà ho brutte sensazioni. Rami Malek (Una notte al museo, Mr. Robot, Papillon), l'attore che interpreta Freddy Mercury, non mi ha mai convinto. Troppo giovane per capire davvero la portata di un uomo che ha vissuto un’epoca lontana anni luce dalla sua. Poi certo, c’è la musica dei Queen. Come non si fa a venirne trascinati, e per di più sul grande schermo? Ma per quello non c’è bisogno di un film, basta solo un cd e il resto viene da sé.
Opere simili sono difficili da fare. Anche Oliver Stone fece cilecca chiamando un film The Doors ma incentrandolo in modo esasperato sul cantante Jim Morrison. C’è però una sostanziale differenza tra questi due lavori ed è la principale ragione del mio scetticismo. Bohemian Rhapsody è un film del tutto fuori contesto. The Doors arrivò in un momento (primi anni Novanta) in cui la cultura dei Sixties era tornata popolare grazie a un rock politico di chiara eredità sessantottina che contribuì a dare al film molta attualità. Le rock star nel senso di una volta stavano sparando le ultime cartucce, e la figura di Jim (ben incarnata da Val Kilmer) trovò un substrato musicale e culturale idoneo per presentarsi alle nuove generazioni.
La neve nel cuore - Susannah (Elizabeth Reaser) con i figli e il padre Kelly (Craig T. Nelson)
Un caldo desiderio di stare realmente insieme e condividere il natale nel nome della dolcezza più sincera. La famiglia Stone è pronta. La neve nel cuore (2005, di Thomas Bezucha).
La famiglia Stone si ritrova sempre per natale, numerosa e sinceramente felice a casa dei gebitori Kelly e Sybil. I cinque figli Everett, Ben, Susannah, Amy e Thaddeus, sono ormai grandi ma il calore che si respira in casa è sempre quello di una volta. Il primogenito però, è in arrivo con la nuova fidanzata molto poco in linea con i principi "peace & love" di questo colorito combo del Connecticut. In principio è scontro. In principio c'è sollazzo. In principio non c'è il tanto decantato spirito di apertura. Il natale però è un momento magico e i sentimenti dovranno cambiare di posto per trovare la più corretta e dolce collocazione. Imperdibile film natalizio, La neve nel cuore (2005, di Thomas Bezucha).
Il raffinato primogenito Everett (Dermot Mulroney) è pronto a presentare alla famiglia la sua nuova fidanzata, l'acida business-woman Meredith Morton (Sarah Jessica Parker). Del tutto fuori posto rispetto al pensiero e le ideologie degli Stone, prima a non sopportarla è la sorella minore di lui, Amy (Rachel McAdams). Dopo i primi ferraginosi movimenti, goccia che fa traboccare il vaso, le sue idee sull'omosessualità sbattute in faccia a tutti, incluso Thaddeus (Thyrone Giorda), gay sordomuto, e il compagno Patrick (Bryan J. White), suscitando le ire dei sempri pacati Kelly (Craig T. Nelson) e ancor di più, la moglie Sybil (Diane Keaton).
Dopo l'ennesimo scontro, Meredith abbandona la casa e ripara in albergo. Nel frattempo, a provare a darle manforte, arriva sua sorella Julie (Claire Danes), al contrario di lei molto ben accolta. Everett era tornato a casa per avere da sua madre il famoso anello della nonna e chiedere la mano di Meredith ma qualcosa sta cambiando. Le differenze vengono a galla e complice una sbronza riparatoria, la ragazza si lascia andare col fratello di lui, Ben (Luke Wilson), o almeno così pare, facendo poi anche la conoscenza di Brad Stevenson (Paul Schneider), primo amore mai dimenticato di Amy.
Arriva la notte di natale e nell'aria c'è ancora un po' di tensione. La figlia dell'altra sorella, Susannah (Elizabeth Reaser), è in fermento per i regali. Un buffo equivoco porta le pedine nella giusta posizione ma ecco arrivare ciò che non ti aspetti. Meredith ha un regalo uguale per tutti. Qualcosa che scatenerà una carezza collettiva di sentimento a cominciare proprio dalle ostili Amy e Sybil. Il natale compie la sua magia, o meglio, gli esseri umani si aprono. C'è del dolore nascosto ma ora non ha più importanza. Scorrono lacrime d'amore, regalando al 25 dicembre un ricordo indimenticabile e imperituro che renderà i loro cuori ancor più speciali.
Sarà (anche) perché in Italia il natale in famiglia al cinema è sempre demonizzato e mostrato come la fiera della superficialità, ma fin da quando La neve nel cuore (The Family Stone) sbarcò sul grande schermo, mi precipitai subito a vederlo. Sarà anche perché ho trascorso un natale negli Stati Uniti e da perfetto straniero fui accolto dalla famiglia di cui ero ospite e i loro amici come fossi uno di loro, ho scelto La neve nel cuore come apripista della mini-rassegna di film natalizi pubblicata su cineluk - il cinema come non lo avete mai letto, perché racconta più di molti altri, un aspetto davvero speciale di questa festa: lo stare insieme prima, durante e dopo, toccando tasti dolci e amorevolmente amari della vita reale.
Cast molto variegato a cominciare dalla Premio Oscar Diane Keaton (Io e Annie,Il padre della sposa, Il club delle prime mogli), a giganteggiare in una tavolozza di sentimenti. Pura dolcezza invece, l'ex-Giulietta "Luhrmanniana" Claire Danes, attrice di grande talento ma ormai lontana dai fasti della settima arte, opposta tanto nella vita reale quanto nella suddetta pellicola, alla sorella (cinematografica) Sarah Jessica Parker (Ed Wood, A casa con i suoi, Che fine hanno fatto i Morgan?). Spogliata delle griffe di Sex and the City, qui è una donna che vede frantumarsi tutte le proprie sicurezze (e pregiudizi) sotto il fuoco spregiudicato di questo aggregato di liberali.
Candidata all'Oscar come Miglior attrice non protagonista nel pluripremiato Il caso Spotlight (2015), Rachel McAdams (State of Play, Sherlock Holmes, Midnight in Paris) è la classica figlia-maschiaccio. Studia al college fuori casa. Fa la dura e a tratti si comporta come una bimba capricciosa, ma sotto quella coltre di sguardi spregiudicati, si nasconde una dolce creatura sentimentale che finalmente si rivelerà a tutti, e in modo contagioso, con l'involontario contributo dell'ultima persona che avrebbe mai potuto immaginare.
Più di contorno i cinque maschietti con Luke Wilson (La rivincita delle bionde, I Tenenbaum, Idiocracy) grandiosamente trash nell'offrire soccorso all'ultima arrivata al freddo, diciamo così, con un pigiama un po' troppo aderente sulle parti basse. Un'ultima nota. Nel consueto e originalissimo ricordare sempre l'orrida versione italiana del titolo del film The Eternal Sunshine of the Spotless Mind, non è che La neve ne cuore sia proprio di alto livello. Più che un gioco di parole dal significato ambiguo, e di gran lunga più azzeccato in inglese. Nelle parole del Bel paese mancano però gli elementi essenziali, la famiglia e lo stare insieme.
La neve nel cuore (2005, di Thomas Bezucha) ci accompagna dentro la casa della famiglia Stone immersa nel clima natalizio. La festa tradizionalmente più amata però, è solo un pretesto. Ci sono delle persone che condividono uno spazio e anche se un po' stretti, stanno comunque tutti insieme e ne sono felici anche perché non capita così spesso. C'è chi lavora lontano e il natale significa ritrovarsi e darsi un sincero abbraccio. Si fanno forza l'un l'altro. Condividono le difficoltà e quando arriva l'autobus per portarci lontano da qui, sotto qualche caldo fiocco di neve, è già arrivato qualcuno a chiederci di restare ancora un altro po'.
Ho iniziato la mia rassegna di 5 lungometraggi sulla magia del natale con La neve nel cuore (2005, di Thomas Bezucha) perché è un film che mi ha sempre fatto commuovere anche quando non avevo nulla in comune con la famiglia Stone, nemmeno lo zerbino sporco. Noi siamo il nostro mondo, ammette Sybil a una Meredith in lacrime, tra il commosso e il divertito. Ecco, questo è il natale. Sapere che una famiglia è un po' come un mondo dove nessuno si vergogna di mostrare le proprie lacrime e quando ci si siede l'uno accanto all'altro/a, è semplicemente perché ne si ha davvero voglia avendo la certezza che al mondo non ci sarà mai nulla di meglio né di più speciale.
Il trailer in lingua originale di La neve nel cuore (The Family Stone)
La neve nel cuore (2005, di Thomas Bezucha)
La neve nel cuore - Sybil Stone (Diane Keaton) osserva la neve cadere
La neve nel cuore - Meredith (Sarah Jessica Parker) ed Everett (Dermot Mulroney)
La neve nel cuore - Ben (Luke Wilson)
La neve nel cuore - l'arrivo di Julie (Claire Danes)
La neve nel cuore - Il regalo di nata, la foto di una giovane Meredith incinta
La neve nel cuore - Patrick (Bryan J. White) e Thaddeus (Thyrone Giordano)
La neve nel cuore - Tutti attorno l'albero di natale
La neve nel cuore - Brad (Paul Schneider) sistema l'albero
La neve nel cuore - un autobus se ne va nel cuore della notte... Ritornerà?
La neve nel cuore - una commossa Amy (Rachel McAdams) non trattiene le lacrime
A Private War - la giornalista inviata di guerra Marie Colvin (Rosamund Pike)
Inviata sui peggiori fronti di guerra, se la coraggiosa Marie Colvin avesse fatto la giornalista in Italia, sarebbe stata tacciata anche lei di "puttana"? A Private War (2018, di Matthew Heineman).
L’inferno della guerra raccontato da chi non si trincera dietro le linee “amiche”. L’orrore delle violazioni sempre più costanti ai danni della popolazione civile fatta emergere da chi rischia sulla propria pelle. Questo è lo sporco lavoro degli inviati al fronte. E chi lo fa davvero, dovrà imparare a convivere con alcuni dei peggiori incubi, e questo se riesce a sopravvivere. Ispirato alla vera storia della giornalista americana Marie Colvin (1956-2012), è uscito sul grande schermo A Private War (2018, di Matthew Heineman), film presentato in anteprima al Festival di Toronto.
L’Iraq “amico" nello scontro con l’Iran. Il dramma ignorato di Timor Est tra forze governative e le Tigri Tamil. E poi ancora l’Afghanistan del dopo-11 Settembre, di nuovo Iraq questa volta nemico da abbattere, Libia e infine la Siria. Lì, sul fronte, a schivare anche le pallottole e documentare l’orrore con la speranza sempre viva che qualcosa possa cambiare, c'è sempre lei. Marie Colvin (Rosamund Pike), inviata di punta del Sunday Times. Il suo è un lavoro rischioso. Da pazzi, eppure. Una volta che cominci, vuoi sempre ritornare. Una sorta di missione nel nome della verità perché quella, nelle guerre (e non solo), è abilmente mascherata.
Marie è piena di cicatrici, dentro e fuori l’anima. È lacerata ma ci crede ancora. È ancora convinta che un reportage dal fronte possa contribuire a far riflettere la gente e magari spingere anche qualche potente a invertire un destino ormai segnato. Sempre in prima linea. Lei, come l’amico fotografo Norm Coburn (Corey Johnson), e dall’Afghanistan in poi in coppia con il giovane Paul Conroy (Jamie Dornan). Insieme documentato tutto: attentati, fosse comuni ma soprattutto le storie delle persone.. Insieme rivelano al mondo la bestialità umana. Un bagno di sangue che dal terzo millennio sta implodendo soprattutto in Medio Oriente.
Perso un occhio durante un’esplosione, Marie è una donna pratica e va diritta al sodo. Dopo tanti servizi e riconoscimenti, adesso c’è una nuova e brutale guerra, in Siria (tutt'ora in corso, ndr). Le comunicazioni presidenziali parlano di aggressione a terroristi, lei invece, impavida e decisa, si nasconde tra le macerie sotto i bombardamenti raccontando in prima persona come l’arsenale di Assad sia in realtà rivolto contro la popolazione che, banalmente, non la vede come lui. Un fuoco estenuante che alla fine la colpirà a morte a Homms, il 22 febbraio 2012.
Un film come A Private War ha bisogno di una cornice ideale e a Venezia è il cinema Giorgione. Così è stato. Lì dentro, senza chissà quali effetti speciali, sono stato catapultato nell’orrore ignorato dei conflitti. Un mondo dove le donne non riescono nemmeno ad allattare i propri figli dandogli solo acqua e zucchero, e questi perdono la voce per il terrore. Eppure, lì nel mezzo, c’è ancora qualcuno che si batte per salvarli e non sono fantomatiche coalizioni di liberatori ma donne e uomini che mettono a repentaglio la loro vita per provare a fermare l’ennesimo e indiscriminato massacro.
Per chi esercita ancora la professione come il sottoscritto, un film sul giornalismo è qualcosa di molto atteso e coinvolgente. Ancor di più in questi giorni durante i quali l'intera categoria è stata attaccata e insultata da personaggi passati improvvisamente dalla disoccupazione a impieghi nel Governo o a finti-Che Guevara in gita familiare in Sud America dal quale si lanciano in sproloqui degni della peggiore bettola post partita. La libera stampa però ha reagito ed è scesa in piazza unita al grido (e hashtag) di:giù le mani dalla libera informazione #giulemanidallaliberainformazione
Strano mestiere davvero quello del giornalista. Quando scrivi bene di chicchessia, sei bravo. Se scrivi qualcosa che va contro i suoi interessi, sei un pessimo elemento al servizio dei potenti. Una condizione questa non limitata alla carta stampata/digitale, ma riguardante tantissime professioni in Italia a cominciare ovviamente dal vituperato arbitro calcistico. Ecco dunque, quando il sig. Alessandro Di Battista si permette di dare delle "puttane" a tutti i giornalisti solo perché alcuni hanno osato criticare (si chiama fare il proprio mestiere) il suo Movimento 5 stelle, si comporta esattamente come quelle stesse persone che fino a qualche anno fa criticava, dall'alto (ovviamente) della propria immacolata posizione.
La storia di Marie Colvin è emblematica al riguardo. Aldilà delle strette di mano di facciata, chissà cosa pensava davvero di lei l'ex-rais Muammar Gheddafi (1942-2011) o l'esimio collega-macellaio nonché ancora presidente in carica della Siria, Bashar al-Assad. Con tutta probabilità, è quasi scontato che non la reputassero una brava reporter ma un'odiosa ficcanaso al servizio dell'Occidente che si permetteva di criticare il loro operato. E ogni qual volta un giornalista viene attaccato per aver svolto il suo lavoro, i calunniatori non si discostano troppo da quest signori responsabili di crimini contro l'umanità.
Vista nel recente e drammatico Hostiles – Ostili (2017) sul genocidio dei nativi americani, l’attrice londinese Rosamund Pike (Made in Dagenham, La furia dei Titani, Gone Girl - L'amore bugiardo) offre una performance superlativa, mostrando spregiudicatezza, fragilità e una determinazione da vera guerriera. Una piacevole sorpresa Jamie Dornan (presto nuovamente sul grande schermo con Robin Hood - L'origine della leggenda, ndr) che smesse le veste dolci-sadomaso di Mr Grey, ben incarna il fotografo Conroy tra paura e un po’ di inevitabile spregiudicatezza.
A Private War (2018, di Matthew Heineman) è un film per chi crede ancora nella missione del giornalismo (raccontare la verità) e nel corso del tempo diventerà fondamentale alla stregua di Tutti gli uomini del presidente (1976, di Alan J. Pakula con Robert Redford e Dusitn Hoffman) fino ai recenti:
2018, viviamo l'epoca della disinformazione. Improvvisati blogger e aguzzini abili nel manipolare i social network confondono e abbindolano il popolo pecora. Le guerre però non si fermano, quelle mai. Ogni giorno bambini, donne e uomini periscono nell'anonimato dando la possibilità a tanti buoni samaritani della rete di farsi promotori della loro causa, ignorando poi anche le più basilari delle informazioni, cosa che al contrario un giornalista conosce. E ci sono anche loro, i giornalisti. Sempre meno, grazie anche a chi ci calunnia e insulta, ma ci siamo anche noi laggiù. E il nostro lavoro vi regala anche la possibilità di postare tutta la vostra più stupida superficialità.
A Private War (2018, di Matthew Heineman) racconta la storia di una reporter come ce ne sono sempre meno al mondo. A Private War racconta quanto sia rischioso il mestiere di inviato nelle zone di guerra. Un mondo già di per sé aberrante, ma che negli ultimi anni sempre di più ha preso di mira insieme ai civili anche i media sul campo. Come mai, verrebbe ingenuamente da chiedersi? La risposta la sapete e la conosciamo bene tutti. La risposta la sanno molto bene anche e soprattutto coloro i quali infamano questa professione. Ogni giornalista ha una sua Private War personale, che alla fine è ciò che accomuna chiunque faccia il giornalista: l'avere a cuore la verità, nient'altro che la verità.
Il trailer di A Private War
A Private War - il fotografo Paul Conroy (Jamie Dornan) e la giornalista Marie Colvin (Rosamund Pike)
Per i prossimi cinque sabati fino al 22 dicembre incluso, cineluk si apre alla magia del natale con altrettante recensioni di film che incarnano il vero spirito di questa festa.
Tutti a disprezzarlo e a sentirsi superiori, poi però nessuno è capace di negarsi a famiglia e parenti. Tutti a lamentarsi e a storcere il naso, ma guai a rinunciare a pranzi e cenoni. Tutto questo ha un solo nome, ed è ipocrisia. Se il natale vi fa tanto schifo come vi garba scrivere ovunque, statevene per conto vostro se ne avete davvero il coraggio. Chi è solo davvero invece e non ha nessuno, darebbe non so cosa per vivere la gioia di un tempo quando bastava una fetta di panettone per sentirsi oltre modo speciali. Anche se era per una unica giornata l'anno. È tempo di mettere fine a tutto ciò, e per farlo scende in campo la settima arte,
Cineluk – il cinema come non lo avete mai letto scende in campo in difesa del natale e lo fa con 5 recensioni che saranno pubblicate ogni sabato mattina a partire dal 24 novembre h. 10 fino al 22 dicembre prossimo. Nessuna anticipazione su quali saranno le pellicole che avranno questo onore ma una cosa è certa, nessun film racconterà di patetici luoghi comuni dove non si fa altro che sviscerare i rospi trattenuti in gola per tutto l’anno, salvo poi darsi un patetico e falso abbraccio fraterno facendo finta che d’ora in avanti tutto sarà diverso. Questo non è il natale. Questi non sono i natali di cineluk.
Gioia massima dei bambini, forche caudine per il mondo adulto. Perché? La risposta forse è molto semplice. Quando l’adulto non può più scimmiottare il bambino che è stato con la nuova prole, ecco l’indifferenza e la facile depressione. Come nelle relazioni umane, alla maggioranza delle persone non interessa approfondire la conoscenza di una persona, ma si limita a un superficiale e finto interesse per poi fregarsene sonoramente, il tutto ovviamente in contrasto con le parole di facciata e circostanza. Il natale s'inserisce proprio lì, mettendo a rischio questo fasullo equilibrio e rischiando di farlo (ovviamente) deragliare con le inevitabili collisioni che la festività impone.
Natale è donare? Natale è ricevere? Più che altro Natale dovrebbe essere soprattutto condivisione umana (reale, non online). Un desiderio sincero di stare insieme, pochi o tanti(ssimi) che sia ma per questo il mondo benestante passa la mano. Gli egoismi personali sono la legge imperante e ciò che è ancor più triste, è l’incapacità ogni anno di non saper limare un millimetro del proprio monolite di mediocrità. Un peso che giorno dopo giorno scortica il propria animo, lasciando al contrario esposta un grasso dardo ricoperto integrale di tutta la nostra più fiera e altezzosa tracotanza. Ma basta "parlare".Abbiamo una missione da portare avanti.
A parte un articolo-summa di 10 film significativi del periodo, fino a oggi, di recensioni ufficiali di film natalizi su cineluk - il cinema come non lo avete mai lettto, ne sono uscite davvero poche. A distanza di qualche anno dalla sua uscita sul grande schermo (2006), sbarcò sul magazine forse l’ultima grande romantica storia natalizia, The Holiday – L’amore non va in vacanza (2006, di Nancy Meyers) con Kate Winslet e Cameron Diaz da una parte, Jude Law e Jack Black dall’altra. Ambientato tra la campagna innevata britannica e il relax assolato californiano, è difficile non commuoversi nel corso della sua visione.
Discorso a parte meritano gli sketch dell’inqualificabile business-man Carcarlo Pravettoni (Paolo Hendel) e la sua ricetta segreta per un gustoso pandoro velenoso prodotto dalle proprie fabbriche. Lui, star della Gialappa’s band anni Novanta, il natale lo massacra per davvero e non si nasconde dietro finte facciate. Celebri le sue inqualificabili e spietate parole al riguardo: “Ecco, il fatto di farci quattrini a palate è l’unico aspetto ancora puro e poetico di questo grandissimo rompimento di coglioni”. Rispetto dunque per la sua scorrettissima sincerità. Veniamo all'immediato presente, infine.
Recensioni natalizie si, ma attenzione, cineluk non va in vacanza. Lì nel mezzo ovviamente usciranno articoli di film contemporanei, incluso il più atteso,Il ritorno di Mary Poppins con protagonista Emily Blunt. Quanto al natale, l’astinenza è finita. Quest’anno cineluk – il cinema come non lo avete mai letto fa sul serio e nei prossimi cinque sabati ve lo racconteràcon altrettante pellicole alle quali ispirarsi per vivere con onestà di cuore anche se, molto dipenderà da voi stessi. Solo quando avrete davvero voglia di guardarvi dentro e iniziare a cambiare qualcosa di voi, ne potrete davvero cogliere la magia. Magari proprio nel giorno della magica notte di natale.
The Children Act/ Il verdetto - il giovane Adam (Fionn Whitehead) e il giudice Maye (Emma Thompson)
La legge da una parte, l’etica e i principi dall’altra. L’equilibrio spesso non è facile da mantenere. È uscito al cinema The Children Act – Il verdetto (2017, di Richard Eyre).
La legge è nata per tutelare i cittadini. La legge è stata creata perché ideologie e miti non possano ledere la dignità del singolo. L’essere umano ha messo nero su bianco principi basilari su cui è fondata la propria società. Regole e normative che col tempo sono anche cambiate e cambieranno ancora ma certi pilastri del vivere collettivo sono intoccabili. E quando la legge si scontra con gl’inflessibili precetti religiosi, è la sensibilità umana che può fare la differenza. Basato sul romanzo “La ballata di Adam Henry” di Ian McEwan, è uscito sul grande schermo The Children Act – Il verdetto (2017, di Richard Eyre).
Fiona Maye (Emma Thompson) è un giudice brillante e capace. Non dice mai di no al suo lavoro, nemmeno ai casi più difficili e controversi. A risentirne però, la sua vita coniugale, trascurando sempre di più il marito Jack (Stanley Tucci), ormai giunto al capolinea. Lui rivorrebbe sua moglie ma proprio quando è deciso ad affrontare la questione, ecco presentarsi un nuovo processo. Un adolescente rischia di morire poiché rifiuta la vitale trasfusione di sangue. Lui e i suoi genitori sono testimoni di Geova nei cui testi sacri è espressamente proibito lo scambio del liquido rosso.
Adam Henry (Fionn Whitehead) è in ospedale. Il prof. Carter (Nicholas Jones) è allibito e deciso a fare l’impossibile per salvargli la vita. I suoi genitori, Kevin (Ben Chaplin) e Naomi (Eileen Walsh), sono testimoni di Geova. Come loro dunque, anche il ragazzo è convinto che sia proibito ricevere e donare il proprio sangue. Una scelta questa che lo potrebbe portare anche alla morte o a vivere con pesanti menomazioni. Sentite le parti, il giudice Maye ci vuole vedere chiaro e decide di fare qualcosa d’insolito. Accompagnata dall’assistente sociale, si reca a parlare col giovane. Niente genitori. Niente medici. Solo lei e lui.
Il processo finisce, ma qualcosa nei protagonisti muta se non addirittura si spegne per sempre. Essere a un passo dalla fine per propria (…) scelta, ritrovandosi poi a passeggiare per la City innamorandosi di ogni cosa che si vede, può avere una forza dirompente. L’adulta, e il ragazzino. Il vaso rischia di traboccare quando nel corso dell’ennesimo viaggio di lavoro a Newcastle, Fiona Maye, sempre coadiuvata dal fido Nigel (Jason Watkins), si ritrova faccia a faccia con un fradicio Adam. Nessuna brutta intenzione ma una richiesta di guida e di aiuto per comprendere il mondo. Lui non lo può sapere ma anche gli adulti non hanno sempre le idee chiare al riguardo.
Il cinema è una fabbrica universale di stili e linguaggi. C’è chi cerca il mero intrattenimento e una volta accomodatosi in sala, si accontenta di un piacevole diversivo per estraniarsi dalla realtà. Niente pensieri gravosi. Niente storie reali. Un po’ di sana magia della settima arte, anche grossolana e magari stracarica di effetti speciali. C’è anche un altro cinema, più articolato. Un filone che racconta storie ispirate alla realtà e capace di far riflettere molto più dell’ennesimo caso di cronaca giudiziaria. Questo è un mondo diverso. Questo è anche il cinema di The Children Act – Il verdetto.
Se la presenza di Stanley Tucci (Shall We Dance?, Il diavolo veste Prada, Il caso Spotlight) è un po' sacrificata, Emma Thompson (Casa Howard, Love Actually, Saving Mr. Banks) è una fiera leonessa di razza, capace di unire ordine, grinta e una sofferente sopita maternità. Un'autentica rivelazione Fionn Whitehead, ancor più intenso che nell'ambiguo Dunkirk di Christopher Nolan, dove interpretava il protagonista, il soldato Tommy. Adam è la vittima e il suo carnefice. Paga la sua giovane età. Non ha una vera guida ma solo un manipolo di persone che lo vogliono a propria immagine e somiglianza.
Come si può accettare l’idea di morire per un precetto, per altro non scritto certo da Dio ma dall’uomo, e soprattutto lasciare che ciò accada? La legge serve anche a questo. Per qualcuno sarà un affronto, per altri come i medici che hanno in cura il paziente, la speranza che questi possa proseguire la sua esistenza e non spegnersi avendo tra l'altro altissime possibilità di guarigione. Il dibattito è sempre aperto. Il dibattito ha attraversato i secoli e ancora oggi, è ancora molto più spalancato di quanto si potrebbe lontanamente immaginare.
The Children Act – Il verdetto apre una piccola parentesi sul mondo chiuso dei testimoni di Geova ma cosa dovrebbe dire la nostra società dove la stragrande maggioranza dei medici italiani sono obiettori di coscienza, ossi, rifiutano di praticare l’aborto, cosa per altro prevista dalla Legge? Una scelta che spesso ha avuto tragiche conseguenze. Ma di che sorprendersi se il massimo esponente della religione cattolica, Papa Francesco, ha chiaramente detto che abortire è come affittare un sicario? Come si evince, non serve far parte di una setta per trovare un terreno di scontro.
"Ho trovato Il verdetto un buon film, ben ambientato e recitato ma un tantino melodrammatico, soprattutto nel finale" commenta Alberto Spinazzi, grande appassionato di cinema e titolare della casa editrice veneziana Tragopano Edizioni, "Gran parte del merito del film sta nella protagonista Emma Thompson e gli altri personaggi le fanno da contorno. Anche la sceneggiatura è dello scrittore Ian McEvan (esattamente come nel nuovo film uscito oggi, Chesil Beach - Il segreto di una notte con protagonista Saoirse Ronan, ndr), ormai sempre più a suo agio con store strappalacrime. A ogni modo, nell'economia del cinema contemporaneo, Il verdetto è sicuramente da vedere".
Un minore va protetto, anche dalla sua famiglia se necessario. Oggi la nuova religione si chiama social network, e nello specifico Facebook e Instagram, dove ogni giorno genitori egoisti riversano le foto dei propri figlioli per mera ostentazione di felicità e raccolta di like, ignorando volontariamente le conseguenze future che un giorno potrebbero trovarsi ad affrontare, il cyberbullismo su tutti, e col rischio non celato che quelle foto siano già in mano a pedofili. Se ne riparlerà tra qualche anno, quando cominceranno a pronunciarsi nuovi e tristi verdetti.
Il trailer di The Children Act - Il verdetto
The Children Act/ Il verdetto - Fiona (Emma Thompson) e il marito Jack (Stanley Tucci)
First Man - Il primo uomo (2018, di Damien Chazelle)
Prima della conquista della settima arte e successiva scrittura di recensione, c'è il momento della poesia umana. È esattamente ciò che sta accadendo con First Man – Il primo uomo.
Il cosmo può aspettare, le emozioni no. Vent’anni esatti dopo la missione spaziale (immaginaria) di Armageddon – Giudizio finale (1998, di Michael Bay con Bruce Willis e Ben Affleck) , ecco uscire sul grande schermo First Man – Il primo uomo (2018, di Damien Chazelle con Ryan Gosling e Claire Foy), film di apertura di Venezia75. Storia vera questa dello sbarco sulla Luna. Passano gli anni ma nelle cuffie c’è sempre e solo lei, quella poetica I Don’t Want to Miss a Thing degli Aerosmith che proprio in questi minuti sta scrivendo una nuova fetta di storia della mia vita cinematografico-umana. L’inchiostro della parole uscirà prossimamente. Per il momento lasciamo spazio alla mera poesia.
Willy, il principe di Bel-Air - lo scatenato Willy (Will Smith)
25 anni e innumerevole serie televisive dopo, la sitcom anni '90 Willy, il principe di Bel-Air è ancora capace di regalare sincere risate, divertenti valori familiari e un po' di sana leggerezza.
Seduto su due piedi, qui con te... Ti parlerò di Willy, superfico di Bel-Air! Rivedere una serie televisiva a distanza di più di vent’anni può facilmente condurre alla nostalgia o peggio, la malinconia. Se il generazionale Friends ha scandito gran parte della mia vita giovanile-adulta, con altre realtà del piccolo schermo il discorso è più delicato. Ai tempi dei Jefferson ero un solo bambino, con Willy il principe di Bel-Air un adolescente e i ricordi sono molti di più. La prima puntata la ricordo bene, era l’autunno 1993 e facevo la III superiore. 25 lune dopo è ancora autunno e ogni sera sono davanti al teleschermo a vedermi, non esattamente da solo, le divertente puntate Willy, il principe di Bel-Air (1993-1997).
William “Willie” Smith (Will Smith) è un giovane scapestrato di Philadelphia. Come si evince dalla stesa sigla, complice un litigio con dei brutti ceffi sul campetto da basket, la madre Viola (Vernee Watson-Johnson - non la signora che appare durante il cantato, ndr), preoccupata, lo spedisce sulla costa occidentale a Bel-Air dalla sorella Vivian (Janet Hubert-Whitten prima, st. 1-3; Daphne Maxwell Reid poi, st. 4-6), sposata col ricco avvocato Philip Banks (James Avery). Insieme a loro vivono i tre figli: la maggiore Ilary (Karyn Parsons), il maschio Carlton (Alfonso Ribeiro), la più piccola Ashley (Tatyana Ali) e il maggiordomo inglese Geoffrey (Joseph Marcell).
Prime tre stagioni da incorniciare (e seconde tre da dimenticare, ndr) in particolare sull’asse Willy-Carlton- zio Phil, il tutto spesso e ulteriormente aizzato dall’amico perdigiorno Jazz (DJ Jazzy Jeff), mal tollerato dal capofamiglia anche perché ha una cotta per Ilary. L’ingresso dello straniero nella prestigiosa Bel Air Academy racconta momenti a tratti grandiosi, con il giovane Willy esportatore di una rivoluzione nei modi e nel linguaggio che giorno dopo giorno, farà sempre più breccia tra i compagni di classe, bianchi inclusi, questi ultimi dipinti quasi sempre come tonti e pieni di denari. Momenti epici anche da parte di Geoffrey. Più sottotono e di contorno la presenza femminile.
Tanti i camei delle star, a cominciare dall’ex-Strikland di Ritorno al Futuro, James Tolkan, nei panni del Dott. Oates col quale Willy avrà uno scontro in classe. Un giovane Don Cheadle (The Family Man, Hotel Rwanda, Flight) è Ice-Tray, amico d’infanzia venuto a Bel-Air a trovare Willy. E sempre dalla città di origine del protagonista, ritrovata poi al college, spazio alla bellissima Tyra Banks nei panni dell’ex-fidanzata Jackie Ames. Se per il compleanno del maggiordomo poi, arriva la "tata" dei vicini Naomi Campbell, a sfidare lo zio Phil alla poltrona di Giudice della Corte Suprema, c’è nientemeno che Sherman Hemsley, il mitico George Jefferson della serie i Jefferson. E per finire, anche la celebre presentatrice Ophra Winfrey e l'attuale inquilino della Casa Bianca, il presidente Donald Trump.
Indiscusso protagonista, ovviamente lui, Will Smith (La leggenda di Bagger Vance, Alì, Zona d'ombra), all'epoca 25enne. Una simpatia contagiosa che ancora oggi, nell'epoca delle serie di autore, è in grado di suscitare. Willie Smith, indiscusso simbolo di un'epoca dove impazzava l'ormai defunta MTV e il mondo aveva ancora un'ideologia per cui lottare. Dietro una certa leggerezza della serie, infatti, lentamente si scopre che gli zii di Willy non sono dei nati-ricconi, ma gente venuta dal basso che ha lottato duramente e ancora oggi, con mezzi diversi e adeguati ai tempi, fanno la loro parte per il bene della propria comunità.
Io e Willy Smith abbiamo molto in comune. Sarà che dentro di me ho sempre avuto (e ho tutt'ora) il rimpianto di non essermene andato via quando era il momento, la storia di un liceale che ricomincia da zero una vita che rischiava di deragliare, mi è sempre stata affine. Un destino analogo a quello del Ryan Atwood (Benjamin McKenzie) di The O.C. (2004-07). Rispetto a quest'ultima però, la serie anni Novanta è decisamente più scanzonata. All'inizio Willy è fuori posto, via via però si ambienta rimanendo sempre il medesimo giovane di mezza-strada e non svendendosi mai troppo agli agi californiani.
Sono passati 25 anni da quando Willy il principe di Bel-Air sbarcò per la prima volta su Italia1. Ricordo ancora la pubblicità che ne annunciava l'imminente arrivo. Vista la puntata dell'esordio, ci volle davvero poco perché diventasse un appuntamento fisso della mia solitudine adolescenziale. E se magari dovevo proseguire con lo studio di greco o filosofia che fosse, quando era il momento dell'unica puntata giornaliera di Willy, il principe di Bel-Air (verso le 7 di sera se non erro), scattava d'obbligo la pausa televisiva per poi riprendere con i libri.
Da qualche tempo su Spike TV (canale 49 del Digitale Terrestre) hanno ricominciato a trasmettere quelle epiche puntate. Pensavo mi avrebbe fatto uno strano effetto. Lì per lì pensavo avrei cambiato programma dopo pochi minuti. Più amaramente pensavo non mi sarebbero più piaciute dopo le recenti indigestioni dei pesi massimi di nuova generazione come il corale Big Little Lies, l'intenso e malinconico Better Call Saul, il poliziesco Shades of Blue con Jennifer Lopez, il musicale Roadies o Billions con la coppia Paul Giamatti-Damien Lewis. Invece no. Complice anche una nuova visione della vita, non c'è sera ormai che non sia in prima fila a guardare e ballare insieme alla travolgente sigla iniziale.
Il tempo è passato e sta passando sempre più veloce, un anno dopo l'altro. Presto toccherà ad altri abbandonare il nido. L'infanzia lascerà il posto a tutte le sue successive fasi, con lacrime e gioie. Il momento dell'ultima puntata della 6° stagione di Willy, il principe di Bel-Air si sta avvicinando. Forse ricomincerà subito dopo o chissà, magari verrà trasmessa una delle migliori serie del terzo millennio, Frasier, con protagonista per l'appunto il dott. Frasier Crane (Kelsey Grammer), psicologo radiofonico di Seattle. Ho scritto troppo. Chiudo. Parafrasando una indimenticabile poesia scritta sul momento da Willie, "Le rose sono rosse, le melanzane sono blu... Mi sto commuovendo troppo, ma con noi ci sei anche tu".
La sigla iniziale di Willy, il principe di Bel-Air
Willy, il principe di Bel-Air - il maggiordomo Geoffrey (Joseph Marcell), Jazz (DJ Jazzy) e Willy (Will Smith)